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Da qualche settimana le televisioni occidentali, oltre a rimandarci dalla Bosnia le consuete immagini di orrori, insistono in modo particolare sui bambini: bambini uccisi, mutilati, sofferenti. Anche i quotidiani imperniano le loro cronache soprattutto sui bambini. E i tre giornalisti della Rai, recentemente periti a Mostar, erano lì per documentare il dramma dei bambini della ex Jugoslavia. In effetti i bambini, innocenti per definizione, sono la maggior obiezione alla guerra, soprattutto all'orribile guerra moderna che, a causa delle armi tecnologiche, fa scempio di civili inermi. Le bombe non guardano in faccia nessuno. Non sanno distinguere. E, a quanto si dice, sono già 15mila i bambini che nei due anni della guerra bosniaca hanno perso la vita, anche se tale cifra va presa con le molle perché, come mi diceva giorni fa un inviato dal fronte, Gianni Micalessin, «non c'è alcuna possibilità di controllare dati come questi». Eppure c'è qualcosa che non mi convince in questa improvvisa scoperta del dramma dei bambini bosniaci.  Durante i 55 giorni di Baghdad i «missili intelligenti» e le «bombe chirurgiche» degli americani hanno ucciso 32.195 bambini iracheni (e questi, purtroppo, sono dati certi perché forniti dalla fonte meno sospettabile: il Pentagono). Ma nessuno ce li ha fatti vedere. Nemmeno la potentissima e ammiratissima Cnn, che ha preferito puntare le telecamere sullo spettacolo pirotecnico dei traccianti e dei bagliori delle bombe. E nemmeno dopo, quando la cifra dello spaventoso massacro è saltata fuori, nessuno, in Occidente, ha almeno ricordato lo scempio di quei 32mila bambini morti, nessuno, in Occidente, ha pianto per loro. Perché questa differenza di trattamento? Perché le televisioni occidentali si accaniscono ad evidenziare le crudeltà della guerra bosniaca? Perché l'Occidente considera assurda questa guerra e quindi particolarmente gratuite le sue vittime. L'Occidente considera infatti assurde tutte le guerre dove non sono coinvolti, direttamente o indirettamente, i suoi interessi. Era assurda, all'inizio, anche la guerra Iraq-Iran, lo divenne molto meno quando l'esercito di «straccioni» di Khomeini, ormai davanti a Bassora, stava per vincerla. Allora, in nome del «pericolo islamico», gli occidentali non esitarono a rifornire di ogni genere di armi l'aggressore, Saddam Hussein, non solo sottraendo così agli iraniani una vittoria che si erano conquistati sul campo, ma prolungando di qualche anno la guerra e aumentando di molto il numero delle vittime. Poco dopo Saddam rovesciava sul Kuwait l'arsenale che gli occidentali gli avevano fornito. E quei 32mila bambini iracheni morti sono anche la conseguenza del cinico aiuto che l'Occidente aveva dato al dittatore di Baghdad. Ma nessuno, in Occidente, li pianse perché si trattava di difendere, oltre che uno Stato fantoccio, il petrolio. Adesso gli occidentali si commuovono per i bambini bosniaci. Il loro stomaco non sopporta che certe immagini gli penetrino in casa, all'ora di pranzo, per una guerra che non condividono, per una guerra, appunto, assurda. Ma se c'è una guerra che non è per nulla assurda è quella di Bosnia. La sua premessa sta nel riconoscimento che l'Occidente diede all'indipendenza della Slovenia e della Croazia. Senza più una Jugoslavia multietnica non era più possibile una Bosnia multietnica. Così è cominciata una guerra dove serbi, croati e musulmani si battono per ragioni che non sono affatto assurde: si battono, ognuno, per la propria terra, per la propria fede, per solidarietà