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Sono un abbonato Sky per poter seguire il Campionato e la Champions, la vecchia e cara Coppa dei Campioni (l’Europa League è una competizione comica) di cui questo network ha l’esclusiva.

Per noi ragazzi degli anni Cinquanta calcio e ciclismo, i due grandi sport nazional popolari, erano tutto. Lo sci lo conosceva solo chi stava in montagna, il tennis era sport da ricchi o da raccattapalle, il basket apparteneva, insieme al baseball, alla cultura americana e quel gioco non era ancora entrato nella nostra mentalità, a differenza della pur mediocre letteratura yankee dell’epoca, introdotta in Italia da Elio Vittorini con Americana (Steinbeck, Irwin Shaw e l’indigeribile Saroyan).  Ma fra calcio e ciclismo c’era una differenza sostanziale. Il ciclismo lo potevi solo vedere, appollaiandoti sulle strade di montagna delle tappe del Giro o alla Milano Sanremo o al Giro di Lombardia. Il calcio, oltre a vederlo allo stadio se ti ci portava un adulto, lo potevi anche giocare. E lo abbiamo giocato tutti, ognuno al suo livello. A Milano nei terrain vagues che ci avevano graziosamente lasciato i liberatori americani. Negli oratori. Io andavo ai Salesiani di via Copernico dove vidi giocare anche Berlusconi che era un interno di quell’Istituto: era alto come un soldo di cacio, pretendeva di fare il centravanti, non passava mai la palla, era “un Venezia” come si diceva nel gergo di allora, insomma in nuce c’era già tutto il Berlusca che avremmo conosciuto negli anni a venire. Si giocava anche nelle larghe strade della periferia, mettevamo le cartelle a fare da pali e quando passava una macchina ci scostavamo. Il problema era sempre lo stesso: era il tiro a essere troppo alto o il portiere a essere troppo piccolo?

Il calcio di oggi mi piace molto meno. Troppa economia (Neymar valutato 250 milioni, una follia), procuratori pagati più dei calciatori, calcio spalmato, per esigenze televisive, su tutto l’arco della settimana (il venerdì anticipo di B, sabato la B e due anticipi di A, a mezzogiorno di domenica una partita, alle tre del pomeriggio i match più sfigati, alle 18.30 altra partita, alle 20.45 il clou, il lunedì posticipo di A, se poi è stagione di Champions e di Europa League, partite di Champions il martedì e il mercoledì e con l’Europa League il giovedì il cerchio si chiude, un’overdose che stroncherebbe anche un vampiro per eccesso di sangue, come sempre il denaro finirà per uccidere l’oggetto del proprio interesse). In trasferta, per esigenze degli sponsor, maglie diverse da quelle tradizionali, calciatori che cambiano squadra ogni anno, calcio mercato a gennaio con tanti saluti alla regolarità del Campionato. Sul campo il calcio, che è una metafora della guerra, sembra diventato uno sport per educande, basta uno spintone ed è subito giallo, chi viene colpito anche leggermente fa finta di svenire, una goccia di sangue ed è il terrore (il calcio maschio, duro, leale lo si può vedere ormai solo in Scozia). Schemi che sovrastano le peculiarità dei giocatori: 3-5-2, 3-5-1-1, 4-4-2. Telecronisti che, tutti presi a spiegarti gli schemi, non sanno restituire l’emozione di una partita pur lasciandosi andare a un’enfasi smodata a ogni gol o a ogni parata mentre son cose normalissime che abbiamo visto mille volte. Moralismo intollerante. Adesso c’è anche la “discriminazione territoriale”, per cui un tifoso del Verona se gioca col Napoli non può gridare “Forza Vesuvio” e i napoletani, a casa loro, restituirgli la pariglia con un “Giulietta era una zoccola”. Brozovic , uno dei migliori giocatori dell’Inter e del Campionato (maggior percentuale di passaggi riusciti) è stato punito dalla società nerazzurra perché ogni tanto si sbronza (a parer mio un giocatore dovrebbe essere giudicato solo per ciò che da sul campo, quello che fa fuori son fatti suoi, del resto si sa, Maradona docet, che i fuoriclasse sono spesso sregolati nella vita privata, anzi questa sregolatezza, come del resto in letteratura, è spesso all’origine del loro genio). Poi, come se tutto ciò non bastasse, c’è il Var. Il pallone supera la fatale linea di porta, i tifosi trattengono il fiato, non possono né esultare né avvilirsi perché c’è sempre l’ombra del var che può segnalare un fuorigioco avvenuto magari, oggi che le squadre giocano molto ‘alte’, cinque minuti prima, si esulta e ci si dispera dopo in un’atmosfera surreale perché sul campo in quel momento non sta succedendo nulla.

