A me Giorgia Meloni piace. Come persona. Per la giovinezza, la freschezza e quella genuinità che le deriva, credo, dalle sue origini popolari e popolane (“mo’ va a finire che famo le tre”, fuori onda). Per la femminilità. Fa la dura, e lo è, ma anche nei discorsi più importanti e istituzionali non rinuncia, con un gesto, appunto tipicamente femminile, a ravviarsi i capelli gettandosi le ciocche all’indietro, lontanissima in questo dalla rigidezza di Elly Schlein. Mi piace per la sua franchezza (“non ci sono i soldi”). Mi piace perché si sbatte come una matta, anche in quei pochi giorni in Puglia che dovevano essere la sua vacanza non ha rinunciato a vedere il presidente albanese Rama. E più volte ha dovuto richiamare i suoi ministri, propensi allo svacco, a lavorare.
“Non sono ricattabile” ha detto sul muso a Berlusconi, il re dei ricattatori. E le si può credere. Per quanto si sia cercato, in lei e nella sua famiglia, non sembra esserci traccia di corruzione, semmai, forse, un pizzico di familismo, ma non si è italiani per caso. È italiana, non è tedesca.
Non credo che le possano essere addebitate le opinioni del fidanzato, Giambruno, giornalista. È un vero peccato che Giambruno si sia lasciato andare a quelle dichiarazioni che naturalmente sono state strumentalmente addebitate a Meloni chiedendole di intervenire, cosa che non può e, a mio avviso, non ha nemmeno diritto di fare. Peccato perché fino a ieri Giambruno era rimasto nell’ombra, quasi un’assenza, nella migliore tradizione della politica europea, chi ha mai saputo qualcosa del marito di Angela Merkel, o, prima di lei, di quello della Thatcher?
Mi piace per la coerenza. Fin da giovanissima, come la sorella Arianna, Ari per gli amici, anche lei simpatica e forse ancor di più perché, rispetto alla sfrontatezza dell’altra, è timida, era di destra e di destra è rimasta. È stata arronzata per la sua vicinanza a Vox, il partito di estrema destra spagnolo. Ma se uno è di destra è ovvio che abbia simpatie per chi, in Europa, è di destra. Intanto parla un perfetto spagnolo e un altrettanto perfetto inglese, cosa piuttosto rara fra i politici nostrani di oggi per non parlare di quelli di ieri che, anche per ragioni storiche (a scuola le lingue non si studiavano o si studiavano malissimo) facevano fatica a mettere due parole in croce in foresto (l’ottimo Forlani – ottimo per altri motivi – che è stato ministro degli Esteri per cercare di dire grazie in francese diceva “graz”).
Giorgia l’ho conosciuta quando non era nessuno, non era ancora Giorgia Meloni, e mi sembrò animata da un’autentica passione politica che mi pare conservi. Non è Salvini.
Meloni ci mette la faccia. Su tutto. E questo comporta che a lei, soprattutto a lei, anche se non forse solo a lei, vadano addebitate le politiche di questo governo di destra-destra-destra. A parte il provvedimento sugli extraprofitti delle banche, non a caso osteggiato dai berluscones di tutte le risme, l’attuale governo sembra fare esattamente il contrario del Passator Cortese che rubava ai ricchi per dare ai poveri: questo ruba ai poveri per dare ai ricchi. Inoltre non si può essere, come Meloni, ipernazionalisti e nello stesso tempo superatlantisti, perché questo significa perpetuare la sudditanza agli americani in “saecula saeculorum”.
Infine c’è una ragione molto personale per la mia simpatia per Giorgia. Quando pubblicai Cieco glielo mandai e lei mi rispose con una mail molto gentile. Questo tipo di cortesie, che vogliono comunque dire attenzione all’altro, senza avere per questo l’aspettarsi nulla in cambio, le faceva solo Giulio Andreotti. Ma col “divo Giulio” entriamo in un altro mondo, nel “mondo di ieri” per dirla con Stefan Zweig, purtroppo scomparso.