di gruppo e anche a motivo di antichi odii che non sta a noi sindacare. Ne è possibile sostenere, come qualcuno fa, che si tratti solo di uno scontro fra soldataglie impazzite. Queste non si reggerebbero senza l'appoggio di buona parte della popolazione. Di qui il massacro.Ma non fu meno massacro, anche se non lo abbiamo visto, quello di Baghdad, non fu meno massacro  quello che, durante l'ultimo conflitto mondiale, gli angloamericani fecero a Dresda, a Lipsia, a Berlino bombardando intenzionalmente la popolazione civile per fiaccare la resistenza dei tedeschi. Se ci fossero state le Tv avremmo visto anche allora cadaveri sventrati, bambini maciullati e scene raccapriccianti in quantità ben maggiore di quelle che ci vengono oggi dalla Bosnia. Si dirà che nel Golfo e, mezzo secolo fa, in Germania gli occidentali agirono per una causa giusta. Ma anche i serbi, i croati, i musulmani pensano di battersi per una causa giusta. Gli occidentali non hanno quindi alcun diritto di farsi venire il voltastomaco per le crudeltà dei combattenti di Bosnia perché sono le stesse crudeltà cui essi non si sono sottratti tutte le volte che erano in gioco i loro interessi o, anche, i loro ideali. Meno che mai hanno diritto di intervenire in armi in Bosnia, come da più parti si chiede, per salvare i buoni e punire i cattivi. Non solo perché un tale intervento, come i precedenti insegnano, si risolverebbe in un massacro peggiore di quello che si vorrebbe evitare, ma perché l'Occidente non ha alcuna autorità morale per discernere i buoni e i cattivi. Tanto più che, oggi, in Bosnia, non ci sono nè buoni nè cattivi. Ci sono solo tre popoli che si fanno la guerra. L'orribile guerra moderna. Ma che non è meno orribile quando la facciamo noi, gli occidentali.

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Mi fa ridere questa compunta ed improvvisa indignazione per l'usura, gli usurai, gli strozzini, i «cravattai»). Mi fa ridere perché tutto il sistema capitalistico è basato sull'usura. Che cos'è infatti la Banca, che di questo sistema è il centro e il motore, se non una fabbrica d'usura in grande stile? Che cosa fa l'usuraio? Presta denaro ad interesse. Che cosa fa la Banca? Presta denaro ad interesse. Ma. si dice, si tratta di due cose ben differenti. Leggiamo allora come il Codice Penale, all'articolo 644, definisce il reato di usura: «Chiunque... approfittando dello stato di bisogno di una persona si fa da questa dare o promettere. sotto qualsiasi forma. per se o per gli altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurai, è punito...»). Tre sono quindi gli elementi costitutivi dell'usura: 1) lo stato di bisogno del richiedente; 2) la consapevolezza da parte di chi concede il prestito di tale stato di bisogno; 3) gli interessi esorbitanti. Per quello che riguarda il primo punto c'è qualcuno che vorrà negare che quando un imprenditore o un artigiano o una persona che accende un mutuo per comprarsi una casa si rivolgono alle Banche siano in stato di bisogno? Se non lo fossero non ricorrerebbero al denaro altrui ma farebbero col proprio. Del resto la storia e la cronaca ci raccontano di imprenditori, grandi e piccoli, che sono stati strangolati dal sistema creditizio e di patrimoni di Banche che sono zeppi di case di poveracci che non sono riusciti a estinguere il proprio mutuo. Forse che quando le Banche concedevano prestiti all'ultimo Rizzoli o all'ultimo Gardini non gli stavano stringendo coscientemente il cappio intorno al collo con l'obbiettivo di portargli via tutto? E questo ci porta diritto e di filato al punto