Ma una passione vissuta da ragazzo, diversamente da un amore, non muore mai. Quindi da una decina d’anni sono abbonato a Sky. Parecchi giorni fa, quando si è ripreso a giocare, mi sono ricollegato con Sky . Sullo schermo azzurro appariva l’odiosa scritta “nessun segnale dalla parabola” con tutte le indicazioni delle manovre che devi fare per recuperare la visione e un numero di emergenza. Fai le manovre. Inutili. Chiami il numero. Comincia la tiritera dello “schiacci 1”, “schiacci 2”, “schiacci 3”, se ti va bene alla fine ti risponde una ragazza dall’Albania che ripete come un pappagallo quello che è scritto sul teleschermo. Ma la cosa peggiore, innervosente al massimo (in questo giornale solo Padellaro può capirmi) è quando la trasmissione si interrompe proprio mentre c’è un’azione che profuma di gol per riprendere magari venti minuti dopo. Per sfiga finiana i canali che mi fanno questo scherzo sono proprio quelli che danno il calcio. Ho telefonato al tecnico Sky. Dopo snervanti tentativi l’ho trovato. E’ venuto e mi ha detto che la colpa è della parabola condominiale. Ho telefonato quindi al tecnico del condominio, Formichetti, cosa anch’essa non facile perché bisogna passare prima per la figlia, la moglie, la segretaria che ti ammorbano per venti minuti parlandoti del 5G di cui ovviamente non capisco nulla. Alla fine sono riuscito a parlare con Formichetti lui meme. Abbiamo fissato un appuntamento per le 15.30 del 31 luglio. Credevo che la cosa fosse finalmente risolta. Ma il 31 luglio nessuno si è fatto vedere. Il Formichetti mi ha poi spiegato che aveva parlato con il tecnico Sky e che costui avrebbe risolto tutto. Ma il tecnico Sky mi ha detto che se la responsabilità era di Sky bisognava cambiare il decoder, ma lui non poteva farlo senza l’autorizzazione di Sky. Ho cercato questo ufficio autorizzante, ma dopo i soliti “schiacci 1”, “schiacci 2”, eccetera, sono ricaduto fra le braccia della ragazza albanese. Insomma come nel gioco dell’oca sono tornato al punto di partenza.

Questa è la mia avventura personale con Sky. Ma la vicenda propone anche due questioni più generali. Sky, a differenza per esempio della telefonia, è monopolista nel settore, sei nelle sue mani, non puoi dirgli ”vaffa  mi rivolgo a un altro gestore”.

Seconda questione. A parer mio uno sport così popolare come il calcio non può essere monopolio di una società privata, il ciclismo, per esempio, lo da la Rai sia pure in concorrenza con altri network. Perché questo, in una società già sperequata sia pur per motivi ben più gravi, crea un’ulteriore sperequazione sociale: i benestanti possono vedere il calcio, i poveri, anche se belli, no.

 

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2020

 

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A metà degli anni Settanta frequentavo Susanna Agnelli ed ero spesso suo ospite, per qualche giorno, d’estate ma anche in alcuni weekend d’inverno, nella villa che aveva all’Argentario, un po’ riparata, equidistante da Porto Santo Stefano e Port Ercole dove impazzava il vippume di allora.

