Gabriella Caramore, 78 anni, scrittrice raffinata, ha pubblicato un libro sulla vecchiaia che ha intitolato “L’età grande” e non si capisce se questa età grande sia un ulteriore passo semantico che va oltre la già ipocritissima “quarta età”.
Anche Caramore non sfugge al tentativo di edulcorare la vecchiaia, di riempirla di significati profondi e inaspettati come han fatto tutti gli autori che si sono occupati di questo tema.
I Latini, meno retorici e ipocriti di noi, chiamavano la vecchiaia atra, cioè cupa, funesta, triste, fosca, oscura, nera, buia. Scrive Terenzio senectus ipsa morbus est, la vecchiaia è in sé una malattia e Seneca, dicendo una volta tanto una cosa intelligente non attinta dal suo ‘stoicismo de noantri’, rincara la dose: enim insanabilis morbus est, e per soprammercato, a differenza di una malattia da cui si può sempre sperare di uscire, è inguaribile.
Guardo sul mio tavolino la foto di mio figlio. Ha 3 anni. La carne è florida e in piena crescita. Oggi di anni ne ha 45, è probabilmente all’apice della “salute” intesa in senso dantesco. Ma quella carne com’è cresciuta è destinata fatalmente a decomporsi a meno che qualche incidente violento non faccia piazza pulita. Solo la morte può salvare dalla vecchiaia, non per nulla Menandro scrive: “caro agli Dei è chi muore giovane”. In più, per colmo di sfortuna, in genere il corpo invecchia prima della mente che può guardare ancora, con lucidità, tutti gli stadi della decomposizione.
E tuttavia l’aspetto più drammatico della vecchiaia non sta nel decadimento fisico con i suoi inevitabili acciacchi, ma nell’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il futuro, manca la speranza, manca il tempo. Sorella Morte ha già alzato la sua falce e sai che non ci saranno supplementari. Tutto ciò che hai vissuto, amato, visto, letto, precipita nel Nulla, lo spaventoso Nulla.
Ci sono i ricordi, dicono. Una volta che andai a visitare Paola Borboni “allettata”, come si dice adesso in un gergo sinistro, medico, scientifico (“costretta a letto” mi parrebbe più umano), ebbi l’imprudenza di dirle: “lei conserva comunque dei bei ricordi”. Lei con una specie di ruggito fece un balzo, era pur sempre una grande attrice, e disse: “i bei ricordi? Sono la cosa più tormentosa per un vecchio, meglio quelli brutti che almeno si possono dimenticare”.
Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato è scomparso. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento. Tutto appare sfocato, lontano, lontano. Sei un sopravvissuto.
Il solo modo per vivere un po’ meno peggio la vecchiaia è accettarla. Magari aiutandosi con la fede in “una vita oltre la vita”, col mito di Dio o di altre cosmogonie o con l’esoterismo. Tutte cose che non mi riguardano.
Ora sto per compiere 80 anni, cosa che mi pare oltremodo ingiusta, li compiano gli altri 80 anni (“ho visto allo specchio il volto di un vecchio/devo essere pazzo io son solo un ragazzo”). Ho fatto di tutto per evitarli con un vita sregolata, notti furiose (per molti anni l’alba l’ho vista non perché mi stavo alzando, ma perché andavo a dormire), alcol, whisky, vodka, fumo (non stupefacenti, quelli non li ho mai toccati, faccio parte della generazione del vino oggi sostituito spesso dai ragazzi con la birra).
Sono un’obiezione vivente, per ora, di quella sciocchezza che ho chiamato “terrorismo diagnostico”. Per premonirci da un rischio (altra parola sinistra) futuro rinunciamo a vivere. È così semplice: è vivere che ci fa morire.
La mia fidanzata, ancora giovane, per consolarmi, ma forse anche credendoci, mi dice amorosamente che gli anni non contano, sono solo numeri, che ho “una sconfinata giovinezza” e che sono “un figo pazzesco”. È una mitomane.
Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2023
Giovedì nel Famedio del cimitero Monumentale che raccoglie i milanesi illustri è stato inserito Silvio Berlusconi. Molte le polemiche. Eccessive, perché è fuor di dubbio, come ha ricordato il sindaco Beppe Sala, che Berlusconi a Milano abbia creato una grande impresa, abbia costruito, abbia dato lavoro a moltissime persone anche se, evidentemente, tutto ciò non lo ha fatto in modo limpido tanto che i Cavalieri del Lavoro (onesto) non ne hanno sopportato la presenza nella loro federazione e lo hanno cacciato in malo modo.