due. La consapevolezza dello stato di bisogno altrui è insita nel fatto stesso che uno vada a chiedere un prestito, come ha riconosciuto, per il delitto d'usura, la Corte Costituzionale. Restano, a differenziare il prestito lecito da quello illecito, gli interessi esorbitanti. E qui sta il nocciolo di tutta la questione. Intere generazioni di giurisperiti e di studiosi del diritto si sono scervellati per cercare di stabilire quando un interesse può essere considerato esorbitante e non ne sono venuti a capo. Lo stesso Codice Penale è costretto ad una tautologia, a dire cioè che si ha delitto di usura quando si chiedono «interessi usurai»). E si capisce benissimo la ragione di questa difficoltà. Perché stabilire che dare denaro a prestito a certi interessi è legittimo, mentre darlo ad interesse più alto è reato, come dire che rubare è lecito al di sotto di una certa cifra. E invece: o rubare è illecito sempre o non lo è mai, così come prestare denaro ad interesse è illecito sempre (come pensava San Tommaso e tutta la dottrina cristiana prima che nascesse lo Ior) o non lo è mai. Se si accetta il principio che è giusto remunerare il capitale e anche il rischio di colui che presta denaro, allora l'interesse chiesto dal cosiddetto usuraio non può mai essere esorbitante perché corrisponde puramente alle leggi di mercato, oggi tanto decantate. Il cosiddetto usuraio fa pagare di più semplicemente perché il rischio che corre è molto più alto di quello del cosiddetto banchiere poiché la persona che va a chiedergli quattrini è già stata considerata insolvibile, o quasi insolvibile, dal circuito ufficiale. Il tasso più elevato corrisponde ad un rischio più elevato e alle leggi del mercato. Se c'è qualcuno disposto a correre questi rischi altissimi in cambio di interessi altrettanto alti e qualcun altro disposto a pagarli non è forse questo quel famoso meccanismo del libero mercato che oggi (in cui tutti, anche gli ex comunisti, si dichiarano liberaldemocratici) viene considerato, più o meno come ai tempi di Ricardo e di Adam Smith, il supremo regolatore del bene comune e la fonte di ogni sano equilibrio economico? E allora, dopo averci impiccato col sistema bancario, che ci spolpa a poco a poco nell'eleganza ovattata degli istituti di credito e con l'avallo delle leggi, lasciateci almeno liberi di ricorrere agli strozzini. Costoro potrebbero addirittura essere considerati pietosi. Perché ti danno un briciolo di fiducia, ti concedono, sia pur a caro prezzo e per loro convenienza (ma la convenienza, come ci hanno spiegato tutti gli utilitaristi liberali o pseudoliberali, da Stuart Mill fino a Salvatore Veca, non è forse il motore della «società giusta»?) un'ultima chance là dove tutti gli altri, le persone perbene e quei ladri in guanti gialli chiamati banchieri, ti hanno schienato senza ombra di misericordia. Troppe volte sono salito a Campione, a farmi levar l'anima dai rapinatori autorizzati, e troppe volte ne sono disceso, dopo aver perso tutto e anche qualcosa di più, a firmare assurdi assegni postdatati in certi finti baretti che costeggiano il lago di Lugano (città che è l'emblema della rapina bancaria e legale) per non provare se non simpatia un certo senso di complicità con gli strozzini. Dove infatti il Casinò (cioè, per usare i vecchi termini, il sistema), mi rifiutava, con gelida eleganza, ogni ulteriore fido, reputandomi finito, gli strozzini davano almeno segno di avere una qualche fiducia nella mia possibilità di rifarmi. E così, non negandomi la speranza, avevano almeno l'aria di considerarmi ancora un uomo.