Susanna Agnelli, detta familiarmente Suni, l’avevo conosciuta grazie a un’intervista per L’Europeo che le avevo fatto nel 1975 quando, dopo essere stata eletta sindaco del Monte Argentario, aveva pubblicato Vestivamo alla marinara (“Il profilo ha da rapace” così iniziava il pezzo). In realtà la mia subdola intenzione non era tanto di conoscer lei, ma di farla parlare del fratello, il mitico Avvocato cui era legatissima da adorante sorella minore (li separava solo un anno) e al quale era disposta a perdonare tutto. Suni, simpatica, divertente, era incredibilmente naif per gli standard della politica italiana, non si trincerava dietro le consuete fumisterie (si sarebbe fatta più accorta quando diventò sottosegretario agli Esteri sotto Andreotti, un maestro nel genere). Era ritornata da non molti anni dall’Argentina dove aveva vissuto col marito Urbano Rattazzi e non si era ancora abituata al politically correct di casa nostra. Le sparava quindi grosse, in tutta innocenza. Le chiesi: “Se non fosse presidente della Fiat che cosa sarebbe stato politicamente suo fratello?”. “Ah, sarebbe stato certamente comunista, mio fratello”. Il giorno dopo in Fiat scoppiò il finimondo. Mi raccontò anche che Agnelli si divertiva a sfottere Spadolini, allora ministro della Cultura, perché per andare da Roma a Urbino aveva sentito il bisogno di prendere un elicottero (ad Agnelli piaceva molto guidare, anche in modo sconsiderato, tanto che in gioventù ci aveva lasciato una gamba). Spadolini si infuriò, telefonò al mio direttore chiedendo di rettificare, di dire che il giornalista aveva riferito male. Ma Tommaso Giglio non era tipo da stare a simili imposizioni.

La Agnelli aveva una sola guardia del corpo, un certo Calimero, ex uditore giudiziario, molto simpatico, che però non sarebbe stato in grado di affrontare nemmeno un gatto, in realtà fungeva da segretario. In una villa vicina, molto più vistosa di quella della Agnelli, soggiornava Mario Genghini, un potente palazzinaro romano, diciamo il Caltagirone di quei tempi. Genghini girava con nove guardie del corpo, il che voleva dire averne almeno una trentina. Il personaggio ci incuriosiva e insieme al conte Alvise di Robilant, che era anch’egli ospite con la sua giovanissima fidanzata venezuelana, decidemmo di invitarlo per un aperitivo serale. Arrivò vestito da yachtman e una moglie cotonata altrettanto assurda. Fu un’ora di imbarazzo generale. Prima di andarsene Genghini tirò fuori dal taschino interno della giacca un assegno e lo diede alla Agnelli borbottando qualcosa tipo “per il Comune”. Suni lo intascò. La sera ci fu una sorta di consiglio di famiglia. Io consigliai alla Agnelli di restituire immediatamente quell’assegno. Di Robilant soggiunse: “Fai quello che ti dice Fini che è un uomo di mondo”. Io avevo 32 anni e sentirmi dare dell’”uomo di mondo” dal conte di Robilant mi fece una certa impressione. Il giorno dopo il solerte Calimero andò a restituire l’assegno. Ma Suni si rifiutò di dirmi a quanto ammontava, con la scusa che non aveva avuto il tempo di leggerlo. Invece aveva avuto tutta la notte per farlo. A me interessava sapere quanto un Genghini valutasse la corruzione di un Agnelli. Ma non ci fu niente da fare. Ancora molti anni dopo, quando la incontrai per caso a Linate, le chiesi: “Allora adesso mi può dire di quant’era quell’assegno?”. Rien à faire.

La Agnelli faceva una vita piuttosto appartata, ma capitava che nella sua villa, che non era per nulla un porto di mare, vi arrivavano solo parenti stretti come il principe Caracciolo, accadessero cose molto divertenti. Uno dei sei figli della Agnelli, Lupo Rattazzi, filava allora con Imelda Marcos, figlia del dittatore filippino. La villa fu invasa da 007 filippini che si appollaiavano persino sugli alberi e qualcuno, che non doveva essere poi tanto più abile di Calimero, ogni tanto precipitava a terra. Noi sorridevamo di quell’esibizione di potere. Facevamo una vita molto normale, bagni nello splendido mare sottostante, prendevamo il sole, lei a seno nudo (“ma questo non lo scriva”) e gite in bici alla Feniglia, dove la Agnelli, come sindaco, aveva libero accesso, per vedere i daini e i cerbiatti. Facevamo anche delle gare di bici. Io, che ero il più giovane della compagnia, le vincevo ma Suni, molto competitiva, mi arrivava a ruota. Una volta, tutta ansimante, disse: “Un giorno o l’altro ci verrà un infarto”. Aveva 52 anni, sarebbe vissuta, sempre in gran forma grazie al suo fisico da spilungona ma per nulla sgraziato, fino a 87 anni. Una volta le chiesi cosa pensasse di Andreotti che era in quel momento ministro degli Esteri e quale lingua straniera parlasse memore del fatto che uno dei suoi predecessori, Arnaldo Forlani, per tentare di dire grazie in francese diceva “graz”. “Non so, forse sa un po’ di francese. Ma ha poca importanza. E’ di una categoria assolutamente superiore a tutti gli uomini politici che ho conosciuto”. Aveva anche una grande ammirazione per Fidel Castro che aveva incontrato a Cuba: “Un uomo dal fascino straordinario”.

