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Non ho niente da fare. Scartabello il mio archivio cartaceo, che ovviamente è datato al tempo in cui i giornali esistevano ancora, e trovo la cartellina “Ambiente”. Sono articoli fra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90. L’allarme ambientale, con tutte le sue implicazioni che non sono solo e semplicemente ecologiche ma anche sociali ed esistenziali, era stato lanciato una ventina d’anni prima dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei che aveva incaricato un gruppo di scienziati del mitico MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) di elaborare uno studio che era stato poi raccolto in un libro col titolo: I limiti dello Sviluppo. C’erano stati dei precursori come Rachel Carson che aveva pubblicato Silent spring (1962) ma avevano avuto una scarsissima eco perché negli anni Sessanta la sensibilità ambientale era modesta. A cavallo fra gli Ottanta e i Novanta la questione era diventata invece calda. C’era però chi aveva già capito tutto. Leggo: “La prima certezza è che il mercato, l’industria, e tutto ciò che compone una economia moderna, sono in sostanza invenzioni del Demonio…prevarranno frugalità e letizia e tutti saranno in armonia con se stessi, con gli altri e con la natura. Ciò che è più stupefacente nell’Italia di oggi è che una simile ideologia, reazionaria nel senso stretto e tecnico del termine, espressione cioè di una rivolta conservatrice contro la modernità, continui imperterrita a sopravvivere impregnando di sé il sentire comune di ampie fasce del Paese, ivi compresa buona parte degli intellettuali”. Chi può essere se non Angelo Panebianco in un commento sul Corriere del 1989 (Ambiente e populismo, 30.5)? Trombone era già a quarant’anni e trombone è restato. Oggi tesi del genere possono essere solo di un Panebianco o di un Trump, con la differenza che il secondo è perlomeno folcloristico mentre il primo è plumbeo.

Dopo la pubblicazione de I limiti dello Sviluppo conferenze internazionali sull’ambiente, con partecipazione spesso di capi di Stato, si sono fatte un po’ ovunque ma senza cavarne un ragno dal buco perché nessuno vuole rinunciare al mito della crescita, inoltre sono entrati in scena Paesi enormi come la Cina che stanno crescendo esponenzialmente. Ma quello che negli anni Ottanta poteva sembrare un dibattito fra intellettuali, oggi è diventata una questione di vita o di morte. Secondo una ricerca della rivista scientifica Geophysical Research Letters dal 1979 il volume del ghiaccio del Polo Nord si è ridotto del 70 per cento. Ma è solo uno dei tanti segnali sinistri dell’aumento sempre più galoppante dell’anidride carbonica (Co2) nell’atmosfera, dovuto, in massima parte, alla produzione industriale.

Purtroppo gli scienziati del MIT in una cosa si sbagliavano: pensavano che alcune fonti energetiche, come il petrolio, o altre necessarie all’attuale modello di sviluppo (stagno, tungsteno, zinco) si sarebbero esaurite entro il Duemila o poco oltre. Se ciò fosse avvenuto saremmo stati costretti dalla necessità ad autoridurci. Ma così non è stato.

Non mi sono mai occupato nei miei libri e nei miei scritti d’occasione di questioni strettamente ecologiche, perché ritengo che il problema ambientale, pur importante, sia solo un aspetto di secondo grado (in fondo l’uomo ha dimostrato di essere un animale molto adattabile) rispetto alle devastazioni che Tecnologia insieme alla sua sorella gemella Economia fanno sul nostro esistere, allontanandoci dal senso della comunità, dagli altri e alla fine anche da noi stessi. Ma questo alla fine era anche il pensiero di quelli del MIT, che non erano degli umanisti ammalati d’utopia ma degli scienziati con le carte in regola, che concludono così I limiti dello Sviluppo: “Un’ultima osservazione: è necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che pensare al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2020

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Ci stanno fottendo l’estate. Ci stanno fottendo il mare. Ci stanno fottendo le vacanze. Per me estate e mare hanno sempre coniugato il nome più proibito: felicità. “Col sole e col mare anche un ragazzo povero può crescere felice” scrive Camus e tutte le canzoni che parlano di estate si ispirano al mare (Una rotonda sul mare, Fred Bongusto; Sapore di sale, Gino Paoli; Luglio, Riccardo del Turco; Un’estate al mare, Giuni Russo; Voglio andare al mare, Vasco Rossi) mai alla montagna tantomeno al lago (roba da crucchi). E’ vero che i vecchi, categoria a cui arbitrariamente appartengo, d’estate preferiscono al mare la montagna o, ancor meglio, la collina, perché sono più riposanti. Ma è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. Ma io non sono ancora così conciato da non potermi cacciare a bagno.

