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Quante volte ci ho provato con una ragazza o una donna nella mia vita? Infinite. Quante volte sono andato ‘in bianco’? Moltissime. Quante volte mi è riuscito il colpo? Parecchie. Devo per questo essere considerato un molestatore sessuale seriale? Quante volte ho chiesto a un amico: “senti, mi presenteresti quella ragazza, che mi piace?”. Deve, per questo, costui essere bollato come una sorta di prosseneta, un Lele Mora in miniatura?

Alla radice della questione delle molestie sessuali –tralasciando per il momento il ‘caso Weinstein’ dove centrale è la questione del potere- c’è il fatto che, per ragioni biologiche e antropologiche, poi diventate culturali, è all’uomo che, in linea di massima, spetta l’iniziativa. Perché checché se ne pensi, e lui stesso si vanti, l’uomo non è sempre pronto per il sesso. Nemmeno la donna lo è, ma la sua scarsa predisposizione ha effetti meno drastici della defaillance del maschio che rende tecnicamente impossibile la penetrazione. L’uomo è cacciatore proprio perché non sempre ha il colpo in canna. Ecco perché tocca a lui aprire la partita mentre il compito di lei è di farsi inseguire . C’è perciò sempre un momento in cui lui deve fare necessariamente un atto intrusivo nella sfera personale e latus sensu sessuale di lei: una carezza sui capelli (che, come pensano giustamente i musulmani, non sono affatto innocenti dal punto di vista erotico) tentare di attrarla a sé, cercare di strapparle un bacio. Se ha equivocato sulla disponibilità di lei si beccherà un diniego. Peraltro un tempo le donne, se non volevano starci, sapevano benissimo come fartelo capire. Il linguaggio sessuale, erotico, amoroso ha i suoi codici, anche abbastanza precisi, ma rientrano nell’inespresso, nel non detto, fanno appello alla sensibilità di ciascuno, non possono appartenere all’esplicito e ancor meno al giuridico. Quando ero ragazzo se nel ballo (“il ballo del mattone” come cantava Rita Pavone) lei ti metteva un braccio sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere, se ti poggiava la mano sulla spalla era un segno neutro, se ti metteva le braccia al collo e si lasciava stringere non le dispiacevi, il che non significava ancora nulla se non che eri autorizzato a fare la mossa successiva. A complicare le cose c’è poi l’eterna ambiguità della donna, che è ciò che ci attrae in lei ed è, insieme, l’origine della nostra difficoltà a comprenderla, sia nella schermaglia erotica che in ogni altro campo (peraltro una che si offra spudoratamente, come accade a volte oggi a differenza di un recente ieri, fa cadere ogni libido perché elimina il grande gioco della seduzione). Perché i suoi primi no possono essere di pura parata e nascondere un sostanziale . Una certa insistenza è quindi comprensibile. Insomma capire fino a che punto ci si può spingere è una questione di reciproca sensibilità. Allo stesso modo i possono capovolgersi improvvisamente in un no. Come è stato nel caso di Mike Tyson e Popi Saracino, entrambi condannati a vari anni di galera perché lei, all’ultimo momento, si era negata.

E veniamo al caso di Harvey Weinstein, importante produttore di Hollywood. Il suo è un caso tipico di abuso di potere, ma una donna maggiorenne, adulta, sa, o dovrebbe sapere, cosa fa quando concede i propri favori sessuali, magari controvoglia, in cambio di promesse, mantenute o no, di carriera: si prostituisce. Non ci sarebbero corruttori, nel sesso come in politica, se non ci fosse chi è disposto a farsi corrompere. E qui si innesta un’altra questione, che è generale e va ben oltre lo strampalato e apparentemente dorato mondo di Hollywood: quella che nel mio Di(zion)ario erotico ho chiamato –e spero che i lettori mi passino la crudezza del termine- il Fica Power. Com’è fuori discussione che ci sono uomini di potere che ne abusano per portarsi a letto delle belle ragazze sostanzialmente, anche se subdolamente, ricattandole, è altrettanto fuori discussione che ci sono parecchie donne che utilizzano il proprio sesso per avere scorciatoie di carriera, all’interno delle aziende e altrove. Invece di indignarsi quando si parla di Fica Power le femministe o comunque i tanti teorici delle pari opportunità dovrebbero prestare a questo aspetto qualche attenzione, perché questo atteggiamento lede innanzitutto i diritti e le aspettative di quelle donne che sul posto di lavoro si comportano con correttezza. E’ la mortificazione della tanto decantata meritocrazia. Ma questo non si può dire. E’ tabù. Viene considerata un’intollerabile offesa all’immagine della donna che è ridiventata, come nell’Ottocento ma per motivi diversi, un essere angelicato, depurato di ogni bruttura morale. Si batte quindi sempre e solo il tasto del potere di ricatto maschile sul luogo di lavoro. Che c’è, naturalmente, ma è più limitato, se non altro perché può essere esercitato solo dall’alto in basso ed è verificabile, mentre il Fica Power è diretto a tutto campo e praticamente indimostrabile.