Quando divenne a sua volta ministro degli Esteri il suo atteggiamento cambiò, non era più così alla mano come prima, teneva le distanze, si dava un po’ di arie. Scoprii, con una certa sorpresa, che il successo poteva dare alla testa anche a un Agnelli.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2020

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La Scienza, che tempo fa definimmo “più pericolosa dell’Isis”, ma oggi potremmo anche dire del Covid-19, continua imperterrita, senza che nessuno possa e tantomeno voglia disturbarla, nella sua marcia trionfale verso la propria demenza senile. Secondo uno studio di un gruppo di giovani ricercatori dell’Università di Bologna, premiati dal ministero della Salute, attraverso “la stimolazione magnetica transcranica (Tms)” si potrebbero rimuovere i ricordi spiacevoli, dolorosi, tormentosi, traumatici e la paura che ne è conseguita. Siamo in linea con la tendenza tutta moderna a eliminare dall’essere umano tutto ciò che è umano, per omologarlo a un normotipo astratto, “politicamente corretto”, diciamo così, dal punto di vista fisico, psichico, emotivo (la legge Mancino, oggi rafforzata dalla subnorma antiomofobia, ha già messo le manette all’odio che è un sentimento e, come tale, non può essere abolito per legge). Non pensavamo però che i ricercatori di Bologna non capissero quello che anche la casalinga di Voghera sa. Noi non siamo fatti solo di ciò che abbiamo vissuto, ma anche del suo ricordo. Si chiama esperienza. E il dolore, la paura e i ricordi, buoni o cattivi che siano, fanno parte di ogni esperienza umana. Facciamo un esempio molto semplice. Un bambino avvicinandosi troppo a un fornello del gas o al fuoco che crepita allegramente in un camino, ci mette la sua candida manina, si scotta e prova dolore. E’ chiaro che da lì in poi si guarderà bene dal ripetere quella brutta esperienza. E questo vale per ogni aspetto del vivere umano. Soprattutto la paura (e quindi il suo ricordo) è una componente essenziale della specie umana ma anche di animali di livello superiore (se un topo, attirato da un formaggio, resta secco in una trappola, i suoi compagni vedendo un appetitoso cacio lo avvicineranno con giudiziosa prudenza). Se siamo sopravvissuti a tutto è proprio perché la specie umana è una delle più paurose del Creato. Se continueremo sulla linea dei giovani ricercatori di Bologna, tentando di rimuovere i ricordi, la paura e soprattutto la memoria sulla cui importanza fondamentale sono state scritte intere enciclopedie da parte di studiosi un po’ più accreditati (L’arte della memoria, Frances A. Yates, per tutti), finiremo in trappola. Sopravviveranno solo i topi.

Ma siccome gli scienziati, giovani o meno, sono inesausti, adesso abbiamo l’ultimo grido della medicina preventiva o, per meglio dire, del terrorismo diagnostico. La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association ci informa che con un particolare test del sangue focalizzato sulla proteina Tau saremo presto in grado di prevedere l’insorgere dell’Alzheimer in una persona con vent’anni d’anticipo. Ma che ce serve se contemporaneamente non ci sono, né si prevedono, cure per l’Alzheimer? A far vivere da malato un  uomo sano con vent’anni d’anticipo. La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association stima anche che entro il 2050 i malati di Alzheimer saliranno dai 30 milioni attuali a 100 milioni. Su questo sarebbe interessante indagare, sulle cause, evidentemente ambientali e sociali, cioè sull’attuale modello di sviluppo (perché nelle Isole Andamane non c’è nessun aumento di Alzheimer, anzi l’Alzheimer non esiste proprio) a cui si deve il formidabile incremento di questa malattia. Ma di ciò gli scienziati non si occupano. Sono già malati di Alzheimer, sia pur in incubazione.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2020