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Caro Alessandro, anche se qualcuno si sorprenderà, io ho per te stima umana e professionale. Sentimenti che, credo, siano reciproci visto che per quattro volte mi proponesti di venire al Giornale (tre volte me lo propose Feltri, due Belpietro, una Giordano nel suo breve anno di direzione). Tutte proposte lusinghiere anche economicamente che fui costretto a rifiutare per una mia coerenza che Paolo Liguori, forse non a torto, ha definito “cretina”, perché adesso a furia di dir no mi trovo nell’angolo anche economicamente. Ma io son fatto così, sta nel mio dna. Benché io sia un antiberlusconiano della prima ora (Europeo, 2.8.1986, Un americano a Milano: “O il calcio distruggerà Berlusconi o Berlusconi distruggerà il calcio”) il Giornale, come del resto quasi tutti i media di destra, è stato sempre molto attento alla mia opera di scrittore, se fosse stato per quelli della cosiddetta Sinistra, Repubblica, Espresso e la fu Unità, io non sarei esistito, culturalmente, in questo Paese. Mi dicono che molti tuoi lettori mi apprezzano e del resto fra i tuoi giornalisti ci sono dei ‘criptofiniani’ di stretta osservanza di cui non farò i nomi.

Bene. Ma c’è una cosa che non posso proprio digerire ed è la vostra capillare, costante, sistematica delegittimazione della Magistratura italiana di cui il tuo editoriale del 9 aprile (“Datevi uno scudo dal virus dei giudici”) è solo l’ultimo di infiniti altri dello stesso tenore. Se qualcuno proponesse di aprire le carceri in un “liberi tutti” io potrei essere anche d’accordo perché sono convinto, non è demagogia, che molti di quelli che stanno fuori sono peggio di molti di quelli che stanno dentro. Ma il vostro ‘garantismo’ è double face ed è questo che è intollerabile. Silvio Berlusconi che, penso, faccia parte della ‘famiglia Berlusconi’ proprietaria del tuo giornale, mi ha chiamato in giudizio per danni, cioè è ricorso alla Magistratura, benché io non abbia mai ficcato il naso nelle sue questioni di donne, perché ritengo che un premier, come ogni altro cittadino, abbia il diritto di fare in casa sua quello che più gli piace a meno che non si tratti di delitti, e penso anche che oggi una ragazza di 17 anni sia minorenne solo per l’anagrafe, per cui bisognerebbe abbassare l’età penale attiva e passiva a 14 anni (ragionando o sragionando come Adriano Sofri, mandante di un vilissimo assassinio sotto casa, e che oggi fa la morale a tutti, estrapolando dal testo secondo un malvezzo sempre più abituale, qualcuno potrebbe dire che voglio mettere in gattabuia anche i ragazzini). Renato Brunetta, che è della vostra scuderia (Forza Italia), mi ha chiamato in giudizio per danni, cioè è ricorso anch’egli alla Magistratura. Quando fa comodo la Magistratura torna ad esistere. Per tali ‘garantisti’ double face io ho questa formula: provate a rubargli l’argenteria e vedrete come va a finire, chiameranno la ‘pula’, i Pubblici ministeri, la Gestapo.