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Mi sembra che le opposizioni stiano facendo con Berlusconi premier lo stesso errore che commisero col Berlusconi candidato quando, demonizzandolo, finirono per favorirlo. Intendiamoci, il governo Berlusconi ha fatto finora molti errori (il rinvio sine die  di una seria legislazione anti-trust, le mani sulla Rai) e anche delle autentiche mascalzonate (il “decreto Biondi”, il tentativo di delegittimare i giudici), ma non mi pare nè intelligente, nè opportuno, anzi controproducente, contestarne, con i toni esasperati che si sono sentiti in questi giorni, anche gli atti dovuti, obbligati, inevitabili. È il caso della Finanziaria. Io non sono certo un esperto in materia ma, come cinquantenne, sono uno di quei cittadini che verranno più penalizzati dal riordino del sistema pensionistico con una decurtazione, se non sbaglio, del 3%. Ma onestamente mi chiedo che cosa il governo, qualsiasi governo, potesse fare di diverso stante la catastrofica situazione dell'lnps e la previsione statistica che, oltre il Duemila, ci sarà un pensionato per ogni lavoratore attivo. I soldi bisogna pur prenderli da qualche parte e non è certo colpa dell'attuale governo se nei decenni passati altri (dirò poi chi) hanno cicaleggiato sulla nostra pelle. E anche nel resto della Finanziaria non mi pare di vedere quelle nefandezze che altri vi individuano. Non mi sembra una Finanziaria peggiore di quelle che l'hanno preceduta, anzi, per la verità, un tantino migliore. Ci sono per esempio dei consistenti tagli alla Difesa, auspicati da anni proprio dalle sinistre e che però nessun governo aveva osato operare per timore di inimicarsi la potente consorteria dei militari. Ma a Eugenio Scalfari nemmeno questi van bene perché, scrive, “produrranno quarantamila disoccupati nell'indotto che lavora con quel ministero” (La Repubblica, 15/10). Ma a ragionare così non si può tagliar nulla, nemmeno un capello perché così si toglie il lavoro ai barbieri. Non sono d'accordo nemmeno sul significato che è stato dato all'indubbio successo dello sciopero generale. Si è detto e soprattutto scritto che era l'evidente dimostrazione che la maggioranza degli italiani sono contro la Finanziaria. Fino a prova contraria, in un Paese democratico, è il governo che rappresenta la maggioranza dei cittadini (poiché è espressione di un Parlamento liberamente eletto a suffragio universale) e non la piazza per quanto folta essa sia. Ancor meno mi è piaciuto il clima sessantottesco che, soprattutto da parte dei mass media, è stato creato intorno allo sciopero del 14. Ho sentito parlare di “festa dell'inventiva” e di orgoglio perché manifestazioni del genere non si vedevano da vent'anni. Non mi pare affatto un buon segno. Vent'anni fa erano infatti i “formidabili 70”, che sono stati l'incubatrice di tutte le demagogie che hanno portato al disastro finanziario di oggi. Pensavamo che i tempi della “fantasia al potere”, delle “variabili indipendenti” e della piazza che l'aveva perennemente vinta sulle legittime istituzioni fossero finiti per sempre. Ma evidentemente noi italiani non impariamo mai niente. Fu in quegli anni che i sindacati e le sinistre si fecero non solo complici del peggiore assistenzialismo e clientelismo di stampo democristiano ma spesso lo imposero agli stessi governi: dalle “pensioni baby” alle finte pensioni di invalidità, alle finte pensioni di anzianità, alle casse integrazioni protratte all'infinito, alle aziende decotte pubbliche e private tenute in piedi a tutti i costi (costi che poi si rovesciavano sulla collettività). Il disastro-Italia ha molti padri: i governi passati e i partiti che li hanno sostenuti, certamente, la grande industria che, attraverso le casse integrazioni e i prepensionamenti, ha fatto pagare i propri errori allo Stato (cioè a noi), altrettanto certamente, ma anche le forze di sinistra, i sindacati e quei milioni di fannulloni (alcuni dei quali erano sicuramente presenti anche nei cortei di venerdì) che su questa comoda situazione ci hanno marciato a redini basse finendo per tagliare le gambe ai veri lavoratori e, con essi, al Paese. Se abbiamo accumulato la sbalorditiva cifra di due milioni di miliardi di debito lo dobbiamo a tutti costoro e non possiamo certo prendercela con l'attuale governo che, essendo formato da forze che si affacciano per la prima volta alla gestione del potere, non può, come l'agnello della famosa favola, essere ritenuto responsabile dei guasti del passato che è chiamato a rimediare. Ecco perché non tanto lo sciopero generale ma l'enfasi che gli è stata data mi è sembrata parecchio demagogica e, in qualche caso, anche frutto di cattiva coscienza. Comunque andiamo pure avanti così, contestando questa modesta manovra finanziaria, la riforma delle pensioni, i tagli alla Sanità e persino quelli alla Difesa. Dobbiamo però essere consapevoli che di questo passo arriverà il giorno in cui un governo, con o senza Berlusconi, di destra o di sinistra, ci dirà: “Sapete qual è la novità? Che i vostri Bot sono carta straccia e che le pensioni non ve le decurtiamo per la semplice ragione che non ci sono più i quattrini per pagarvele”.