Fin qui siamo nell’accettabile. Inaccettabili invece sono le parole con cui Paolo Berlusconi ha voluto concludere la cerimonia: “Silvio era un uomo buono, giusto e generoso”. Fatta pur la tara dell’amore fraterno è difficile definire “buona” una persona che truffa, in combutta con un'altra, una ragazza minorenne, orfana di entrambi i genitori morti in circostanze tragiche. Sono cose dei primissimi anni Settanta. Anna Maria Casati Stampa, così si chiama la ragazza, dopo la morte dei genitori si trova a gestire un imponente patrimonio, non solo la famosa villa di Arcore, con i suoi Luini e il suo grande parco, ma anche i terreni di origine feudale che i Casati Stampa hanno a Cusago e dintorni: 246 ettari. Anna Maria ha bisogno di liquidità perché deve pagare le tasse di successione. Per sua sfortuna ha come protutore Cesare Previti già in combutta con Berlusconi. Previti vende a Berlusconi la villa di Arcore, i Luini, il grande parco alla cifra irrisoria di 500 milioni e il territorio di Cusago alla cifra ancor più irrisoria di 1 miliardo e 700 milioni. Il tutto fu pagato alla Casati Stampa con azioni di aziende di Berlusconi non quotate in Borsa e quindi dal valore assai dubbio. Infatti Anna Maria Casati Stampa non riesce a realizzare il dovuto. Arrivano il Gatto e la Volpe, cioè Previti e Berlusconi, che le dicono: “Niente paura te le ricompriamo noi, a metà prezzo”. Una truffa nella truffa.
Questi dati non sono farina del mio sacco, li ho ricavati dal documentatissimo libro del giornalista Giovanni Ruggeri, Berlusconi, gli affari del presidente, 1994. Fui però io a riportare la truffa all’onor del mondo in tre pezzi che scrissi per L’Indipendente nel 1994. Berlusconi e Previti fecero finta di nulla ma tirato da me per i capelli Previti si decise a querelare Ruggeri, me e L’Espresso che aveva ripreso questa parte del libro di Ruggeri. Nel 2008 la Corte di Appello di Roma sentenziò che la ricostruzione di Ruggeri si basava “sulla sostanziale veridicità putativa dei fatti”. Io diedi ampio risalto a questa sentenza di assoluzione, ma curiosamente né Ruggeri né L’Espresso ne fecero menzione. Anzi, qualche tempo dopo, Ruggeri fu cosi intimidito che intimò di non riprendere i contenuti del suo libro. Lo stesso Ruggeri mi raccontò che avendo contattato telefonicamente Anna Maria Casati Stampa, che nel frattempo per sfuggire ai clamori di quello scandalo si era rifugiata in Brasile e aveva sposato un Donà delle Rose, le chiese se non intendeva rivalersi delle truffe nei confronti di Berlusconi e Previti. Anna Maria, ormai donna, rispose di no, temeva che i due fossero mafiosi o comunque vicini alla malavita e non voleva avere più grane.
Ora si può capire, anche se in nessun modo giustificare, l’imprenditore che corrompe la Guardia di Finanza, corrompe i testimoni, corrompe i magistrati, ma essere l’artefice di una truffa miliardaria ai danni di un’orfana minorenne, di una persona inerme e totalmente indifesa, dà l’esatta misura della statura morale e del cinismo dell’uomo.
Questa storia infame io l’ho riportata a galla ripetutamente, ma non sembra interessare nessuno, né ai berluscones, ovviamente, né agli anti. Anzi qualcuno mi ha detto “Che figo il Cavaliere a spolpare una nobile piena di quattrini”. Perché la maggiore responsabilità di Berlusconi è quella di aver tolto agli italiani quel poco di senso della legalità e della moralità che gli rimaneva.
Un altro episodio, di portata più modesta. Nella notte del 27/28 maggio 2010 la marocchina Karima El Marough, diventata poi famosa come Ruby, viene arrestata dalla Questura di Milano per un furto. Da Parigi Silvio Berlusconi, premier, con cinque telefonate “tambur battant” al suo capo di gabinetto lo convince che la ragazza venga affidata alla consigliera regionale di Forza Italia Nicole Minetti, che poi la smisterà ad una prostituta ufficiale, che non era esattamente il posto dove doveva andare una ragazza minorenne con i problemi di Ruby. Tutto questo nonostante la Pm del Tribunale dei minori Annamaria Fiorillo, la sola ad aver titolo in questa questione, avesse disposto che Ruby venisse collocata in una comunità. Anche il pretesto preso da Berlusconi, che la marocchina Ruby gli fosse stata indicata come nipote del dittatore egiziano Mubarak, lascia perplessi. A parte il fatto che il Parlamento italiano votò, vergognosamente, che una marocchina era egiziana, non è che se uno è nipote di un uomo importante deve godere di protezioni speciali.
È stato accertato dal Tribunale di Milano, per ammissione dello stesso Berlusconi in una delle udienze del processo, che l’ex Cav pagava 2.500 euro al mese a ciascuna delle cosiddette “Olgettine” perché tacessero o mentissero su quanto avveniva a Villa San Martino durante i cosiddetti “Bunga Bunga”. Inoltre a molte di queste ragazze era stato dato un affitto gratuito. Ma adesso morto il fu Cav, le ragazze sono state sfrattate dalla famiglia Berlusconi da un giorno all’altro, cioè prima le ragazze sono state sfruttate, prostituendole, poi sono state messe sul marciapiede. Un “usa e getta” di grande cinismo.