Vittorio Sgarbi, che è anche lui del giro, candidato per Forza Italia alle recenti Regionali, che scrive sul tuo giornale, per una intera estate mi additò in Tv al pubblico ludibrio, con relativa fotografia, “wanted”, come il principe dei ‘forcaioli’. E’ che questa gente pensa sempre che il mondo sia nato con loro. Io ho firmato l’appello per la scarcerazione di Valpreda in galera da quattro anni senza processo (il solo appello che ho firmato in vita mia). Fosse stato per la cosiddetta Destra, a cui tu oggi appartieni, Valpreda poteva restare in galera a vita e qualcuno dei vostri predecessori scrisse che il fatto che fosse affetto dal morbo di Buerger era segno inequivocabile che era il responsabile della strage di Piazza Fontana. Valpreda, infangato in tutti i modi dai vostri predecessori, sarà poi assolto. Ho difeso Giuliano Naria presunto terrorista rosso che si fece nove anni di detenzione preventiva, solo l’ultimo ai “domiciliari”, e che fu poi assolto con formula piena. A una settimana dal suo arresto sono stato il primo a difendere Enzo Tortora (“Io vado a sedermi accanto a Tortora”, Il Giorno, 25.6.1983)  e non Enzo Biagi, come sempre si dice, e tale evaporazione della mia persona in questo e in tantissimi altri casi, ora che la spavalderia della splendente giovinezza mi viene meno con le sue energie, comincia a darmi parecchio fastidio. Lo difesi non tanto, o almeno non solo, perché lo conoscevo di persona, un liberale elitario di cui sarebbe stato difficile immaginare che si affigliasse a una bocciofila, figuriamoci alla camorra, ma perché era accusato ‘de relato’ da pentiti che riferivano voci sentite da altri pentiti. E la sorella del presentatore, Anna, perdeva il lume degli occhi quando in seguito i corrotti e i corruttori di Tangentopoli si mascheravano dietro quello che era successo a Tortora. Perché nell’inchiesta Mani Pulite non si trattava di ‘pentiti’, ma le accuse erano ‘per tabulas’, si basavano cioè su carte, documenti bancari e confessioni degli stessi autori dei crimini.  Anche se poi si insinuò che i magistrati di Mani Pulite li arrestavano perché confessassero e si invocò l’intervento di Amnesty International per due o tre settimane di reclusione preventiva (una cosa terribile rispetto ai nove anni di Naria). Ma quel gran signore di Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura di Milano, corresse: “Noi li arrestiamo e loro confessano”.

Come si ricorderà per almeno due anni , dal 1992 al 1994, i giornali, tutti i giornali, si sdraiarono lascivamente ai piedi dei magistrati di Mani Pulite e in particolare a quelli di Antonio Di Pietro (“Dieci domande a Tonino”, Paolo Mieli, Corriere della Sera). Ma passata la buriana nel giro di poco tempo quasi tutti i giornali e i giornalisti, in particolare quelli della cosiddetta Destra ma non solo, fecero il salto della quaglia e da adoratori dei magistrati di Mani Pulite ne divennero gli accusatori. Per cui i veri colpevoli di Tangentopoli divennero i magistrati, i corrotti e i corruttori le vittime e spesso giudici dei loro giudici. Non c’è da meravigliarsi se con un simile esempio la corruzione abbia oggi infettato l’intero Paese scendendo giù per gli rami a buona parte della cittadinanza. Fra questi ‘saltatori’ spicca Vittorio Feltri, il più assatanato ‘forcaiolo’ finché rimase all’Indipendente (Enzo Carra sbattuto voluttuosamente in prima pagina in manette, messi sotto accusa i figli di Craxi, Bobo e Stefania –toccò a me difenderli per l’ovvio motivo che i figli non hanno né le colpe, né i meriti, dei padri- l’appellativo di “cinghialone” appioppato a Bettino, trasformando così una legittima inchiesta della Magistratura in una caccia sadica).

No, io non prendo partito per ‘lorsignori’, per i ladri in ‘guanti gialli’, perché hanno già molti difensori d’ufficio e ufficiosi. Io ho difeso, difendo e difenderò sempre gli stracci. Non c’è macchia sul mio onore di giornalista libero e libertario. Non so quanti, in questo Paese, possono dire altrettanto.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2020

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Quello che è venuto a mancare in Occidente (la cui cultura ha ormai infettato anche civiltà millenarie ad esso lontanissime e con una visione dell’essere e della sua ragione di esistere quasi diametralmente opposta alla nostra, come la cinese) è il coraggio.

Durante la Seconda guerra mondiale i combattenti delle opposte sponde lasciarono sul terreno 68 milioni di morti, 10 milioni e mezzo appartenenti alle forze dell’Asse (Germania, Giappone, Italia, quest’ultima ne ebbe solo 472 mila) gli altri agli Alleati (russi, col maggior numero di perdite, 25 milioni, americani proporzionalmente col minor numero, 413 mila, inglesi 365 mila più il variegato mondo dei Paesi appartenenti al Commonwealth). Il tutto per cinque anni di guerra. Attualmente (10/4) i morti nel mondo per il Corona sono 86 mila in cinque mesi circa. Dovendo però scomputare in questa macabra ma necessaria comparazione tutti o quasi i Paesi africani che alla Seconda guerra mondiale non presero parte e che attualmente pagano un tributo di 8 mila morti circa. In una comparazione molto approssimativa, perché per esempio la Spagna non partecipò all’ultima guerra mondiale ma oggi è uno dei Paesi più infettati, 68 milioni di morti in cinque anni contro 78 mila in cinque mesi. Quindi anche se nei prossimi quattro anni e mezzo il Corona dovesse procedere progressivamente resterebbe comunque lontanissimo dai 68 milioni di morti della Seconda guerra mondiale. Eppure questa epidemia “tremar il mondo fa”.