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Il problema centrale della Conferenza dell'Onu su «Popolazione e Sviluppo», che si è aperta lunedì al Cairo, è costituito dal devastante impatto che questi due fattori hanno sull'ambiente. È curioso però che le infinite discussioni che hanno accompagnato questa colossale assise (25mila partecipanti) battano tutte sul chiodo della Popolazione e su come limitarla: aborto, contraccettivi, pillola, educazione sessuale, istruzione femminile, pianificazione familiare. Sullo Sviluppo nemmeno una parola. Messa di fronte al dilemma se eliminare gli umani o gli oggetti, la cultura della modernità non ha dubbi: gli umani. Possiamo rinunciare ai figli, non ai videoregistratori. «Fiat productio pereat homo» per dirla col vecchio Werner Sombart. Una scelta, direi, in perfetto stile XX secolo. Cominciamo col chiarire che la popolazione (e anche la sovrappopolazione) ha, di per sè, un impatto minimo sull'ambiente. Quando un uomo, e anche una moltitudine, si limita a mangiare e a cacare come dio comanda, il peggio che può capitare è un po' di fetore. La popolazione diventa un problema per l'ambiente (e quindi per se stessa) quando è legata allo Sviluppo. Un abitante di New York produce otto chili di rifiuti al giorno, uno di Milano otto etti. Un indiano dell'India non produce praticamente rifiuti. Una volta, a Bombay, seguii per curiosità un camion della spazzatura: partì vuoto e arrivò vuoto. La povertà non ha mai creato inquinamento. Perché la popolazione del Terzo Mondo diventi un problema ambientale dovrebbe crescere in misura ben superiore al raddoppio che è previsto per il 2050. Lo ha ammesso lo stesso vicepresidente degli Stati Uniti Gore: «Un bambino nato in America avrà un effetto sull'ambiente trenta volte maggiore di un bambino nato in India». A questo punto, naturalmente, viene posta la consueta questione: se non incrementiamo ulteriormente lo Sviluppo non solo non riusciremo a sfamare i quattro miliardi di bocche in più, quasi tutte del Terzo Mondo, che ci troveremo oltre il Duemila, ma non riusciremo nemmeno a mantenere l'attuale popolazione dei Paesi in via di sviluppo salvandoli dalla situazione di fame e di indigenza in cui si trovano. Queste, ai miei tempi, si chiamavano «balle di Fra' Giulio»Lo Sviluppo, vale a dire il modello socio-economico-tecnologico nato con la rivoluzione industriale, non ha mai migliorato le condizioni di fame e di indigenza dei popoli del Terzo Mondo, ma le ha anzi aggravate quando non addirittura provocate. «L'analisi storica dello Sviluppo», è scritto in un documento della Fao, «dimostra che l'accumulazione del capitale privato o statale, il passaggio dall'economia contadina all'economia industriale, ha avuto in un primo tempo come conseguenza un aumento delle disuguaglianze sia all'interno di uno stesso Paese che fra Paese e Paese». Peccato che quel primo tempo non ne abbia mai avuto un secondo, almeno nei rapporti fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Oggi i Paesi del Terzo Mondo sono più poveri non solo in senso relativo, cioè rispetto a quelli industrializzati, ma in senso assoluto, sono cioè più poveri di quanto non fossero prima dell'affermazione, su scala mondiale, della rivoluzione industriale, alias dello Sviluppo. Basta pensare all'Africa che era autosufficiente, dal punto di vista alimentare, agli inizi del secolo e che ora è ridotta com'è ridotta. O al Venezuela, un