Il Fatto Quotidiano, 5.09.2023
Un recente sondaggio inglese, ripreso dal Telegraph, rivela che quasi il 10 percento della popolazione giovanile nella fascia d’età tra i 18 e 24 anni dichiara di non aspettarsi di ricoprire mai un impiego in tutta la vita. Non che questi giovani pensino che non riusciranno mai a trovare un lavoro, più semplicemente credono che “non ne valga la pena”. Si sta quindi facendo strada l’intuizione di quel gruppo, per ora estremamente minoritario, di giovani americani che si sono significativamente dati il nome di Luddite Club che però con il fenomeno luddista comparso ai primi dell’Ottocento sempre in Inghilterra non ha molto a che vedere anche se ha qualcosa da spartire. Il luddismo classico distruggeva le macchine perché toglievano lavoro, questi vogliono semplicemente togliere di mezzo il lavoro. Un “diritto alla pigrizia” era già stato affermato da Paul Lafargue, genero di Karl Marx, in chiave anticapitalista. Lafargue parla della “strana follia” che si è impossessata dell’uomo moderno: l’amore per il lavoro. E in verità il Primo Maggio noi facciamo, senza rendercene conto, l’elogio della nostra schiavitù. E a dicembre, in una intervista molto discussa, la deputata francese Sandrine Rousseau aveva proclamato “il diritto all’ozio”, che però non va confuso con la pigrizia e si avvicina molto di più all’“otium” laborioso dei latini.
Però questi neo-diritti che nascono proprio in reazione al compulsivo modello industriale basato sull’invidia, considerata in senso positivo come molla dell’intero sistema da Ludwig Von Mises (La mentalità anticapitalista), uno dei più estremi ma anche più coerenti teorici del neocapitalismo, vanno presi “cum judicio” , diciamo con le molle. Non si tratta di non lavorare più addossando la fatica a padri o nonni, perché poi bisogna pur mangiare, ma di lavorare meno, di avere più tempo, che è il vero valore della vita, per noi stessi e per i nostri bisogni più autentici.
Come? Si tratta di abbandonare tutti i bisogni futili che ci vengono continuamente proposti dal mercato, bisogni di cui l’uomo, prima di quest’era superdinamica che è iniziata grossomodo con la Rivoluzione industriale, non aveva mai sentito il bisogno. Si tratta di abbandonare la pazzesca legge di Say (1803) seconda la quale “l’offerta crea la domanda”. Si tratta quindi di tornare ai bisogni veramente essenziali. Ma qui si incrocia il primo incrocchio. Come mi ha detto una volta lo storico Carlo Maria Cipolla: “per lei magari sono essenziali i libri ma per un altro essenziale è tutt’altro”. Eppoi ci sono cose che mai state essenziali lo diventano, per esempio lo smartphone. Quindi il principio del Luddite Club, se portato fino alle estreme conseguenze, condurrebbe a una vita da cenobiti.
Comunque si può dire, sia pure con una certa approssimazione, che ci sono in circolazione oggetti totalmente inutili. Quindi: comprare di meno. Ma comprare di meno significa produrre di meno e si tratterebbe perciò di ribaltare da cima a fondo l’attuale modello di sviluppo.
Il metodo che abbiamo chiamato per comodità Luddite Club darebbe poi un significato a quella transizione ecologica di cui tanto si parla ma per la quale non si fa nulla di concreto. Non è con i “bio” e i “green” che si risolve una questione epocale come questa. Lo sgretolamento dei ghiacci polari dovrebbe aver convinto anche i più feroci negazionisti (i Von Mises del momento) che stiamo andando a rotta di collo verso un collasso definitivo. L’Economia e la sua sorella gemella Tecnologia hanno una parte fondamentale in questo processo sempre più accelerato di dissoluzione. Bisogna che Economia e Tecnologia tornino al ruolo subalterno che hanno avuto fino a due secoli e mezzo fa prima del take off industriale e che l’uomo sia rimesso al centro del sistema. Da dove partire quindi? Dalla terra che è quella che ci dà il cibo, bisogno che, Cipolla o non Cipolla, è essenziale in modo indiscutibile. Quindi: economia di sussistenza, autoproduzione e autoconsumo. Un ritorno all’indietro, certo. Ma il futuro non è davanti, ma dietro di noi.
