Anna Tortora, la sorella di Enzo, il presentatore vittima di uno dei più colossali errori giudiziari degli anni '80, di un'inchiesta condotta come peggio non si poteva dai Pm Diego Marmo e Felice Di Persia (cento casi di omonimia su duecento arresti), andava su tutte le furie quando, dieci anni dopo, i tangentisti, col supporto degli 'garantisti di giornata' (fra cui si era arruolato Vittorio Feltri -il più forcaiolo dei forcaioli finché dirigeva L'Indipendente- dopo essere passato alla corte di Berlusconi), paragonavano la vicenda di suo fratello alle proprie. Adesso, a trent'anni di distanza, uno di quei Pm, Diego Marmo, ha ammesso i suoi errori e Feltri, molto abile nell'attribuirsi medaglie al merito, ne approfitta per gloriarsi di essere stato una 'mosca bianca' nel difendere, a suo tempo, il presentatore di Portobello (Il Giornale, 28/6). Mosca senz'altro, bianca un po' meno. Ricordava Giangiacomo Schiavi in un articolo sul Corriere del 27/5/2008 che il primo a scendere in campo in difesa di Tortora era stato Enzo Biagi, seguito da Indro Montanelli, Giorgio Bocca ma anche dal 'cronista solitario' Vittorio Feltri. Per la verità il primo a difendere Tortora, con un articolo pubblicato sul Giorno una settimana dopo il suo arresto ('Io vado a sedermi accanto a Tortora' Il Giorno, 25/6/1983), sono stato io. Certo non avevo l'autorevolezza di quei colossi ma scrivevo pur sempre sul terzo quotidiano italiano di cui ero una delle prime firme, alla pari perlomeno col 'cronista solitario'. Questa tendenza, sistematica, a obliterarmi, sempre e comunque, comincia a darmi sui nervi e mi spiace che vi ceda anche Giangiacomo Schiavi, giornalista che stimo molto credo ricambiato visto che mi affidò la prefazione all'autobiografia di Gigi Rizzi, Io,BB e l'altro '68, da lui curata, recentemente ripubblicata dal Giornale dell'insolvente Sallusti, che non paga i pezzi che mette in pagina.
Ma non è questa, ovviamente, la questione. E' che l'articolo di Feltri è strumentale, tutto teso com'è a instaurare un parallelo fra Tortora e Berlusconi. «Adesso mi viene un dubbio. Che riguarda Berlusconi Silvio, da Arcore. Non sarà che fra sei lustri anche coloro che oggi si accaniscono contro di lui riveleranno di avere un filo esagerato nel perseguirlo?». Anna Tortora, che è morta alcuni anni fa, di tumore come il fratello, si rivolterà nella tomba. Nessun paragone è possibile fra Tortora e Berlusconi. Tortora, eletto nelle file dei radicali, rinunciò all'immunità parlamentare, Berlusconi non solo non ha rinunciato a nulla ma ha fatto di tutto per nascondere i suoi reati, o eliminandoli per legge (falso in bilancio) o allungando a dismisura, con norme ad hoc, i tempi del processo in modo da poter godere della prescrizione in sette casi (e in almeno due di essi la Cassazione ha accertato che l'ex Cavaliere quei reati li aveva effettivamente commessi ma era scaduto il tempo per perseguirli). Tortora, sia pur alla fine del suo calvario, è stato assolto, Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Ma, cosa ai miei occhi più grave di tutte, fra il 1979 e il 1980, insieme al sodale Previti, scippò alla marchesina Annamaria Casati Stampa, minorenne, orfana, sconvolta da una tragedia familiare, la villa di Arcore e un immenso contado per quattro soldi. Una truffa da magliari, miliardaria, moralmente ripugnante. Per averla raccontata, peraltro basandomi su un libro, documentatissimo, di Giovanni Ruggeri ('Gli affari del Presidente') Previti, dopo essere stato tirato più volte per i capelli, mi fece causa. E la perse. Era tutto vero.
Tortora, uomo solitario, era una persona perbene. Berlusconi non lo è mai stato. E se oggi viviamo in «un Paese di merda», come si esprime con l'eleganza che gli è propria 'il cronista solitario', è anche merito suo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2014
Con l'assassinio il 28 giugno del 1914, a Sarajevo, dell'Arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie per mano di un giovane serbo, Gavrilo Princip, ha inizio l'età contemporanea. Non quella moderna che era partita molto prima. In genere a scuola e nelle università si fa iniziare la Modernità con la scoperta delle Americhe, che poi scoperta non era, di Cristoforo Colombo (1492). Ma non è solo una data convenzionale è anche priva di senso. La Modernità comincerà due secoli e mezzo dopo con la Rivoluzione industriale che partita dall'Inghilterra a metà del XVIII secolo coinvolgerà prima l'intera Europa e il Nord America e poi, in seguito alla globalizzazione, che ne è una conseguenza inevitabile, tutto il pianeta. Sarà questa Rivoluzione a cambiare radicalmente la nostra esistenza, la vita materiale, la mentalità, gli stili di vita. Sarajevo 1914 da questo punto di vista non cambia assolutamente nulla. Muterà invece l'assetto geopolitico dell'Europa. La 'grande guerra' segnerà infatti la fine del grande e civilissimo Impero austro-ungarico che era riuscito a tenere insieme, senza ricorrere alla violenza, se non in modo sporadico, popolazioni culturalmente diversissime, austriaci, ungheresi, rumeni, bulgari, musulmani, sloveni, croati e serbi. Grande e civile Impero. Se Milano, nonostante tutti i mascalzoni e sottomascalzoni che l'hanno governata nel dopoguerra italiano, conserva ancora una burocrazia relativamente efficente, se non è Napoli o Palermo, è grazie all'imprinting che gli diede Maria Teresa d'Austria.