Il coraggio è una componente essenziale dell’essere umano, anche se non va confuso con la temerarietà e l’irresponsabilità, perché anche la paura è un’altra importante componente purché sia tenuta sotto controllo. Credo che a tutti noi sia capitato, almeno una volta nella vita, di trovarsi in una situazione di grave pericolo, le reazioni sono di due tipi: c’è chi, sotto adrenalina, reagisce e la scampa e chi ne rimane paralizzato e soccombe.

In tutte le civiltà lato sensu europee che hanno preceduto la nostra  (greca, ellenistica, latina, medioevale) il coraggio non era solo una dote indispensabile al comando, ma il suo valore era ampiamente introiettato anche da tutti gli altri. Sto leggendo Erodoto (Storie) e Tucidide (La guerra del Peloponneso) e negli scontri all’arma bianca quasi nessuno si tira indietro e quei pochi che lo fanno, che Erodoto e Tucidide condannano senza riserve, sono coperti da perpetuo disonore. Se nel Medioevo europeo i nobili avevano la loro tanta contestata supremazia è perché a loro spettava combattere, mentre i contadini restavano sui campi. Estremamente significativa in proposito è la spiegazione che due scudieri di Varennes-en-Argonne danno, verso la fine del Trecento, del fatto che i nobili non devono pagare la taglia, cioè la tassa reale: “Perché, dicono gli scudieri ,in virtù della nobiltà sono tenuti ad esporre i loro corpi e cavalcature alla guerra” (C.Aimond, Histoire de la ville de Varennes-en-Argonne). Ma per tornare un attimo alla società latina, dove per onore ci si suicidava come noi accendiamo una sigaretta, l’unico esempio, a mia memoria, di viltà conclamata è quello di Marco Tullio Cicerone che a 64 anni cerca di sfuggire in modo scomposto e miserevole agli uomini di Antonio che lo ha condannato a morte e una volta raggiunto “presenta ai sicari un volto disfatto” (Plutarco). E infatti i suoi concittadini gli conficcarono uno spillone nella lingua, a significare che era stato bravo solo con quella.

Dopo la Seconda guerra mondiale il coraggio perde il suo primato come valore. Gli americani ne dettero collettivamente un’ultima prova nella guerra del Vietnam dove persero 63 mila soldati. In quanto agli europei di guerre non ne hanno fatte più, tranne gli inglesi per le Falkland o Malvinas dove si comportarono da inglesi mandando in prima linea il Principe Andrea. Poi è nebbia. Anzi peggio. Noi occidentali conduciamo guerre senza epica, senza coraggio, senza gloria, utilizzando i droni, con i loro missili, teleguidati da 10 mila chilometri di distanza. Il coraggio è passato agli islamici. Non solo ai guerriglieri e ai kamikaze dell’Isis o di al Qaida (anche se l’azione di Atta e dei suoi che, armati solo di temperini, sequestrarono un aereo e lo proiettarono contro le Torri Gemelle ha, ammettiamolo, qualcosa di grandioso) ma nel musulmano comune che, come possiamo vedere in questi giorni, se ne fotte del Coronavirus per inciviltà certo, ma anche perché ha meno paura della morte.

Oggi noi occidentali tremiamo ad ogni stormir di foglia. Abbiamo costruito una società che sarebbe ingiusto definire femminea, perché le donne, attrezzate per il parto, hanno più coraggio degli uomini. Una società eunuca.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2020

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Più va avanti questa storia e più somiglia a un suicidio collettivo. Non giudico l’operato del nostro governo, peraltro seguito da molti altri Paesi, parlo qui, per così dire, della filosofia di vita e di quella sociale del mondo occidentale o occidentalizzato. Per il timore della morte abbiamo rinunciato a vivere.

