Il Cantico dei Drogati, De André
C’è una sola, unica e vera vittima della democrazia italiana: il cittadino italiano. Che viene bastonato da tutte le parti (Stato) tosato come una pecora (Fisco) senza peraltro reagire in alcun modo, per cui si potrebbe dire che ha ciò che si merita.
La Premier Giorgia Meloni ha avuto la sfacciataggine di dire che lo Stato è una mafia, di cui lei è evidentemente il capo, ma che a questa mafia dobbiamo pagare le tasse. Tanto varrebbe pagare le tasse alla Mafia propriamente detta che in cambio di una filiazione volontaria (mentre quella allo Stato è obbligatoria) offre protezione e lavoro. Lo Stato attraverso marchingegni giuridici fumosi ben architettati offre protezione solo a ‘lorsignori’ mentre per gli altri c’è il bastone della pula e della Magistratura. Offre la gola al lupo chi si fa pecora.
Un certo Matteo Renzi, che aveva fatto cadere un governo senza alcuna motivazione plausibile, durante l’interregno fra un governo e l’altro si permetteva di sorvolare continenti e mari per andare a ricevere laute ricompense dal principe saudita Bin Salman e per andare a vedere una corsa automobilistica, mentre la vittima, il cittadino italiano, non doveva fare più di duecento passi fuori da casa sua. Uno schiaffo in piena regola che dichiarava ‘apertis verbis’ quello che sappiamo tutti: che nel nostro Paese ci sono cittadini italiani di serie A e di serie B. A questo punto sarebbe difficile rimproverare ai cittadini italiani di serie B e anche C e D (perché le vittime sono suddivise in varie sottoclassi) se prendessero un bastone e si appostassero attorno a palazzo Chigi e alle case del suddetto Matteo Renzi. Lo si può volere ma non lo si può fare perché lo Stato ha il monopolio della violenza. Ma verrà pur un giorno come dice De André, rifacendosi alla Apocalisse di Giovanni, in cui “i muti canteranno e taceranno i noiosi”, in cui, fuor di metafora, verrà un Qualcuno, un Qualcosa, un Demone, una Apocalisse che metterà fine a questo “osceno gioco”.
28 giugno 2023
L’altra sera è ricomparsa nell’ultimo servizio di nessuna importanza Chiara Martinoli. Me ne dispiace. Speravo se ne fosse andata in un network dove si apprezzano le giornaliste brave e non le si penalizza, per chiara invidia, perché si permettono di essere anche graziose.
m.f
Vittorio Feltri compie ottant’anni.
Estate 1993. Feltri dirige l’Indipendente da un anno e mezzo e l’ha portato dalle 19 mila copie cui l’aveva lasciato l’ameba similanglosassone Ricardo Franco Levi a 120 mila, un exploit unico nella storia dei quotidiani italiani del dopoguerra. Tutto sembrava andar bene. Se Montanelli lascia Il Giornale, come doveva fare perché Berlusconi era diventato un uomo politico, ci sarebbero arrivate senza colpo ferire altre 40 o 50 mila copie e l’Indipendente sarebbe potuto diventare la Repubblica degli anni Novanta e del Duemila e oltre. In agosto Vittorio mi invitò a cena, in una normale pizzeria, perché allora non amava i locali eleganti che predilige oggi e non cercava di vestirsi “all’inglese” (nel Cyrano lo prenderò bonariamente in giro: “nessun inglese si è mai vestito all’inglese”). Feltri mi fa questa terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. E io a cercare di spiegargli che era un errore, professionale, politico e anche, a parer mio, personale. Finita la cena, entrambi un po’ brilli, alzammo i calici di vino e Vittorio disse: “in culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si sarà ripetuta almeno quattro volte. L’ultima: “in culo al Berlusca, restiamo all’Indi” il giorno dopo passava al Giornale. Al Giornale da forcaiolo che era (“il cinghialone” appioppato a Craxi trasformando così le legittime inchieste di Mani Pulite in una sorta di caccia sadica, Carra con le manette sbattuto in prima pagina, accanimento sui figli di Craxi, Stefania e Bobo che toccò a me difendere) divenne “ipergarantista”. Io gli diedi del “traditore”, del “voltagabbana” ma lui, che pur come ogni prima donna è permalosissimo, me la lasciò passare. Feltri si portò via tutta la struttura dell’Indipendente e tutti gli editorialisti. Io rifiutai. Il giovane editore Zanussi ebbe la dabbenaggine di chiedere proprio a Feltri di indicargli un direttore per l’Indipendente e Vittorio indicò ovviamente “il peio fico del bigoncio”, Pia Luisa Bianco. Avrei potuto farmi avanti e certamente la direzione me l’avrebbero data perché, dopo Feltri, ero la prima firma dell’Indipendente. Ma non lo feci perché non mi sentivo in grado di dirigere un giornale e comunque con Vittorio dall’altra parte non ci sarebbe stata partita (una volta Vittorio mi confidò: “Tu scrivi meglio di me”, “Può darsi, risposi, ma io non sono in grado di dirigere un giornale visto che non sono capace di dirigere nemmeno me stesso”).
Senza Feltri, senza la struttura che aveva creato, senza gli editorialisti che si era scelto, l’Indipendente capitombolò. Feltri più volte mi aveva fatto offerte perché andassi con lui al Giornale e alla fine, visto che la situazione precipitava, decisi di accettare. Combinammo i termini della collaborazione. Dovevo scendere solo di un piano e parlare con l’amministratore, Roberto Crespi, per formalizzare il contratto. Crespi mi parlò per mezz’ora, in termini quasi militari, delle strategie e delle tattiche del Giornale, cose che a me interessano nulla. Per interrompere quella insopportabile arringa chiesi a Crespi a che squadra tenesse. Disse: “Tenevo alla Juventus, ma adesso tengo al Milan perché mi piace il bel gioco”. Risalii le scale, tornai da Feltri e gli dissi: “Non vengo più”. Perché se non si poteva nemmeno tenere alla squadra del cuore era chiaro che, nonostante tutte le assicurazioni che mi aveva dato Vittorio, non avrei potuto scrivere liberamente.