Questa è la vera cifra di Silvio Berlusconi che ora, regolati anche gli ultimi conti, può riposare tranquillo nel mausoleo cristiano-massonico di Arcore ed essere additato come “uomo buono, giusto e generoso” (generoso finché gli ha fatto comodo) nel Famedio del cimitero Monumentale di Milano.
Io sono un “Ambrogino d’oro”, cioè uno che ha bene meritato della città, ma in quel Famedio, non si sa mai, non vorrei esserci ficcato a nessun costo. Ho sempre avuto in gran sospetto le “anime belle”. E mi vien da concludere con l’aggettivo che Sartre, nella Nausea, dopo aver visitato il Museo di Bouville che ospita tutti i notabili della città, appioppa loro: “sporcaccioni”.
Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2023
Parecchi anni fa quando facevo, o perlomeno cercavo di fare, del vero giornalismo, che è quello sul campo, mi trovavo, per lavoro, in Guinea-Bissau, ospite di una missione cattolica, tenuta da un bravo padre saveriano, Giuseppe Fumagalli, originario di Brugherio alle porte di Milano. La missione si occupava di una tribù del luogo, i Felupe, che vivevano principalmente di agricoltura e in quel periodo il cruccio di padre Fumagalli era che i Felupe si rifiutavano cocciutamente di usare la falciatrice meccanica della missione. Padre Fumagalli se ne lamentava e quasi se ne disperava con me. Non capiva come quella gente potesse rifiutare l’aiuto della falciatrice che fa in tre ore, e senza sforzo, quello che una famiglia Felupe fa, con fatica, in una settimana. Per i Felupe la paglia andava tagliata a mano, col falcetto. “Questa gente – mi diceva padre Fumagalli- ha una cultura totalmente conservatrice, non progressista, gli manca il concetto stesso di progresso, cioè cammino in avanti verso il meglio, verso una vita migliore. Mi ricorda certi contadini del mio paese che, come mi raccontava mio padre, quando a Brugherio comparvero le prime macchine agricole, dicevano: ‘Non permetterò mai che nei miei campi entrino quelle macchine che fanno fumo’. Allo stesso modo quando arrivarono i primi fertilizzanti, molti non li vollero usare. Erano mentalità conservatrici, come ritrovo ancora oggi qui in Africa”.
Eravamo a metà degli anni Settanta e a padre Fumagalli non veniva nemmeno il sospetto, che forse oggi qualcuno comincia a nutrire, che quei contadini potessero avere le loro buone ragioni. Tantomeno ne potevano avere, nella mente di un missionario animato dalle migliori e più pie intenzioni, i Felupe.
Un pomeriggio assistetti a una specie di ‘showdown’ fra padre Fumagalli e il capo dei Felupe. Dopo molte cerimonie, convenevoli e discorsi che giravano intorno alla questione, il Felupe disse: “Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio, la tua falciatrice distrugge questo equilibrio, perciò non la vogliamo”. Ma poiché padre Fumagalli continuava ad insistere e voleva appioppargli a tutti i costi la sua falciatrice, una notte, per buona misura, gliela incendiarono e la faccenda finì lì.
Oggi è tutto un fervore per “salvare” l’Africa, dalla fame, dalla miseria, dall’ignoranza (l’Africa nera è considerata dalla sociologia politica più avvertita all’ultimo gradino del digital divide che considera il divario fra chi ha la capacità di immagazzinare e possedere conoscenze attraverso gli strumenti dell’informatica). Fra questi progetti c’è il cosiddetto “Piano Mattei” di meloniana iniziativa. A parte il fatto che il “Piano Mattei”, così come altri progetti dello stesso genere, è un modo per rapinare ulteriormente, facendo finta di aiutarli, i Paesi africani delle loro risorse, a me pare evidente che abbiamo messo questi paesi, per usare un espressione tratta dall’alpinismo, in una posizione ‘incrodata’: non possono più tornare indietro, all’‘Africa felix’, al tempo felice dei Felupe o degli Azande, ma se vanno avanti saranno ulteriormente strangolati dal nostro modello di sviluppo, da poveri che sono diventeranno miserabili. C’è una distinzione sociologica fra povero e miserabile. Perché una cosa è essere poveri dove tutti più o meno lo sono, altra è esserlo quando intorno a te prilla una ricchezza sfacciata. Che è una situazione che riguarda non solo l’Africa d’oggi ma tutto il mondo degli emirati.
“Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio”. Noi quest’antica saggezza l’abbiamo perduta e a farne le spese non saranno solo i poveri e i paesi poveri, ma anche i paesi ricchi e ricchissimi e gli uomini ricchi e ricchissimi che hanno creato un sistema, che per un meccanismo psicologico elementare, non può che portare alla frustrazione perenne. In un mondo così complesso dov’è diventato difficilissimo per tutti orientarsi, questi stanno tagliando il ramo dell’albero su cui sono seduti. Siccome non sono buono, non ho la bontà sanguinaria di Santa Caterina da Siena o di Madre Teresa di Calcutta, riderei a crepapelle se non fossi anch’io seduto sullo stesso ramo dell’albero, a guardare il precipizio, mentre i miei strilli non servano assolutamente a nulla.
Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2023