Inoltre se è vero che l’uomo di potere può facilmente usarlo per ricattare è anche vero che può essere altrettanto facilmente ricattabile e fare la fine dell’incolpevole Strauss-Khan. Un banchiere americano ha confessato che piuttosto che salire in ascensore con una donna sola (in cento piani può accadere di tutto) preferisce aspettare il giro successivo.

L’alternativa è la verbalizzazione. Possibilmente scritta e certificata. Negli Stati Uniti circolano moduli in cui i due mettono nero su bianco la loro intenzione di fare sesso e la donna, a scanso di equivoci, dichiara anche fino a che punto è disposta a spingersi.

Se andiamo avanti di questo passo i rapporti fra i sessi, già difficili in una società solo in apparenza libera, in realtà sessuofobica, puritana, sempre più simile al matriarcato americano, diventeranno impossibili. Se bisogna verbalizzare, certificare, sottoscrivere, beh allora è meglio soddisfarsi da soli dietro una siepe.

Massimo Fini

Il fatto Quotidiano, 17 ottobre 2017

 

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Nel prossimo censimento inglese previsto per il 2021 non sarà più obbligatorio barrare la casella maschio/femmina perché secondo l’Ufficio per le Statistiche è “irrilevante, inaccettabile o intrusivo, particolarmente nei confronti dei partecipanti trans”. Ciò a provocato una furibonda reazione delle femministe. La scrittrice Germaine Greer ha affermato: “Continuiamo a sostenere che le donne hanno conquistato tutto quello che c’era da conquistare. Ma non hanno conquistato neppure il diritto a esistere”. Le femministe sono vittime di se stesse. Perché quello che hanno conquistato loro non dovrebbe valere anche per i transgender e per altri sessi o per le persone asessuate? Non hanno anch’essi “il diritto di esistere”? Alla luce del principio della parità di genere è giusto eliminare il sesso almeno nei documenti, in attesa che sia eliminato anche nella realtà. La stessa protesta avrebbero dovuto elevarla anche i maschi ma, si sa, quelli che oggi hanno meno diritto a esistere sono proprio i maschi, il solo affermarlo è già indice di una sospetta omofobia. Sono i maschi i veri reietti, i colpevoli ‘senza se e senza ma’, tant’è che il ‘femminicidio’ è considerato più grave dell’omicidio di un maschio, come se l’omicidio non fosse un omicidio e basta, a prescindere dal sesso della vittima. E non è nemmeno tanto vero che l’omicidio di donne da parte di uomini, per gelosia o qualche altro sentimento, sia così enormemente superiore al suo inverso. Le percentuali sono 60/40.

E’ tipico della nostra società, in nome di un’astrazione che sta diventando sempre più asfissiante, pensare di poter eliminare la realtà con le parole, con le leggi e anche con diktat del tutto arbitrari oltre che ridicoli. Secondo la nuova Carta deontologica della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, nel caso di un‘femminicidio’ (mentre, chissà perché, non vale il contrario: anche le donne uccidono sia pur in modo meno violento e più subdolo, si vada a vedere il bellissimo film di Sofia Coppola L’inganno dove il mezzo per uccidere è il veleno) non si potrà dire che è avvenuto per “gelosia, amore, raptus, follia, passione”, ma si dovrà parlare solo di “volontà di possesso e di annientamento” (autocastriamoci da soli). Insomma pulsioni che albergano da sempre, nell’essere umano, non hanno più diritto di cittadinanza. Non esistono. Aggiungiamoci anche l’odio severamente proibito dalla legge Mancino.

