Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni ‘obtorto collo’, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e con lui il suo governo giallo-rosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.
Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.
Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. E’ contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.
Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.
Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi ‘stranieri’ abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora Presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini ‘sovranisti’, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2020
Il paziente lettore ricorderà forse la mia telenovela kafkiana con Sky. La riassumo nell’essenziale. Io sono un abbonato Sky, posso godere di tutta la sua produzione. Ma a me interessa solo il calcio di cui questo network ha l’esclusiva. Quando a metà estate sono ricominciate le partite di Champions mi sono precipitato sui canali Sky dedicati al calcio ma sullo schermo appariva l’odiosa scritta “mancanza di segnale”. Potevo vedere sport tipicamente americani, come il basket o il baseball, con i Los Angeles Lakers o i Golden State Warriors, di cui non me ne potrebbe fregar di meno, ma anche le trasmissioni di calcio parlato, non le partite. Contattare Sky, come ho raccontato, è stata un’odissea, quando finalmente ho raggiunto un essere umano costui mi ha risposto che la responsabilità era del mio condominio. Quando con molte difficoltà ho raggiunto il tecnico del condominio, tale Formichetti, costui non si è nemmeno peritato di salire sulla terrazza a controllare le parabole mettendomi in una posizione di debolezza con Sky che aveva gioco facile a rimpallarmi al condominio. Ma anche l’Amministratore del condominio Bressan ci ha messo del suo, cioè niente, perché si è completamente disinteressato della questione che riguardava, oltre a me, anche un altro coinquilino. Del resto si sa cosa sono, in genere, questi amministratori: degli architetti falliti. Se ho potuto vedere qualche partita è per i magheggi di mio figlio Matteo che è una specie di hacker.
Bene. Il 29 agosto è cominciato il Tour. Mi sono detto: perdio, il Tour non me lo toglie nessuno perché lo dà Rai2. Vado su Rai2 all’ora della tappa e sullo schermo appare la solita scritta “nessun segnale”. Vado allora su Eurosport che non è di Sky ma viene ospitato dalla piattaforma Sky. Lì per lì sembra funzionare ma ad un certo punto il telecronista comincia a balbettare. Oddio, non gli sarà venuto un coccolone? No, è il preannuncio di quello che avverrà poco dopo: sullo schermo appare…Telefono disperato a mio figlio che mi dice “vai sul 5002 e lì probabilmente puoi vedere le tappe”.
Anche il ciclismo subisce l’eccesso di razionalizzazione e di economizzazione. Non è più uno sport di campioni solitari che fanno imprese eccezionali, alla Pantani, ma è uno sport di squadra, il che appiattisce tutto. Cosa fa la squadra più forte che quest’anno è la Team Jumbo-Visma di Roglic, che ha un fortissimo sponsor? In una tappa impegnativa, di salita, mette davanti un suo uomo che tira a tutta. A quella velocità nessuno può azzardare uno scatto. Dopo che il primo ha fatto il suo lavoro, ne subentra un altro e un altro ancora. La corsa è paralizzata. Vengono fatti fuori campioni importanti che in altre circostanze potrebbero dire la loro ma che qui vengono pian piano eliminati, perché non reggono quel passo ossessivo com’è successo l’altro giorno a Quintana e al vincitore del Tour dell’anno scorso Bernal. Insomma sembra essere ritornati a quelle gare di eliminazione su pista dove ad ogni giro l’ultimo della fila finiva fuori.