Ma quest’anno raggiungere il mare per i lombardi sarà praticamente impossibile. Troppe combinazioni debbono incastrarsi. Poniamo che uno scelga il litorale più vicino e abbordabile, il ligure, luogo prescelto per decenni, nel dopoguerra, dalla piccola e media borghesia milanese e torinese (nel Novecento il Mar Ligure, in particolare a Levante, era meta del turismo d’élite, di aristocratici inglesi e soprattutto russi che erano molto diversi dai russi griffati e volgari che oggi occupano la Versilia insieme ai ricchi scemi italiani che non si sono ancora accorti che al Forte non solo non si vede il mare ma nemmeno lo si sente, tanto vi hanno costruito).

La prima condizione è che il commendator Fontana, Regione Lombardia, apra i confini territoriali (ma quanto è buona Lei signora Belva). Ma non basta. Bisogna che la Regione Liguria faccia altrettanto e non discrimini i lombardi, untori provenienti da pericolosissimi focolai. Forse ai loro confini i poliziotti liguri, sospettandoci in possesso di documenti falsi, ci faranno un test linguistico (però io il dialetto ligure, soprattutto di Ponente, lo conosco: Savona si pronuncia Saña, speggietti vuol dire occhiali, belin è il cazzo, “ti m’hae za menòu o belìn”, che le donne, per pudicizia, convertono in belan). Ma non basta ancora. Lombardia e Liguria non confinano, vi si interpongono Piemonte ed Emilia. Bisognerà che anche queste due Regioni aprano i propri confini. Ma un milanese potrebbe trovarsi in una bizzarra situazione: mentre vola felice verso la Riviera e gli agognati bagni, Liguria e Lombardia, per un’impennata del Corona, richiudono contemporaneamente i propri territori e lui si trova intrappolato a Novi Ligure, che a dispetto del nome è Piemonte, a visitare il Museo di Coppi.

E ben gli starebbe. Perché il milanese è pirla da sempre. A chi mai poteva saltare in mente di fondare una città su una pianura desolata, caldissima e afosa d’estate, fredda e nebbiosa d’inverno e soprattutto umidissima? E senza un fiume. Milano è l’unica grande città italiana ed europea a non avere un fiume, Torino ha il Po, Firenze l’Arno, Roma il Tevere, Londra il Tamigi, Parigi la Senna, il Danubio bagna Vienna e Belgrado. Ho chiesto a storici e geografi perché Milano sia venuta su in una posizione così poco allettante. L’unica risposta che ne ho ricavato parte dal nome che aveva nell’antichità, Mediolanum, la via di mezzo, la più diretta per raggiungere la Gallia. Ma a trenta chilometri, sulla stessa direttrice, c’è Pavia che sta sul Ticino, uno dei fiumi più belli d’Italia, se non forse il più bello. E infatti i Longobardi, che erano meno pirla dei milanesi, vi trasferirono la capitale.

E quindi noi milanesi, almeno quelli che la identificano col mare, dopo dieci, lunghissimi mesi di spasmodica attesa (“Come un giorno di sole fa dire a dicembre l’estate è già qui”, Patti Pravo) quest’anno non avremo l’estate. Rimarremo a Milano, a morire non di Covid-19 ma dal caldo e di solitudine (“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua…neanche un prete per chiacchierar”, Azzurro, Adriano Celentano).

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2020

 

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Non c’è niente da fare, in Italia un giornalista può anche essere ottimo e averlo provato più volte, ma se conserva il gusto eretico all’indipendenza viene “decapitato” come mi ha detto al telefono Carlo Verdelli, l’ultima vittima di questa sinergia perversa, licenziato in tronco dalla direzione di Repubblica il 23 aprile scorso.

Non è la prima volta che Verdelli cade in simili disavventure. Nel 2003, vicedirettore del Corriere della Sera,  era in predicato per diventarne direttore dopo che Ferruccio de Bortoli aveva lasciato. Era favoritissimo. Invece in via Solferino fu paracadutato Stefano Folli, PRI, una figura scialba, senza alcun passato giornalistico rilevante. E infatti Folli dirigerà solo per un anno. Si dovette ricorrere all’eterno ‘cavallo di ritorno’: Paolo Mieli.