Non esistono più i maschi, le femmine, i sentimenti, le passioni, insomma tutto ciò che ha fatto la storia del mondo almeno fino a oggi. Nella previsione, come anticipa il sequel di Blade Runner, che noi si diventi degli androidi cioè un misto fra uomo e macchina, in attesa che la macchina l’abbia vinta definitivamente e la sia fatta finita una volta per tutte con quel soggetto ingombrante, troppo concreto e troppo complesso, e per niente astratto, che è l’essere umano.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2017

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Il Sessantotto propriamente detto, prendendo a prestito le parole usate da Luigi Einaudi per la Massoneria, potrebbe essere definito, dal punto di vista politico, “una cosa comica e camorristica”, vissuta più sui giornali che nella realtà, mitizzata nel ricordo, se non avesse causato danni e soprattutto non fosse stato alla radice delle tragedie avvenute dopo che prendono il nome, allora impronunciabile se non volevi essere bollato come fascista, di ‘terrorismo rosso’. In realtà i fenomeni più importanti e fecondi, sul piano del costume, il movimento hippy, la liberazione sessuale, il femminismo, erano maturati prima del Sessantotto.

Nella stragrande maggioranza i ‘sessantottini’ erano figli della borghesia, dell’alta borghesia e, a Roma, perfino dell’aristocrazia (Potere Operaio, Potop in gergo, era sopranominato ‘molotov e champagne’). Figli di borghesi che, a loro detta, avrebbero dovuto spazzar via la borghesia. Una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. E infatti tutti i maggiori leader, se si eccettuano Mario Capanna (il ‘lider maximo’ della prima fase) e pochissimi altri, erano in perfetta malafede: volevano conquistare le prime pagine del Corriere della Sera e, se possibile, la direzione. E quando conquisteranno il potere, in qualsiasi settore, in particolare quello imprenditoriale, si dimostreranno più spietati degli antichi ‘padroni delle Ferriere’ che dicevano di voler combattere. A emblema potrebbe essere preso Gian Giacomo Feltrinelli, idolo dei sessantottini, rivoluzionario dilettante di notte e padrone feroce, micragnoso e spilorcio in Casa Editrice.

Erano ragazzi viziati. Di giorno andavano in giro urlando “Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero”, “Uccidere un fascista non è reato” spaccando vetrine e, all’occasione, anche qualche cranio, e alla sera rientravano nelle belle case dei loro padri, si attaccavano al telefono, “Pronto Dadi, pronto Leonetta” che non sono precisamente dei nomi proletari. Il Movimento studentesco della Statale di Milano (MS) che pretendeva di parlare in nome del proletariato non aveva fra le sue file un solo operaio. No, uno ce lo aveva: un certo Lo Bue che ostentavano portandolo in giro come una Madonna pellegrina. Qualche legame col mondo proletario ce l’avevano i ‘gruppuscoli’ come li chiamava Capanna, a sinistra del Movimento studentesco, Avanguardia operaia e Lotta Continua che perlomeno andavano a fare volantinaggio davanti alle fabbriche. Ma gli operai non li hanno mai visti di buon occhio e tantomeno i comunisti. I danni maggiori comunque questi ‘cattivi maestri’ li fecero proprio sui loro seguaci proletari che avevano preso sul serio quegli intellettuali radical chic. Emblematica è la diade Sofri-Marino. Finita la baldoria Adriano Sofri, anche se condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio Calabresi, divenne editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più venduto settimanale di destra, Panorama, Leonardo Marino rimase a vendere frittelle a Bocca di Magra.