Nostalgia del vecchio ciclismo. C’erano delle specificità nazionali. I velocisti erano tutti belgi e qualche olandese. Campioni delle “classiche”, le gare di un solo giorno. Italiani e francesi erano grandi scalatori o passisti scalatori che vincevano il Tour o il Giro (Coppi, Bartali, Magni, Nencini, che fumava come un turco e si faceva anche un whisky prima della partenza, Louison Bobet, Jacques Anguetil). Qualche scalatore solitario c’era anche in Spagna, Bahamontes per andare molto indietro, e per andare ancora più indietro, a prima della guerra, “Trueba la pulce di Torrelavega”. Vincevano tappe, mai un Giro. I soli ad essere rimasti se stessi, come da tradizione di un Paese dove non succede mai nulla, sono gli svizzeri. Cronoman eccezionali. Ai tempi di Anquetil e soci c’era Rolf Graf che vinceva tutte le cronometro. Ma se doveva stare in mezzo al gruppo era un disastro perché in gruppo si “lima”, come si dice in gergo, e lui non ne era capace. La tradizione è stata poi proseguita da Alex Zulle, peraltro anche passista scalatore e uomo da Giro, Tour e Vuelta (qualcuno ricorderà la crono di Trieste del 1998: 40 chilometri alla media di 53,77, record insuperato su quella distanza) da Fabian Cancellara e oggi Marc Hirschi (22 anni). Non c’è che dire, gli svizzeri sono sempre rassicuranti. Non solo nel ciclismo.
Quando ero ragazzo gli italiani tenevano ovviamente a Coppi, Bartali, Magni. Io tenevo a Rik Van Steenbergen, il più grande velocista di tutti i tempi. A me piacciono gli “assoluti”, quelli che in una determinata specialità sono imbattibili. Quando al Giro o al Tour si profilava un arrivo in gruppo mio padre che dirigeva Il Corriere Lombardo, quotidiano del pomeriggio, faceva mettere in piombo “1°Rik Van Steenbergen” per guadagnare qualche minuto sui rivali de La Notte di Nino Nutrizio. Di Van Steenbergen ricordo una memorabile vittoria nel Campionato del mondo (ne vinse tre) del 1957 a Waregem, in Belgio. Era il primo Campionato che trasmetteva la Tv. Ma le telecamere non erano mobili, erano fisse, si vedeva solo l’ultimo chilometro. Ad un certo punto lo speaker annunciò: “Sono fuggiti in sei, tre francesi, Louison Bobet, Jacques Anquetil, Dedè Darrigade e tre belgi, Fred De Bruyne, Rik Van Looy…”, e qui lo speaker fece una sapiente pausa ”…e Rik Van Steenbergen”. Dalla folla che seguiva la corsa sul circuito si levò un urlo: con Rik la vittoria era assicurata. Nell’ultimo chilometro c’era un ponticello le cui spallette coprivano i corridori. Ma sulle spallette si vide elevarsi una gobba, era Van Steenbergen che lanciava la volata agli ottocento metri (oggi un velocista se, dopo essere stato pilotato dai compagni, parte ai cento è già tanto). Alla sua ruota si mise l’infido Van Looy che teoricamente era un suo gregario, sperando di bruciarlo negli ultimi cento metri. E così fece. E qui si assistette a una scena comica. Uscito dalla scia di Van Steenbergen, che era alto 1,88 e possente, Van Looy invece di avanzare cominciò ad arretrare. Arriverà quarto o quinto. Negli ultimi anni era apparsa una nuova stella come velocista, lo spagnolo Poblet che aveva uno sprint fulminante negli ultimi cinquanta metri. In un Giro che doveva essere del 1961 o 62, non ricordo, Van Steenbergen aveva vinto in volata quattro tappe, Poblet pure. Ma c’era l’ultima tappa che si concludeva al Vigorelli. Era una sfida all’O.k Corral fra Van Steenbergen e Poblet. Sul circuito apparve prima Van Steenbergen con la scritta Cora su una maglia nera, che completava il suo aspetto piuttosto tenebroso. Dietro Poblet. Ai cinquanta metri Poblet lanciò il suo sprint micidiale ma Van Steenbergen con un colpo di reni formidabile lo fulminò. Van Steenbergen, che se avesse voluto avrebbe potuto anche correre per la vittoria in un Giro o in un Tour, in quello del 1951, vinto da Magni, si mise alle spalle Kubler e Coppi.
Vabbè, ho parlato come sempre del passato. Del resto “passato è bello” mi aveva soprannominato il mio caro amico Walter Tobagi che credeva di avere un grande futuro che gli fu invece spezzato da due ragazzi male educati.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2020
Trovo insopportabili questi piagnistei sui bambini fotografati in ginocchio davanti a una sedia che funge da banco a scrivere o a disegnare, come è avvenuto alla scuola elementare Maria Mazzini di Genova. A parte che i banchi sono arrivati il giorno dopo, da che mondo e mondo i bambini quando sono a casa propria scrivono e disegnano in ginocchio su un foglio appoggiato al pavimento. Se da ragazzi avevamo sempre le ginocchia sporche, per la disperazione delle nostre madri (“vai a lavarti!”) era anche per questo.
