La fuga di Puigdemont ad Anversa per chiedere asilo politico sembra la cosa più intelligente, non è la più giusta. Sembra la più intelligente perché ad Anversa, città caposaldo dell’indipendentismo fiammingo, Puigdemont potrebbe presumibilmente costituire un governo in esilio, come fece De Gaulle dopo l’invasione tedesca nella Seconda guerra mondiale, rifugiandosi a Londra. Ma non è la più giusta perché restando in Spagna e facendosi incarcerare avrebbe dimostrato il carattere dittatoriale del regime spagnolo mettendo ben in chiaro chi, in terra iberica, è democratico e chi non lo è fra realisti e indipendentisti. Ci sono momenti nella vita di un uomo, politico o non, in cui ha il dovere di dimostrare d’esser tale, sia a se stesso sia a coloro che lo hanno seguito, pagando anche prezzi personali altissimi (come si sa Puigdemont e molti dei suoi collaboratori sono accusati di reati gravissimi –principalmente di sedizione- che prevedono fino a trent’anni di carcere). Lucio Sergio Catilina va fino in fondo alla sua storia, pur sapendo che al quel fondo lo aspetta solo la morte, ed è per questo che rimane nella Storia come un esempio indelebile della rivolta contro il Potere. Erano altri tempi, molto diversi dai nostri dove assai raramente un capo politico si assume fino in fondo la responsabilità delle sue azioni e delle sue decisioni. In Italia si potrebbe fare un elenco infinito, che va dalla vergognosa fuga degli Stati Maggiori dopo la rotta di Caporetto quando i fanti –contadini- si rifiutarono di continuare a farsi ammazzare in nome degli interessi della borghesia e della tattica omicida/suicida dell’‘attacco frontale’ del generale Cadorna, al Re e Badoglio che il 9 settembre del 1943 lasciano, ben provvisti di ogni masserizia, Roma allo scoperto in balia dell’esercito tedesco, a Benito Mussolini che, dopo tanta retorica sulla ‘bella morte’, che indusse tanti giovani fascisti a immolarsi per la Repubblica di Salò, fugge travestito da soldato tedesco, ai ‘cattivi maestri’ contemporanei come Tony Negri, altro emblema dell’eterno “armiamoci e partite”, ad Aldo Moro che dal carcere delle Brigate Rosse scrive le lettere che scrive facendo strame di tutte quelle Istituzioni a cui aveva chiesto agli italiani di credere, fino a Bettino Craxi che, per non scontare le proprie responsabilità, se la fila in Tunisia.
Ma torniamo alla questione catalana. Non è una questione di diritto anche se da questo punto di vista gli indipendentisti avrebbero delle buone carte in mano richiamandosi al Trattato di Helsinki del 1975, firmato da 35 Paesi, fra cui la Spagna, che stabilisce il principio dell’”autodeterminazione” dei popoli. Non è una questione di diritto perché tutte le norme costituzionali e tutte le decisioni delle varie Corti e dei vari magistrati non hanno alcun senso quando è in atto una secessione. Quando gli americani nel 1776 dichiararono la propria indipendenza non rispettarono, ma violarono, ovviamente, la Costituzione della Gran Bretagna. Ogni secessione riuscita è un ribaltamento dell’ordine costituzionale preesistente.
La repressione del governo di Mariano Rajoy, con l’appoggio dell’Europa, è ottusa, soprattutto se vista da parte degli europei. Gli indipendentisti catalani vogliono separarsi dalla Spagna non dall’Europa. E questa, nell’attuale situazione storica, è l’unica possibilità per un indipendentismo europeo. E’ chiaro infatti che nessun indipendentismo nel Vecchio Continente può affermarsi senza l’appoggio degli altri Stati europei. Verrebbe strangolato economicamente (è questo il modo vigliacco in cui oggi si combattono le guerre, vedi Maduro e il Venezuela) come aveva già cominciato a fare il governo di Madrid. D’altro canto l’indipendentismo, letto in questa chiave, non costituisce alcun pericolo per l’Europa, anzi in un certo senso la rafforza portandovi all’interno, almeno in alcuni casi, come quello catalano, movimenti più convintamente europeisti.
Questa è la situazione allo stato attuale delle cose. A più lunga, e per ora utopica, gittata l’indipendentismo va verso quella ricostituzione delle ‘piccole patrie’ (che era l’ipotesi della prima Lega di Bossi e Miglio) e quindi di comunità in cui possano riaffermarsi quei valori, prepolitici, preideologici, prereligiosi, di solidarietà, di dignità, di onestà di cui oggi sentiamo urgentemente il bisogno, ma che il processo di globalizzazione ha distrutto (e l’Italia ‘sovranista’ che tanto piace, in contraddizione con se stesso, a Matteo Salvini è una sorta di ‘punta di lancia’ di questa distruzione dei valori primari che, temo, infetterà l’intera Europa continentale).