Per capire il Sessantotto, e la psicologia dei sessantottini, bisogna però fare qualche passo indietro da cui emergono non solo le responsabilità di quei giovani ma quelle degli adulti e della classe dirigente di allora. Quella del Sessantotto è la prima generazione che non aveva vissuto la guerra e aveva una sorta di inferiority complex nei confronti di quelli che la guerra l’avevano fatta e magari erano stati partigiani o dicevano di esserlo stati. Chiunque avesse appena l’età diceva di essere stato, come minimo, una ‘staffetta partigiana’. E io mi dicevo: cribbio, ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani (questo mito di una Resistenza in realtà fatta da pochi sarà l’origine delle Brigate Rosse).

Noi ragazzi sentivamo il bisogno di un impegno ma non sapevamo dove metterlo. Fu questo bisogno che ci spinse ad andare a Firenze nei giorni dell’alluvione del 1966. Io avevo 22 anni e raggiunta la maggior età me l’ero filata da casa, come usava allora, andando ad abitare in un squallido palazzo, in via Novara all’estrema periferia ovest di Milano. Ero in casa con tre amici e quando la radio diede notizia dell’alluvione la nostra reazione fu istintiva e istantanea: “Dobbiamo andare a Firenze a dare una mano”. Divenimmo così gli “angeli del fango”. Come mai gli “angeli del fango” si trasformeranno, nel giro di soli due anni, nei molto meno innocenti sessantottini? Per l’ottusità della borghesia. Noi ragazzi borghesi sentivamo soprattutto due esigenze: quella di essere un po’ più liberi, vestire come ci pareva, senza l’odioso obbligo della giacca e cravatta, portare i capelli come ci pareva (‘i capelloni’) e che le nostre compagne non fossero costrette a rincasare alle nove di sera per poi, magari, uscire di nascosto a mezzanotte. A Milano ci radunavamo a Brera, all’Angolo tenuto dalla bionda e bellissima Alfreda, suonavamo la chitarra e facevamo una caciara innocente. Una sera sì e una no la polizia faceva irruzione a Brera, ci chiedeva i documenti, ci identificava, ci interrogava e qualche volta ci fermava. Il giorno dopo il Corriere, diretto da Franco Di Bella, titolava “Repulisti a Brera” come se fossimo delle cimici. Fu questo bigottismo cretino della borghesia ad esasperare gli animi, come mi ammise anni dopo anche Montanelli. Non per nulla la classe dirigente inglese, che aveva fiutato il vento, che aveva capito che sul piano del costume le cose stavano cambiando, con Mary Quant, la minigonna, i Beatles, si evitò il Sessantotto e tutte le sue ben più gravi conseguenze.

Ho partecipato alle due prime occupazioni della Statale di Milano. Una notte, bighellonando come mio solito per la città arrivai davanti all’università e vidi che era illuminata e piena di ragazzi. Mi ci intruppai. Per quel poco che ci sono stato non fui mai un leader. La notte, insieme a un ragazzo padovano, alto, smilzo, allegro, Giorgio Livrini, figlio di un industriale, tenendoci svegli con dei fiaschi di vino rosso, facevamo la guardia a qualcuna delle tante porte della Statale. Ma capii molto presto che non era cambiato nulla. Se prima all’università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso era obbligatorio l’eskimo. Il conformismo aveva solo cambiato di segno. E non solo nel vestire. Erano diventati tutti di sinistra, di estrema sinistra: giornalisti, intellettuali, scrittori, sociologi paraculi da terza pagina del Corriere, mignottine varie. Non c’era chi scrivesse un libro, fosse anche sulla floricultura, che non lo inquadrasse in una prospettiva ‘rivoluzionaria’. Ogni dissenso era verboten e non solo a parole. Si era preso il ‘vizietto’ di picchiare gli avversari, o presunti tali, dieci, venti, trenta contro uno.