Nel 2015 Verdelli fu nominato direttore editoriale della Rai. Ma resistette poco. Se infatti è difficile rimanere indipendente nei grandi giornali, in Rai è impossibile perché oltre al potere dei partiti c’è quello, come mi disse Lele Luttazzi, di infinite lobby e sottolobby.

Nel gennaio del 2006 Verdelli viene chiamato a dirigere la Gazzetta dello Sport, un giornale insieme facile e difficile. Facile perché l’unica cosa che unisce gli italiani è il calcio, difficile perché che cosa si può cambiare in un giornale del genere? Verdelli si inventò una sorta di rubrica, Altri Mondi, affidata a quel genio misconosciuto di Giorgio Dell’Arti, quattro pagine dedicate a notizie nazionali e internazionali che con lo sport non avevano nulla a che vedere. La Gazzetta dello Sport arrivò a vendere 2 milioni di copie, record assoluto per un quotidiano. Poiché stiam parlando di calcio mi permetto un intermezzo che sembra non c’entrare e invece c’entra. L’altra sera volevo vedere Chocolat con la Binoche, ma ho inserito una cassetta sbagliata (appartengo alla generazione delle cassette) ed è saltato fuori un Torino-Napoli dei primi anni Novanta. Mi ha colpito la sobrietà e l’asciuttezza  dei commentatori, niente urla smodate ai gol, niente enfasi, niente volgarissimi “sotto la doccia! Sotto la doccia! Sotto la doccia!”. Sono passati solo trent’anni da allora e poiché il calcio è uno specchio della società quella smodatezza, quell’enfasi, quelle volgarità sono oggi del mondo politico.

Ho incrociato Verdelli grazie allo scrittore e psichiatra Mario Tobino. Verdelli, che dirigeva Sette, e che io non conoscevo, aveva letto una mia intervista a Tobino, gli era piaciuta e mi aveva proposto di tenere su Sette una rubrica, La sculacciata. Si trattava di togliere i panni di dosso a qualche personaggio famoso in quindici righe, una sorta di micro stroncatura.  Faccenda tutt’altro che semplice, dovevo fare sei o sette prove per ridurre in quello spazio ristretto ciò che intendevo dire senza togliere nulla alla sua mordacità. Non è una cosa che possono fare tutti. Montanelli che curava quotidianamente un ‘billet’ sul Giornale, ma naturalmente non lo poteva fare sempre lui, mi raccontò che alcuni suoi giornalisti, anche bravissimi come Enzo Bettiza, non riuscivano proprio a star dentro quelle poche righe.

Carlo Verdelli è un uomo dai modi semplici, modesti, uno che “non se la dà”, cosa che nella mia vita ho quasi sempre riscontrato nelle persone di valore. Io mi sento vicino a Verdelli non per il carattere ma per certe somiglianze nelle modalità delle nostre reciproche disavventure professionali. In un mattino di maggio, canicolare e patibolare, del 1997, fui convocato insieme ad altri colleghi all’Ufficio del Lavoro di via Lepetit a Milano. Un funzionario del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera ci lesse con voce atona un breve testo che certificava il nostro licenziamento e che dovemmo firmare. Così furono liquidati i miei vent’anni di lavoro alla Rizzoli, in cui avevo dato le mie migliori energie e lasciato anche qualche pezzo di salute. Covai l’umiliazione per un paio di mesi. In estate telefonai a Feltri, che dirigeva Il Giornale, e gli dissi: “Vuoi sapere cos’è veramente il gruppo Rizzoli-Corriere?”. Vittorio non se lo fece ripetere due volte. Pubblicò il pezzo, dandogli ampio rilievo in prima e due pagine all’interno. Ogni riga di quell’articolo, se non veritiera, era da querela. Ma nessuno dei dirigenti del commendevole Gruppo Rizzoli-Corriere osò alzare un’orecchia. Sarebbe bastato un po’ più di stile, un po’ più di garbo, un po’ più di gentilezza, un po’ più di umana comprensione e si sarebbero evitati quella figuraccia.

Anche Carlo Verdelli la mattina del 23 aprile è stato convocato da quelli di Repubblica e senza preamboli è stato informato che da quel momento non ne era più il Direttore. La stessa umiliazione, lo stesso avvilimento, lo stesso senso di una sconfitta immeritata, la stessa stanchezza ho sentito l’altro giorno, al telefono, nella voce affievolita di Carlo Verdelli. Questa è la sorte, direbbe Montanelli, dei “conformisti che non si conformano”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2020