Questa epidemia, proprio per il modo con cui l’abbiamo affrontata, cercando di contenerla con tutti i mezzi invece di lasciarla fluire liberamente, può avere, come una molla troppo compressa, un rimbalzo quasi della stessa forza oppure, se si vuole un’altra metafora, un fiume in piena davanti al quale venga eretta un’alta diga prima o poi ne raggiunge la sommità e quindi bisogna alzare ulteriormente la diga se non si vuole che una semplice piena divenga un’ alluvione. Per questo dubitiamo molto che gli attuali divieti possano essere allentati, è più facile che vengano rinforzati. Le Autorità hanno stabilito che l’indice R0 non può fermarsi a un sinistro “1 vale 1”, cioè una persona contagiata ne contagia a sua volta solo un’altra, ma il rapporto deve scendere a 0,5 per la riapertura di negozi, bar, ristoranti e addirittura a 0 per stadi, discoteche, cinema, teatro. Per cui è molto probabile che le attuali restrizioni, magari allentate ma subito ripristinate o addirittura indurite se la curva tende di nuovo al rialzo, durino un anno e anche più. Un anno di reclusione è poco o tanto per una vita? E’ tantissimo per un anziano che ha ancora pochi spiccioli da spendere, ma anche per un ragazzo perdere un anno della propria giovinezza non è poco. Né di fronte alla compatta volontà del gregge è possibile a qualcuno, novello Capaneo, ribellarsi. Non tanto perché bar e ristoranti sono chiusi, se ne può fare anche a meno, ma perché non può invitare nessuno a cena e semmai azzardasse suonare il campanello altrui si vedrebbe guardato con terrore: “Vade retro Satana, noli me tangere”.

In una società che rifiuta l’idea stessa della morte, dominata dal terrorismo diagnostico e scientifico, ossessionata dall’ubris del controllo, era logico che andasse a finire così. Ma noi non possiamo controllare un bel nulla, ce ne illudiamo solo, il Fato, per sua natura imprevedibile e incalcolabile, è sempre lì ad attenderci.

Nel suo libro, Le illusioni della medicina, Bensaid, apprezzato medico francese, racconta questa storia. M.L., un uomo di quarant’anni, è un grassone, un ghiottone, gioviale ed esuberante come sono spesso le persone di questo tipo. I medici gli avevano riscontrato una ipertensione modesta ma tenace, un tasso di colesterolo abbastanza elevato. Ma M.L. non se ne era preoccupato. Finché un giorno legge sull’autorevole Le Monde (il dio stramaledica i giornali autorevoli che mai come in questa fase si sono dimostrati più che inutili perniciosi) i rischi di infarto cui andava incontro. Si allarma e si reca da Bensaid perché vuole essere curato, benché il medico cerchi di convincerlo che “i fattori di rischio che gli erano stati segnalati non erano altro che fattori di rischio, egli non era predestinato ad essere vittima di una patologia vascolare, era semplicemente un po’ più esposto a questo rischio rispetto ai suoi simili, ma solo un po’”. Ma M.L. è ormai deciso a curarsi e il medico lo accontenta. Ma Bensaid nota che l’uomo non è più lo stesso, si è incupito, è diventato triste, amaro, aggressivo, depresso. Nel giro di pochi anni M.L. verrà ucciso da un melanoma. E Bensaid si chiede: “Io non potevo saperlo, ma gli avevo avvelenato, inutilmente, quelli che dovevano essere gli ultimi anni della sua vita. Lo avevo reso infelice…per prevenire patologie del tutto ipotetiche”.

Allo stesso modo ci stiamo comportando noi. Diciottomila deceduti per Coronavirus sono lo 0,025 sul totale di 60 milioni di italiani cioè, al momento, ciascuno di noi ha 0,025 probabilità di morire per questo morbo. Per prevenire una morte che dal punto di vista del singolo è del tutto ipotetica, e da quello della collettività ha proporzioni minime (anche se, certo, senza le limitazioni la percentuale sarebbe stata più alta, ma crediamo non di molto) abbiamo chiuso a chiave un’intera popolazione.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2020