Dovevamo essere proprio agli inizi perché nell’Aula Magna, gremita di studenti e fasciata di tazebao, era stato invitato anche il Rettore, Polvani, che, dimostrando di non aver capito nulla di quel che bolliva in pentola, fece un discorsetto paludato, ancien régime. Uscì fra i fischi, seguito da un piccolo codazzo di studenti ‘fedeli’. Fra loro c’era Paolo Longanesi, il figlio di Leo, piccolo e gobbetto come lui, che fece la sciocchezza di strappare un tazebao. Eravamo in tremila, sarebbe bastato prenderlo per la collottola e portarlo fuori. Invece dal tavolo della presidenza si alzò di scatto Luca Cafiero, un assistente di filosofia che era diventato, insieme a Capanna, Luciano Pero, Michelangelo Spada, un leader del Movimento, precipitandosi su Longanesi. Ne nacque un parapiglia furibondo. Lo stavano letteralmente linciando. Le ragazze, isteriche come al solito, gridavano “Ammazzatelo! Ammazzatelo!” (le cesse, le carine erano un po’ più chete). Ci mettemmo venti minuti, con i cugini Jucker e altri, per sottrarre Longanesi alla furia degli energumeni. Dopo andai al cesso, a vomitare. Un po’ per lo sforzo e un po’ per il disgusto. Uscendo dal bagno vidi uno degli aggressori, Moneta, un ragazzo ben piantato, figlio anche lui di un grosso imprenditore, in piena ‘trance agonistica’. Tremava. Dovetti dargli uno schiaffo perché si rimettesse insieme. C’è anche da aggiungere, a parziale scusante, che quella generazione, proprio perché non aveva conosciuto la guerra non aveva conosciuto la violenza, aveva anche una gran voglia, come sempre i giovani, di menar le mani (non si può essere socialdemocratici a vent’anni).

Il ‘vizietto’ di sprangare la gente trenta contro uno l’MS non l’avrebbe mai perso. Nel febbraio del 1972 i ‘katanga’, il cosiddetto servizio d’ordine dell’MS, picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano accusato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della CIA. Questo pestaggio ne seguiva un altro, ancora più violento, avvenuto un mese prima ai danni di un sindacalista della UIL, Giovanni Conti, che in un comunicato che cercava di spiegare le ragioni di quell’aggressione venne accusato, insieme a non so più quali nefandezze politiche, di alzare il gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone del Movimento studentesco. Io allora lavoravo all’Avanti! che simpatizzava apertamente per la ‘contestazione’, come ormai quasi tutti i giornali che facevano a gara per essere ‘di sinistra che più di sinistra non si può’. Ma l’Avanti! di Milano (a differenza di quello di Roma sotto lo stretto controllo del Partito) diretto da Ugo Intini era un giornale libero e libertario e mi permise di scrivere questo durissimo corsivo: “Il Movimento studentesco c’è ricascato. A poche settimane di distanza dall’aggressione del sindacalista della UIL, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di ‘ragazzate’ di qualche frangia particolarmente irrequieta dell’MS – come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna- ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all’uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al ‘monatto’, sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, riecheggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall’equivoco. Il linciaggio e l’isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica” (Avanti!, febbraio 1972). Queste parole oggi suonano forse ovvie. Ma nel clima di conformismo sinistrorso di quegli anni, che avrebbe partorito da lì a poco le BR (“i compagni che sbagliano”), non lo erano affatto. E lo si vide subito. Io, come cronista, dovevo seguire anche le vicende dell’università. Quando rimisi piede alla Statale fui circondato dai ‘katanga’ che volevano farmi la festa. Mi salvai mettendomi sotto le ali protettrici di Capanna che alla violenza era personalmente alieno anche se ebbe la grave responsabilità politica di avallarla.