Paese che aveva in passato una fiorente produzione agricola e costretto ora, a causa delle interdipendenze create nel sistema economico mondiale dallo Sviluppo, ad importare più della metà del proprio fabbisogno alimentare. Perché succede questo? Una tesi, di stampo marxista, sostiene che noi rapiniamo le risorse dei Paesi del Terzo Mondo per poi rivendergliele, a caro prezzo, sotto forma di schifezze. Credo che ci sia una parte di vero. Ma penso che ci sia qualcosa di ancor più profondo e irrimediabile. È lo Sviluppo in sè, cioè il modello occidentale, che quando viene in contatto, foss'anche con le migliori intenzioni, con popoli che hanno una storia diversa dalla nostra ne distrugge l'equilibrio, economico, sociale, culturale, emotivo, facendo di chi era semplicemente povero un miserabile. Ma poniamo invece, per ipotesi, che lo Sviluppo riesca a portare anche i popoli del Terzo Mondo ai nostri livelli di vita. Ebbene, se i cosiddetti Paesi in via di Sviluppo si sviluppassero davvero sarebbe la catastrofe. Perché se meno di un miliardo di cretini industrializzati sono riusciti quasi a sfasciare l'ecosistema, si può facilmente immaginare cosa accadrebbe qualora fossero sei volte tanto. Perciò quando l'Occidente indica nello Sviluppo (il suo tipo di Sviluppo) la soluzione dei problemi del Terzo Mondo o è in perfetta malafede, perché sa benissimo che quei popoli non si svilupperanno mai, oppure è folle e suicida. Su queste cose, credo, dovremmo ragionare e meditare, al Cairo e altrove, invece di cercare, con la consueta arroganza, di imporre ai popoli del Terzo Mondo, oltre a tutto il resto, anche di figliare di meno, quando si sa, da sempre, che i figli sono l'unica ricchezza, materiale ma anche affettiva, di chi non ha nulla.

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Il 23 maggio, quando gli immani massacri nel Ruanda erano già emersi in tutta la loro spaventosa crudezza e 500mila cadaveri giacevano sul terreno o galleggiavano sul Lago Vittoria, Arrigo Levi ha scritto per il Corriere un angosciato articolo ( «I demoni tra noi» ) in cui cercava di capire come era stato possibile arrivare a tanto e di chi fosse la responsabilità, Ma non riusciva a darsi risposta. Eppure per averla gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio. Non certo nel senso che Levi sia personalmente responsabile di alcunché, ma lo è quel modello occidentale di cui egli è tra i convinti assertori. L'intrusione di questo modello in Africa è infatti all'origine non solo della tragedia ruandese ma della più complessiva tragedia che sta uccidendo il Continente nero. E ciò non tanto perché noi abbiamo fornito a quei popoli armi micidiali (c'è anche questo, naturalmente), ma per motivi più sottili, profondi e devastanti: il modello occidentale, con la sua violenza pervasiva anche quando si afferma in forme pacifiche, ha distrutto gli antichi e collaudati, anche se fragili, equilibri tribali e ha fatto del nero africano un uomo eccentrico rispetto alla propria cultura, uno sradicato, un ibrido che non è più «primitivo» ma non è nemmeno moderno. Un genocidio come quello ruandese o massacri indiscriminati come in Angola o, anche, in Somalia non si erano mai visti in Africa prima che venisse stabilmente in contatto con l'uomo bianco. Gli africani, come tutti i popoli cosiddetti «primitivi», avevano elaborato, nella propria millenaria esperienza, una serie di accorgimenti per