Il miracolo dell’Indipendente fu dovuto anche al fatto che Vittorio vi faceva scrivere tutti, di destra, di sinistra, di centro e pure estremisti di ogni sorta, ma il giornale conservava un’unità e un’identità ed era proprio Feltri a dargliela. Si era inventato il “feltrismo”.
Dopo che aveva lasciato l’Indipendente per il Giornale lo accompagnai a Bergamo, la sua città. Il pubblico, tutto leghista, rumoreggiava contro Vittorio. Dissi: “Non potete insultare così un uomo che vi ha sostenuto per parecchi anni”. Sotto il banco Vittorio mi strinse la mano. È l’unico contatto fisico che ho avuto con lui, ma ciò che davvero ci unisce è una forte malinconia di fondo.
Un altro exploit Feltri lo aveva fatto con L’Europeo diretto da Lanfranco Vaccari, lo portò da 80 mila copie a 120 mila. Dell’insuccesso dell’Europeo di Vaccari io ero in buona parte responsabile. Il giovane Vaccari mi aveva assunto perché oltre alle consuete inchieste ed editoriali, gli facessi anche un po’ da ‘consigliori’. Io, ispirandomi all’Europeo di Tommaso Giglio, volli un giornale molto rigoroso, direi quasi khomeinista. Ma non funzionò, altri tempi, di sbraco direi, stavano venendo avanti.
Di fronte al fenomeno Lega Feltri si comportò come sempre si dovrebbe comportare un giornalista, non lo demonizzò, come facevano tutti gli altri giornali, ma cercò di osservarlo e capirlo e poiché io questa posizione con la Lega l’avevo assunta almeno un anno prima di lui ciò spiega il successo di quell’Europeo: la Lega di Bossi al Nord prendeva quasi il 50 percento.
Anche quando eravamo in freddo come è stato spesso nella nostra altalenante amicizia, Feltri mi pubblicava pezzi che nessun’altro giornale avrebbe osato pubblicare. Mi piace ricordare l’inizio di un pezzo intitolato Cerco Ideali. E sono disposto a tutto : “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afgano, un iracheno, un ceceno che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lottava con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo. Vorrei far parte dei ‘boat people’ che vengono ad approdare e spesso a morire sulle nostre coste. Perché sono spinti almeno da una speranza. Vorrei essere e vorrei essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per sessant’anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”. Perché si può rimproverare tutto a Feltri tranne che gli manchi il fiuto del giornalista. Mi venne in soccorso anche in un’altra occasione. In un giugno canicolare e patibolare la Rizzoli mi aveva liquidato, insieme ad altri giornalisti un po’ stupiti di vedermi lì, nell’agenzia del lavoro di via Lepetit 8. La Rizzoli non mi aveva fatto ricevere nemmeno dall’ultimo dei manager. Io rimuginai l’amarezza per un mese poi telefonai a Vittorio con cui in quel momento ero ai ferri corti e gli dissi: “Vuoi sapere cosa succede realmente al glorioso gruppo Rizzoli - Corriere della Sera?”. Feltri pubblicò due mie colonne in prima pagina, di spalla, e poi due pagine all’interno del giornale. Ogni frase era da querela, se non fosse stata vera. Ma i dirigenti del Gruppo Rizzoli-Corriere non alzarono orecchia. Aggiungo, di passata, che al Gruppo Rizzoli-Corriere avevo lavorato complessivamente per vent’anni, scrivendo più articoli di qualunque altro fosse passato, almeno a quel tempo, da quelle parti e lasciandoci anche qualche brandello di salute. Alla Pirelli avevo lavorato due anni dando più fastidio che altro. Ma fui ricevuto per mezz’ora dal capo ufficio stampa e pubblicità, Ghisalberti, e successivamente dall’amministratore delegato della Pirelli, Franco Brambilla, cognato di Leopoldo Pirelli, al prestigioso trentesimo piano del grattacielo di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. Brambilla mi accolse così: “Preferisce un caffè o un bourbon?”. “Bourbon, naturalmente”. E così in quello strano modo brindammo alla mia uscita dalla Pirelli. Brambilla mi parlò come un sessantenne può parlare ad un ragazzo di poco più di vent’anni. Disse: “capisco che a un ragazzo come lei un ambiente come quello della Pirelli provochi sofferenza. Ma nella vita ogni cosa serve. Lei è un ragazzo intelligente e vedrà che troverà la sua strada”. Non mi pare abbia sbagliato di molto. Se quelli del gruppo Rizzoli-Corriere avessero mostrato verso di me non dico dell’umanità, ma almeno un po’ di sensibilità, si sarebbero risparmiati quelle pagine feroci che scrissi poi sul Giornale.
A quell’epoca Feltri ed io non sapevamo neanche dell’esistenza dell’uno e dell’altro, lui era un cronista abbastanza anonimo dell’Informazione, io un disoccupato. Feltri lo conobbi veramente quando nel 1989 arrivò all’Europeo. La redazione fece uno sciopero sciocco, cui partecipai anch’io, perché gli si rinfacciava di essere arrivato a quella posizione perché legato a una figlia di Biagi, Bice. Mi telefonò per chiedermi un pezzo. “Non posso, c’è lo sciopero”. Ma poco dopo lo raggiunsi all’Indipendente e qui il cerchio si chiude.
Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2023