Nell’ottobre del 1973 –ero già passato all’Europeo- feci per Linus una mappa dei vari gruppi della sinistra extraparlamentare che Oreste del Buono titolò “L’extra-mappa”. Li analizzavo nei contenuti. Non era un’inchiesta pregiudizialmente ostile. Cercavo di essere obbiettivo. Molti di quei ragazzi li conoscevo bene. Alla Statale fu appeso un tazebao in cui Oreste del Buono ed io venivamo bollati come ‘spie della CIA’. Oreste, uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto, ma vilissimo, prese subito le distanze dall’’extra-mappa’ e, soprattutto, da me. Mi arrivò un minaccioso biglietto di Oreste Scalzone e Giairo Daghini, di cui al momento non valutai la pericolosità. Ma il colpo non venne da lì. Nell’’extra-mappa’ avevo preso in giro uno dei leader del MS, Luca Cafiero “di cui nessuno sospettava le virtù rivoluzionarie, essendo conosciuto come un ‘bravo ragazzo’, un po’ ‘ciula’, che si era educato a Oxford, faceva l’assistente e girava in Triumph”. Quando Ilio Frigerio, un mio amico militante di Lotta Continua che mi aveva aiutato a compilare l’’extra-mappa’ e che conosceva i suoi polli, lesse quel passaggio mi disse: “Tu sei pazzo”. Qualche sera dopo mentre rincasavo arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, l’allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il ‘guardiaporte’ alla Statale. Si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: “Giorgio…”. Vidi nei suoi occhi passare un lampo, che diceva “Questo qui adesso o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere”. Finì a tarallucci e vino. Andammo tutti e cinque da Oreste a berci un bicchiere. Ma se, per volontà del Caso, le cose non fossero andate in quel modo, sarei finito anch’io in sedia a rotelle, come in quegli anni è capitato a molti. Il quotidiano di Lotta Continua pubblicava le fotografie, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali alcuni dei quali hanno fatto quella fine che io evitai per un soffio. I sessantottini come rivoluzionari erano farlocchi ma tutt’altro che innocenti.

All’inizio però la contestazione, almeno a Milano, ebbe anche un aspetto ludico. A Capanna piaceva piuttosto lo sberleffo, come il famoso ‘lancio delle uova’ alla Scala sulle signore impellicciate e invisonate che uscivano dal teatro. Io quella sera alla manifestazione non c’ero andato, mi ci trovai in mezzo per caso girovagando per la città come voleva la mia inquietudine notturna. Sbucando da una via laterale vidi il casino, i manifestanti, la polizia. Qualunque borghese di buon senso se ne sarebbe tenuto alla larga. Arrivò invece una lucente macchina blu. Alla guida c’era un uomo con a fianco una splendida bionda. Era Gian Giacomo Feltrinelli con la seconda moglie, Sibilla Melega. Feltrinelli pensava di essere intoccabile. Ma i manifestanti non lo riconobbero. Circondarono la macchina, la tempestavano di pugni, cercando di sfondare i finestrini e di rovesciarla. “No, no, è un compagno, è Feltrinelli!” gridava inutilmente qualcuno. Intervenne la polizia. Fra quelli che cercavano di proteggere Feltrinelli e la Melega c’ero anch’io. E feci male. Due volte male. Perché nel parapiglia generale mi beccai una ginocchiata nella coscia, il classico ‘colpo della vecchia’, da un caramba e zoppicai per un paio di giorni e perché quel rivoluzionario dilettante meritava una lezione e forse non sarebbe andato a morire qualche anno dopo quando, del tutto inesperto e incapace, cercò di mettere una bomba sotto un traliccio dell’Enel a Segrate.

Più divertente è quanto successe in Largo Gemelli davanti alla Cattolica. Sulla sinistra dello spiazzo c’era una caserma dei carabinieri. Capanna, con un megafono, intimò loro di arrendersi o qualcosa di simile. Si sentirono i tre classici squilli di tromba e cominciò la carica. Ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì accanto. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l’aveva un po’ l’aria del monaco eretico). Sfondammo la porta e ce la filammo.

A cinquant’anni di distanza, del Sessantotto e della sua rivoluzione di cartapesta e di spranga ci siamo liberati. Dei ‘sessantottini’ no. Sia pur invecchiati formano una potente framassoneria, trasversale alla destra e alla sinistra, soprattutto nei media e nella politica, che si autotutela e sbarra il passaggio agli altri (Luigi Manconi, Adriano Sofri, Gad Lerner, Enrico Deaglio sono i primi nomi che mi vengono in mente). E se vai a scavare nelle biografie di importanti imprenditori o manager, in età, trovi che quasi tutti hanno un passato extraparlamentare. Eppoi ci sono i figli già ben piazzati. Non ce ne sbarazzeremo mai.

Massimo Fini

Millennium, ottobre 2017