ritualizzare, innocuizzare, incanalare e comunque limitare la violenza e abbassarne la soglia entro livelli tollerabili. L 'antropologo Gaston Bouthoul ha raccontato che molte tribù africane avevano escogitato una guerricciola finta, la rotana, per liberare in questo modo la propria aggressività e scongiurare così il più possibile la diembi,la «guerra grande». Ma anche la diembi non era poi gran cosa. Mi ricordo di aver assistito, una ventina di anni fa, a Nairobi, ad un convegno sulla guerra cui partecipavano i rappresentanti di numerose etnie. Questi parlarono della loro storia bellica e ne venne fuori un quadro che non era neanche lontanamente avvicinabile non dico alle devastanti guerre europee del XIX e del XX secolo ma neanche alle guerre di religione del «secolo di ferro» (1550-1650). Ad un certo punto anzi intervenne il re di non so più quale tribù e disse: «Anche da noi, qualche anno fa, c'è stata una guerra, una cosa davvero tremenda, terribile. Ma poi, vicino ad un pozzo, ci scappò il morto e la guerra finì immediatamente». Questa era l'Africa prima dell'incontro con l'Occidente. Del resto il nero è un istintivo, non un violento. È allegro, spiritoso ed ha una indole che lo porta ad accettare le cose. Ne ho avuto un buon riscontro nel mio soggiorno in Sud Africa. Quando ho incontrato neri dei Bantustan o di campagna o abbastanza anziani da conservare il fondo della propria cultura tribale non ho mai avvertito alcuna animosità nei confronti dell'uomo bianco, pur avendone, in quel Paese, mille motivi. Le cose cambiavano radicalmente con quei neri che avevano assimilato la cultura occidentale, che avevano studiato, magari, ad Oxford o a Cambridge. Costoro non avevano più nulla della cordialità, dell'affabilità, della bonomia, dell'allegria del nero. Erano dei perfetti europei. E dall'Europa e dall'Occidente avevano mutuato il virus peggiore: quello del fanatismo ideologico. E infatti, checché se ne pensi, la guerra in Ruanda non è tribale ma è una tipica guerra ideologica e di potere alla maniera occidentale. Ha detto Jean De Bakker, un missionario che vive in Ruanda da 18 anni: “Non sono bestie selvagge né tribù in lotta per la supremazia etnica. E' uno scontro di potere». E lo conferma il fatto che del Fronte patriottico fanno parte tanto tutsi che hutu. Pervasa dal modello occidentale, dal suo pensiero, dalla sua economia, dai suoi oggetti, dalle sue armi, la gente non solo dell' Africa ma di buona parte del Terzo Mondo ha perso la propria identità ed è diventata un ibrido, un mostruoso melange di primitivismo e di modernismo. In un certo senso era molto meglio il colonialismo classico perché mantenendo il distacco dagli indigeni perlomeno consentiva loro di conservare i propri costumi, la propria cultura, la propria anima. Mentre il colonialismo attuale, con la pretesa totalizzante di omologare a sè, ritenendosi «il migliore dei mondi possibili», l'intero esistente e di fare della terra un unico, immenso, mercato, distrugge i popoli con cui viene a contatto, sia in senso economico, perché fingendo di erogar loro risorse in realtà gliele rapina, sia in quello, più profondo, esistenziale, emotivo, psicologico e culturale. Del resto non può essere un caso che l'Africa agli inizi del secolo fosse, dal punto di vista alimentare, autosufficiente, mentre oggi, oltre a conoscere massacri mai visti prima, è ridotta alla fame. Smettiamola di «aiutare» l'Africa. Si aiutava molto meglio da sola.