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Nei giorni scorsi Beppe Grillo è stato coprotagonista di uno scontro con un giornalista della trasmissione Diritto e Rovescio, Rete4, Francesco Selvi. Le cose sono andate così. Grillo se ne stava spaparanzato sulla spiaggia di Marina di Bibbona dove ha una delle sue due normalissime case (l’altra è a Sant’Ilario sopra Genova), non le “tante ville” di cui parla Alessandro Sallusti, quelle ce le ha Berlusconi che solo in Sardegna ne possiede sette impestando quella che una volta era la splendida Gallura. Dunque Selvi si avvicina a Grillo e gli chiede un’intervista. Fin qui tutto lecito. Solo che Selvi contemporaneamente accende il cellulare. Da questo momento l’intervista è già cominciata e qualsiasi cosa dica o faccia Grillo fa da già parte di un’intervista non autorizzata. Grillo reagisce alla Grillo, cerca di strappare il cellulare allo scorretto intervistatore, lo spinge e lo manda a ruzzolar giù per le terre. Certo avrebbe potuto comportarsi diversamente, come Enrico Cuccia, già ottantenne, che tampinato da un rompiscatole delle Iene per tutto il percorso che andava dalla sua abitazione agli uffici di Mediobanca, un chilometro circa, proseguì dritto, non accelerando né diminuendo la sua camminata, senza degnare l’importuno di una parola e nemmeno di uno sguardo. O come Indro Montanelli che, settantenne, assillato da un giornalista di questo genere gli disse paro paro: “Non mi rompa i coglioni!”.

Io rimpiango i tempi in cui per incontrare una persona bisognava fargli avere prima il proprio biglietto da visita come fece Nietzsche con Wagner e dando così inizio alla più feconda amicizia che il solitario filosofo tedesco abbia avuto. Del resto allora funzionava così. Per tutti. I giornalisti devono capire che, a parte situazioni limite, guerre, scontri di strada e simili, non hanno acquisito un particolare diritto alla maleducazione. E credo che la prima, vera, urgente e forse unica riforma da fare in Italia sia quella del ritorno alla buona educazione. Anche sul gossip politico e giudiziario cui si è ridotto il nostro giornalismo, ammesso che possa definirsi ancora tale, ci sarebbe poi molto da dire. L’insinuazione politico-giornalistica è diventata l’arma preferita da usare contro gli avversari. Nell’editoriale dedicato da Alessandro Sallusti all’episodio Grillo (Il Giornale, 9.9), che gira tutto intorno al fatto che il giornalista di Rete4 non è stato difeso dalla Federazione Nazionale della Stampa perché presunto di destra (il che non è nemmen vero, la Fnsi si è dichiarata “indignata”) mentre se la stessa cosa fosse capitata a un giornalista cosiddetto di sinistra ci sarebbe stata un’insurrezione mediatica (ma non ti sei ancora accorto, Sandro, che Destra e Sinistra non esistono più, esistono semmai fazioni contrapposte?). Lo stesso direttore del Giornale si lamenta come sia “possibile che a oltre un anno dai fatti ancora la magistratura non abbia deciso se suo figlio (di Grillo, ndr) ha violentato o no una giovane ragazza finita nel suo letto?”. Sallusti deve essere diventato bipolare. Dov’è finito l’ipergarantista a 24 carati che non considera definitiva nemmeno una sentenza di condanna della Cassazione, naturalmente se riguarda Berlusconi, e vorrebbe già al gabbio il figlio di Grillo per il quale non si è ancora arrivati nemmeno a una decisione del Gip? Del resto è il concetto espresso da Madama Santanchè, un’altra del giro, per certi reati e soprattutto per certi presunti autori di questi reati: “In galera subito e buttare via la chiave”. Il processo? In questi casi è un optional. Sallusti, senza rendersene conto, è finito nella filiera iperforcaiola del “siamo tutti colpevoli fino a prova contraria” attribuita a Piercamillo Davigo. Non credo tu possa essere contento di questa comunanza, anche se molto presunta. Alessandro so che scrivi ciò che non pensi, ma pensa almeno a ciò che scrivi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2020

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Sfoglio dei vecchi ritagli cartacei (io non utilizzo il web) e trovo un mio articolo sul Giorno del 23.3.1990 intitolato “L’invito del Papa e il tempo rubato”. Papa Wojtyla dopo aver visitato gli stabilimenti della Fiat di Chivasso aveva ammonito imprenditori e lavoratori a “rispettare la sacralità della domenica” suscitando la furibonda risposta di Confindustria. E a ragione, dal punto di vista di quegli strangolatori. Perché il discorso di Wojtyla andava ben al di là della domenica ma investiva l’intero modello di sviluppo occidentale. Cioè riguardava i ritmi assassini a cui è costretto un lavoratore oggi (Amazon per tutti ritornando al presente). E investiva il feticcio totalitario della produzione, per cui noi oggi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre. Universione che ho definito “paranoica”. Nel senso che quando non siamo al lavoro come produttori, lo siamo come consumatori. Il “tempo libero”, tipica invenzione e mostruosità moderna, che segnala tra l’altro la totale alienazione dell’uomo, non è in realtà che un ulteriore bene di consumo perfettamente inserito nella catena di montaggio della produzione. Insomma per dirla con linguaggio più semplice dei CCCP: “Produci, consuma, crepa”. Quando non siamo costretti a lavorare, siamo costretti a consumare. Ecco perché, a dispetto dell’enorme velocità di cui godiamo grazie alla tecnologia e che ci facilita ogni cosa, noi oggi viviamo la straordinaria ed angosciante esperienza di non avere mai tempo.