Il miracolo di tenere insieme, in quella che allora era la Jugoslavia, serbi, croati e musulmani riuscì anche al dittatore Tito, bisogna riconoscerglielo, ma con metodi assai più brutali, deportando intere popolazioni su quel territorio, un po' come aveva fatto, ma su una scala infinitamente maggiore, Stalin in Unione Sovietica.
Gli americani usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale e con le mani libere dopo il crollo dell'Urss del 1989, commisero l'errore, insieme ad alcuni Paesi europei, come la Germania, cui va aggiunto il Vaticano, di negare ai serbi di Bosnia l'indipendenza (o la riunione con la madrepatria di Belgrado) che avevano invece concesso senza fiatare a Slovenia e Croazia. Una Bosnia multietnica a guida musulmana aveva infatti senso in una Jugoslavia multietnica quale era stata quella di Tito. Ora non lo aveva più. E così i serbi di Bosnia scesero in guerra e poiché sul terreno, a detta di chi se ne intende, sono i migliori combattenti del mondo e oltretutto potevano contare sul retroterra della Serbia di Milosevic (mentre i musulmani questo retroterra non l'avevano, potevano contare solo su qualche aiuto dall'Iran), quella guerra la stavano vincendo. Ma americani ed europei decisero che invece dovevano perderla, per molte ragioni, fra le quali, e non delle minori, c'era che il loro grande protettore, Slobodan Milosevic, era a capo dell'ultimo Paese rimasto comunista, o meglio, paracomunista, in Europa. E si intestardirono nel mettere in piedi uno Stato che non era mai esistito e inesistente, la Bosnia.
E così oggi, a cento anni di distanza, Gavrilo Princip è considerato un terrorista a Sarajevo Ovest e un eroe a Sarajevo Est. E una volta che le forze internazionali si saranno ritirate dalla Bosnia, cosa che prima o poi, come in Kosovo, dovrà avvenire, tutto ha l'aria di poter ricominciare da capo.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 4 luglio 2014
Nell'orgia di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato l'uomo, l'unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di questo Soggetto.
A me questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista, sia esso ebreo, cristiano o musulmano, cominciano a stare profondamente sulle palle. Dimenticano con troppa disinvoltura le infamie di cui si sono coperti. Gli ebrei con la pretesa di essere «il popolo eletto da Dio» hanno fondato quel razzismo di cui in seguito diverranno tragicamente vittime. Ma almeno non hanno mai avuto mire espansive. In quanto agli altri due 'adoratori del Dio unico' hanno distrutto, al seguito dei propri eserciti, intere popolazioni e culture, più miti, da quelle dell'America precolombiana a quelle dell'Africa centrale. Prima che, nel 1789, entrasse in campo un'altro Dio, questa volta laico, anzi una Dea, la Dea Ragione, le guerre di religione sono state le più spietate. Il Medioevo europeo era cristiano ma essendo la grande maggioranza della popolazione contadina, oserei dire che, nella gente comune, era un cristianesimo che tendeva al pagano, all'animismo, un po' come per le popolazioni dell'Africa nera. Le guerre le facevano i professionisti, i cavalieri. Ma furono guerre ridicole. A parte casi limite, come la battaglia di Anghiari (1440), resa famosa da un abbozzo di Leonardo, dove su undicimila combattenti si sarebbe avuto, a detta di Machiavelli, un solo morto (le stime, più attendibili, di Flavio Biondo parlano di sessanta caduti) o come quella di Bremule (1119) dove i morti furono tre o come quella guerra che, a leggere le cronache, «imperversò un anno in Fiandra» dopo l'assassinio di 'Carlo il Buono' (1127), ma in cui caddero sette cavalieri dei quali uno solo in combattimento, è assodato che il bilancio di quasi tutti i conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti. C'è però un'eccezione, il 1500, il 'secolo di ferro' caratterizzato dalle guerre di religione. Nella sola 'notte di San Bartolomeo' (1572) furono uccisi 20 mila ugonotti. E ce ne vuole di ferocia per fare un tale massacro all'arma bianca. Ma è solo un esempio, fra i tanti.
Adesso ci sono guerre, mezzo di religione e mezzo di potere, fra sunniti e sciiti in Iraq, causate dall'intervento militare del 2003 dei pii protestanti americani («Dio protegga l'America», e perché non il Burkina Faso?) e guerre di religione in Nigeria fra gli estremisti islamici di Boko Aram e altri islamici il cui obbiettivo finale è però l'Occidente (Boko Aram significa letteralmente «L'educazione occidentale è peccato»). In queste guerre ci vanno spesso di mezzo anche i cristiani. La cosa non mi commuove. Non dovevano andare, loro o i loro predecessori, animati da spirito missionario, dallo spirito del Bene, in luoghi che non li riguardavano affatto.
Io temo il Bene perché, rovesciando la famosa frase di Goethe, «operando eternamente per il Bene realizza eternamente il Male». Preferisco il Male che si presenta come tale. Io sto col Male.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2014