Il Fatto Quotidiano, 1.9.2023
“L’estate sta finendo”, Righeira, 1985
L’estate sta finendo. Meno male. Mentre sto scrivendo (22 agosto ore 14.20) la temperatura a Milano è di trentanove gradi. Vivo da sempre a Milano e una temperatura del genere non l’ho mai vista. Abbiamo avuto un inverno, almeno qua a Milano, che non è stato un inverno. La sera io vado spesso a mangiare al ristorante, con amici o amiche, e anche a gennaio e febbraio che dovrebbero essere i mesi più freddi abbiamo sempre mangiato fuori. Poi c’è stata una stagione incerta. Anormalmente calda, non si capiva se era il residuo di un inverno anomalo o l’inizio di una primavera incerta. In qualche modo si è arrivati a luglio che normalmente a Milano è il forno di tutti i forni. E così è stato. Ma poi è arrivato agosto che normalmente, a parte i primissimi giorni, è più fresco di luglio. Invece adesso siamo a trentanove gradi. Non so se Milano, piazzata al centro di una pianura che sta, seppur lievemente, sotto il livello del mare, che a differenza di tutte le altre città italiane ed europee non ha un fiume degno di questo nome, possa essere un segno del cambiamento climatico globale. Certamente qualcosa dice.
La mia situazione e quella dei miei coinquilini è aggravata dal fatto che a causa dell’Ecobonus siamo impacchettati e quindi anche quando pur esistesse un refolo d’aria non ci arriva. In più i miei coinquilini, per un’afagia di denaro che caratterizza la classe media italiana, hanno voluto un telo pubblicitario. Quindi per un anno intero noi non abbiamo avuto né luce né sole né aria. Sono convinto, come ho già scritto in altra occasione, che se tu andassi da un bangla e gli dicessi: io ti do un po’ di denaro ma tu per un anno rinunci alla luce, all’aria, al sole, quello ti sfanculerebbe. Il paradosso è che adesso quello stramaledetto telo ci verrebbe in soccorso per pararci dai feroci raggi del sole di questo agosto.
L’estate sta finendo. Ed è l’estate, non il primo dell’anno, che segna il passaggio da un anno all’altro. Diamola pure per finita l’estate, adesso che ci resta? “Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare” canta il menestrello Jannacci. Ma adesso che cosa abbiamo da aspettare? Un'altra estate sperando che sia migliore di questa ma, come canta Giorgio Gaber in Porta Romana “un anno è lungo da passare”. E quindi dobbiamo aspettarci le solite polemiche politiche prive di senso, Salvini che tenta di fare le scarpe a Meloni, l’opposizione che abbaia a vuoto, Zelensky che fa la star, i russi che perdono anche se vincono, la Cina sempre più vicina, il festival di Sanremo, il concorso di Miss Italia con ragazze standard prive di qualsiasi appeal, aggiungiamoci pure la Festa del Fatto, le partite di un calcio sfinito che si è trasferito negli Emirati dove non hanno mai visto un pallone. Una prospettiva da far venire i brividi.
L’estate è stata sempre una promessa di amori, e, diciamo pure la parola proibita, di felicità, soprattutto se al mare. Sono infinite le canzoni che parlano di amori estivi e di conseguenti, e altrettanto elettrizzanti, tradimenti. Canta sempre Celentano in Storia d’amore: “Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai/ In spiaggia ho fatto il pagliaccio/ Per mettermi in mostra agli occhi di lei/ Che scherzava con tutti i ragazzi all'infuori di me/ Perché perché perché perché, io le piacevo/ Lei mi amava, mi odiava, mi amava/ Mi odiava, era contro di me/ Io non ero ancora il suo ragazzo e già soffriva per me/ E per farmi ingelosire/ Quella notte lungo il mare è venuta con te”. Ah quelle passeggiate notturne lungo il mare. Ma qui mi rendo conto di confondere l’estate con la vecchiaia, la mia. A noi vecchi è consigliata, perché molto più riposante, la collina. Ma li c’è un riposo che, almeno ai miei occhi, somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. E quindi insisto ad andare al mare anche se non cavo più un ragno dal buco.
In realtà molto più favorevole per i vecchi è l’inverno. Con la sua oscurità, con la sua penombra, ci nasconde e ci protegge. Mentre d’estate i vecchi sono costretti ad uscire come topi dalle tane. Li vediamo in carrozzella, con i bastoni, con le protesi all’anca. Eppure nonostante sia consapevole di tutto questo io, come il giovane Celentano, continuo ad aspettare l’estate tutto l’anno, anche se non mi può dare assolutamente più nulla. E non so nemmeno quanto possa dare anche ai giovani, perché scopare a quaranta gradi all’ombra è una fatica che è meglio evitare.
“L’estate sta finendo e un anno se ne va”.
Il Fatto Quotidiano, 28.08.2023