La società preindustriale non conosceva il tempo libero, ma aveva tempo. Perché i ritmi del pur duro lavoro di quegli uomini, legati com’erano a quelli della natura, erano più lenti, più ampi, meno affannosi, più armonici, più biologicamente giusti di quelli attuali. A differenza di oggi, lavoro e tempo libero non erano drasticamente e innaturalmente separati, ma il tempo dell’uomo, proprio perché seguiva i ritmi della natura, era un continuum in cui il lavoro sfumava nel riposo e viceversa. E in questo lento fluire c’era lo spazio, anche psicologico, per la riflessione, la pausa, l’ozio laborioso, l’attività fantastica e il divertimento semplice e istintivo e non coatti, drogati ed eterodiretti quali sono quelli cui si è costretti nel cosiddetto “tempo libero”.

I ritmi e le esigenze industriali hanno spazzato via tutto ciò. Ma proprio per questo c’è estremo bisogno che, come diceva Papa Wojtyla, e come dice oggi in un modo un po’ confusionario Beppe Grillo parlando di “tempo liberato”, resista almeno un giorno dedicato al sacro. Il che vuol dire, si sia noi religiosi o laici, un giorno liberato tanto dal lavoro che dal consumo e dedicato solamente a noi stessi.

Il lockdown potrebbe essere considerato una formidabile occasione per riflettere sul senso che ha la nostra vita all’interno di questo modello di sviluppo e sullo stesso modello. Ma da tanti segnali vedo che siamo pronti a ricominciare come prima, peggio di prima.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2020

 

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Oltre al Covid esiste, come se non bastasse, anche un “Long Covid”. Persone guarite ufficialmente da questa rognosissima influenza (ma sarà poi un’influenza, vai a sapere) accusano gli stessi sintomi e malesseri di quando erano malate: una grande stanchezza, debolezza, ansia, perdita di memoria, dolori muscolari. E’ comprensibile per chi ha vissuto un grande stress. Più curioso è che più o meno gli stessi sintomi li avvertono persone che non solo non hanno avuto il Covid ma non ne sono state nemmeno sfiorate. Qui entra in campo la paura, una componente consustanziale all’essere umano che può essere positiva, perché è grazie alla paura che noi abbiamo potuto sopravvivere per millenni a differenza di altre specie animali, ma anche, come in questo caso, negativa perché paralizzante. Basta uno stranuto, un colpo di tosse, un po’ di stanchezza (ma chi non è stanco in questa società ossessiva e nevrotica?) che subito si pensa al Covid e alla morte. Paura del tutto irrazionale perché in Italia i morti per Covid sono attualmente lo zero virgola della popolazione. Bisognerebbe che tutti ci ricordassimo del detto del vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte chi ha paura della morte”. Che è proprio la situazione irrazionale che stiamo vivendo, peraltro in una società che, per una sua folle ubris non contempla la morte biologica, quella inevitabile che prima o poi arriva per tutti, ma l’ha proibita, scomunicata, dichiarata pornografica.

Credo però che in molti di noi più che la paura della morte operi un autentico e molto razionale terrore della trafila delle “quarantene”. Sono abbastanza convinto che le “quarantene” faranno più danni del Covid. L’ansia abbassa le difese immunitarie che si aprono a malattie ben più pericolose del Covid. Ma questo lo potremo sapere solo a epidemia superata e sempre che sia superata. Infatti l’aver tentato di bloccarla in tutti i modi ci espone a continui colpi di ritorno (ad uno stiamo assistendo in questi giorni) come una molla troppo compressa torna su con la stessa forza con cui l’abbiamo schiacciata. E un’altalena del genere può continuare all’infinito.

Il governo italiano ha deciso una linea, poi seguita più o meno da tutti gli altri Paesi europei, e l’ha portata avanti in modo coerente, forse l’unico appunto che gli si può fare è di non aver rafforzato i presidi sanitari fin dal momento in cui l’epidemia è comparsa in Cina, perché oggi tutto si muove a velocità supersonica.

Io, che per fortuna di tutti non sono presidente del Consiglio, avrei seguito una linea completamente diversa. Storicamente le epidemie non nascono a caso, arrivano quando c’è un eccesso di popolazione. Nel mondo non siamo poi molti, sette miliardi e mezzo circa, ma questa cifra è moltiplicata proprio dalla velocità degli spostamenti per cui, forzando un po’ il paradosso, è come se stessimo tutti nello stesso posto. L’epidemia ha la funzione di sfoltire questo eccesso di popolazione, eliminando i soggetti più deboli. Nel mondo i morti per Covid si aggirano attualmente fra gli 800 e i 900 mila. Quanti sarebbero stati senza le misure di contenimento presi dai vari Paesi? Il doppio, il triplo? Nell’ultima guerra mondiale, in un’area molto più ristretta (Europa e Giappone) i morti sono stati 50 milioni. La guerra ha avuto la funzione di un’epidemia. Se si fosse lasciato che l’epidemia sfogasse liberamente il suo corso alla fine se ne sarebbe andata, per mancanza di alimento, come sempre se ne sono andate le epidemie e se ne sarebbe riparlato fra trent’anni. Invece rischiamo di portarcela appresso per trent’anni ancora e forse più.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2020