Ma più in profondità ancora l’indipendentismo, attraverso altri fenomeni che non vi sembrano collegati e che invece lo sono, fino all’”America first” di Donald Trump, è una rivolta sotterranea e carsica contro l’ordine mondiale che si è costituito all’indomani del 1945. Quindi “hasta la vista, hasta siempre” Catalogna.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2017
In un bel articolo sul Corriere (26/10) Paolo Di Stefano cerca di definire quel sfuggevolissimo stato d’animo, più sfuggente anche dell’amore, che chiamiamo felicità. E lo fa attraverso le definizioni che ne hanno dato importantissimi personaggi: da Einstein a Montale, da Aristotele a Seneca, da Tolstoj a Winston Churchill. Ma nessuno ci azzecca. Naturalmente, a cospetto di tali cervelli, non posso certo esser io a farcela quando nella mia opera teatrale Cyrano, se vi pare… dico: “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità”. Chi ci arriva più vicino è quel genio di Oscar Wilde, che oltre a essere un grande scrittore era anche un filosofo non preso sul serio in questa veste perché lui stesso, per il gusto della battuta a cui era disposto a sacrificar tutto, era il primo a non prendersi sul serio (“Nella mia vita ho messo la mia arte, nella mia opera ho messo solo il mio talento”. E’ vero il contrario). Nel suo modo paradossale Wilde definisce la felicità attraverso il suo contrario l’infelicità: “Felicità non è avere tutto ciò che si desidera, ma desiderare ciò che si ha”.
Purtroppo la società moderna ha preso, intellettualmente e concretamente, la direzione opposta. Gli americani nella loro Dichiarazione di indipendenza del 1776 sanciscono “il diritto alla ricerca della Felicità”, che però l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato in un diritto alla felicità che è cosa ben diversa. Perché, come tale, non solo è un diritto impossibile ma si rovescia nel suo opposto. Pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto, e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato.
L’uomo occidentale, che ha creato un modello di sviluppo imperniato sull’inseguimento spasmodico del bene, anzi del meglio, invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è, come dice indirettamente Wilde, si è costruito, con le sue stesse mani, il meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità. Perché ciò che si ha è un bene circoscritto, invece ciò che non si ha e si desidera non ha limiti. Ma è proprio su questo meccanismo psicologico che si sostiene tutta l’economia dell’Occidente e ormai anche di buona parte dell’Oriente. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale (“è bene accontentarsi di ciò che si ha”) Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche coerenti teorici dell’industrialcapitalismo, afferma: “Non è una virtù accontentarsi di ciò che già si ha”. E così prosegue parlando della situazione dei suoi tempi (Mises scrive La mentalità anticapitalistica negli anni 50 del Novecento): il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio invidia il capo officina, il capo officina invidia il dirigente, il dirigente invidia il padrone che guadagna un milione di dollari, costui quello che ne guadagna tre. E così via. Mises quindi ammette, come cosa positiva, che l’intero meccanismo economico e sociale è basato sull’invidia che non è certamente un sentimento che ti fa star bene. Però centra perfettamente il core dell’industrialcapitalismo. Oggi la stragrande maggioranza di noi vive di questo sentimento e su questo sentimento si regge tutta la filiera economica. Se noi smettessimo di invidiare il vicino più ricco tutto il castello dell’attuale modello economico franerebbe miseramente su se stesso. Ma c’è un ulteriore paradosso, che era stato già avvertito da Adam Smith che pure è, insieme a David Ricardo, uno dei padri e dei teorici del libero mercato, che oggi è arrivato al suo culmine: noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè per perpetuare il meccanismo. Siamo i lavandini, i water attraverso cui deve passare il più rapidamente possibile ciò che altrettanto rapidamente dobbiamo produrre. Non siamo noi, poveri o ricchi che si sia, a governare la macchina ma è la macchina a governar noi. L’uomo, nella modernità, è stato degradato a consumatore. Ci sono Associazioni di consumatori che non si vergognano di definirsi tali, hanno accettato, con un realismo che provoca un brivido di orrore, la degradazione. Non siamo nemmeno consumatori coscienti e volontari, ma ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme, per non inceppare l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta. Se questo è un uomo…
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2017
E’ stato assegnato a Massimo Fini il Premio Acqui Storia “Testimone del Tempo” giunto al suo cinquantesimo anno. In passato il Premio è andato a personaggi prestigiosi come Giovanni Spadolini, Norberto Bobbio, Giorgio Albertazzi, Uto Ughi. Questa la motivazione del Premio:
“Anticonformista, ribelle, antimoderno, bastian contrario per eccellenza, uomo ‘contro’ quasi a prescindere, talvolta anche contro se stesso. E’ uno dei ‘mostri sacri’ della carta stampata del nostro Paese, inviato de L’Europeo, firma di punta de Il Giorno, editorialista e (con Feltri direttore) uno degli artefici del miracolo dell’Indipendente, voce fuori dal coro del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Penna così brillante da riscattare con penetrante intelligenza Catilina e Nerone da millenni di demonizzazione e da far entrare ogni lettore nella psiche e nelle contraddizioni di Nietzsche.
Fini non è solo un giornalista, è un pensatore, uno dei pochi rimasti con la schiena diritta in quest’Italia, pur talvolta scambiato dal politicamente corretto per una fatale Cassandra, a partire dalla constatazione che il modello di sviluppo dell’Occidente, quello dogmatico e totalizzante concepito dall’Illuminismo e realizzato implacabilmente dalla Rivoluzione Industriale, sta mostrando crepe sempre più vistose. Da qui i suoi libri filosofici, che devono molto a Nietzsche, alla Nouvelle droite francese e alla scuola degli Annales, per mostrare come la Ragione aveva Torto, la guerra tradizionale sia uno dei modi per canalizzare la violenza, la femmina sia da preferire alla donna, il denaro sia “sterco del demonio”, la democrazia contemporanea spesso sostanzialmente un imbroglio”.
Intervistato dalla Libertà di Piacenza Fini ha dichiarato, fra l’ironico e il serio: “Certamente questi premi (compreso il Premio di scrittura Indro Montanelli alla carriera ) mi lusingano perché sono il riconoscimento di una vita. Ma la medaglia ha il suo rovescio: preferirei non averli ottenuti, ma avere vent’anni”.