Il problema autentico a me pare un altro ed è quello della quarantena. Poniamo che in una classe di una scuola sia trovato un bambino o un ragazzo col Covid. Tutta la classe insieme ai genitori del bambino viene messa in isolamento. Per 14 giorni i ragazzi non potranno studiare, ma quel che è peggio i loro genitori non potranno andare a lavorare. Non solo. Bisognerà rintracciare le persone con cui negli ultimi giorni sono venuti in contatto i genitori. Anche queste devono andare in isolamento? A rigor di logica sì. E se fra questi soggetti che sono venuti in contatto con i genitori del bambino o ragazzino o ragazzo si trova un positivo anche questo, a rigor di logica, dovrà essere messo in isolamento? E se fra i conoscenti dei conoscenti del genitore del bambino si trova un positivo anche questo, a rigor di logica, dovrà essere messo in isolamento e ricercate le persone con cui è venuto in contatto fra le quali si potrebbe trovate benissimo qualcuno positivo al Covid in una filiera interminabile? E questo partendo da un solo caso di un bambino trovato positivo in una classe. Ma è molto probabile che bambini o ragazzini o ragazzi positivi a scuola se ne troveranno a centinaia e quindi si creerà una ragnatela che in poco tempo potrebbe investire mezzo Paese. E’ così o non è così? E’ così o sto dicendo cazzate? Su questo punto mi piacerebbe avere una risposta precisa dal Governo, dal Ministero della Pubblica Istruzione, dal Comitato Tecnico Scientifico e non da un epidemiologo intervistato da un giornale perché abbiamo visto che non ce n’è uno che sia d’accordo con l’altro.
Trovo insopportabili e del tutto strumentali le polemiche che si sono fatte sulle “criticità”, parola orribile, che si sono manifestate nei primi giorni del ritorno a scuola di oltre otto milioni di studenti dopo sei mesi di lockdown (mancanza di banchi, carenze di mascherine, parco docenti insufficiente, ridotti al minimo gli insegnanti per i disabili, eccetera) sono situazioni così intricate che nemmeno il mago Zurlì, con la sua bacchetta magica, potrebbe risolvere in un sol giorno e nemmeno in una settimana e forse in un mese. Il Governo e il ministro della Pubblica Istruzione non si sono preparati a tempo? Può essere. Ma “c’è chi naviga e va per mare e c’è chi sta a terra e giudica”. E’ troppo facile, come fa Salvini, sparare da terra su un battello in difficile navigazione.
Adesso con la riapertura delle scuole e la ripresa di tutte le attività lavorative la curva del Covid risalirà per forza. E’ necessario accettare questa realtà, non fare drammi per qualche morto in più e soprattutto non ritornare al lockdown che questo Paese e i suoi cittadini non potrebbero reggere né economicamente né, soprattutto, psicologicamente.
Io resto dell’idea che sarebbe stato meglio lasciare che l’epidemia facesse il suo corso e poi se ne andasse come se ne sono andate, storicamente, e in tempi relativamente brevi, tutte le epidemie. Ma una decisione del genere avrebbe dovuto essere presa a livello globale, da tutti i Paesi, diciamo dall’Oms. Ormai è troppo tardi per tornare indietro. Così ci trascineremo questo Covid quasi insignificante per numero di morti, ma devastante dal punto di vista economico, sociale e psicologico, per decenni. Credo anche che il tanto agognato vaccino servirà a poco, perché il Covid, per difendersi, muta di continuo e si adatta alle nuove condizioni. Insomma è un po’ più intelligente dell’uomo.
P.S. Berlusconi ha dichiarato di aver avuto un Covid con una carica virale mai riscontrata in nessun altro paziente. Anche malato e conciato da paura deve essere comunque sempre il primo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2020