Un magistrato deve parlare solo “per atti e documenti” così si diceva, e si faceva, una volta. Oggi i magistrati sono perennemente presenti nel dibattito pubblico, peggio degli epidemiologi, dei virologi, degli immunologi in epoca di Covid, danno interviste, vanno in televisione. Sono divisi in correnti, di sinistra, di destra, di centro, facendo così trapelare la propria ideologia. E questo è un danno per la loro funzione così delicata perché per avere la fiducia dei cittadini un magistrato non solo deve essere imparziale ma anche apparirlo. Sempre più spesso si presentano in politica approfittando della notorietà che hanno acquisito come magistrati (De Magistris, Ingroia) gettando così un’ombra sulle loro attività pregresse anche qualora le abbiano svolte in modo imparziale.
Si dirà che qui sono in gioco diritti individuali garantiti dalla Costituzione: la libertà di espressione e quella di partecipare alla vita politica. Ma ci sono delle professioni istituzionali che conoscono necessariamente dei limiti a queste libertà. Il Presidente della Repubblica non può esprimersi a favore di questo o quel partito. Gli stessi limiti valgono per un magistrato, a garanzia della sua credibilità che è il bene più prezioso, e insieme il peso gravoso, che si porta addosso. Da un magistrato, sia esso Giudice o Pubblico ministero, dipendono la libertà, l’onorabilità e anche l’economia di un cittadino e quindi non può comportarsi come chi queste responsabilità non ha. Altrimenti saremmo capaci tutti. Ci fu un tempo in cui il magistrato doveva anche limitare le proprie frequentazioni private. Era destinato alla solitudine.
Alla generale degenerazione, etica e culturale, dell’intera società italiana non poteva sfuggire nemmeno l’Ordinamento giudiziario. A gettare ulteriore discredito sulla nostra Magistratura ha contribuito potentemente, facendo un clamoroso e penoso harakiri, il CSM (caso Palamara e dintorni). I nostri Padri costituenti, poiché uscivamo dal Fascismo, vollero una Magistratura indipendente e autonoma dagli altri poteri dello Stato, esecutivo e legislativo, secondo la classica tripartizione che risale a Montesquieu. Anche se lo stesso Fascismo ebbe parecchie difficoltà a piegare ai propri voleri i magistrati ordinari tanto forte era in loro la convinzione che quello del magistrato non fosse un mestiere come un altro ma una vocazione, come dovrebbe essere quella dei medici, e per certi reati dovette creare dei Tribunali Speciali. Però perché la Magistratura non rimanesse del tutto avulsa dalla realtà sociale, i Costituenti stabilirono che il CSM, da cui dipendono le carriere dei magistrati, gli spostamenti di sede, le azioni disciplinari, fosse formato per due terzi da magistrati di professione, i togati, e per il rimanente terzo votati dal Parlamento e scelti tra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”(art.104 Cost.), i cosiddetti laici. E cosa hanno fatto i partiti? Hanno inserito nel CSM uomini politici di loro gradimento, mascherati da “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. E così, fra finti laici e le varie correnti ideologizzate della Magistratura, la frittata è completa.
Il magistrato esemplare, a mio avviso, è Henry John Woodcock che non a caso è di origine inglese come quel docente, Philip Laroma Jezzi, che rifiutandosi di parteciparvi smascherò le truffe dei Concorsi universitari. Mai un’intervista, che io ricordi, mai una comparsata televisiva. Woodcock è uno che non parla delle proprie inchieste nemmeno con la sua fidanzata. Woodcock, come Pm, ha condotto importanti inchieste che coinvolgevano tutte le aree politiche. Ovviamente un magistrato del genere è detestato dall’intero ‘arco costituzionale’ e non, che non ama che si vada ad aprirgli le chiappe per scoprire, quasi sempre, che ha il culo sporco di corruzione. Innumerevoli sono le volte in cui Woodcock è stato deferito agli organi disciplinari per delle irregolarità che non ha mai commesso come è stato costretto ad ammettere, a denti stretti, lo stesso CSM. Da una fotografia che ritraeva Woodcock, che è un bell’uomo, aitante, a cavallo di una motocicletta, il Giornale dedusse che era inequivocabilmente “di sinistra” (la canzoncina di Gaber) e apparteneva quindi alla “magistratura politicizzata”. Nella loro inesausta campagna di delegittimazione della Magistratura i media berlusconiani si sono spinti anche oltre, fino al grottesco. Il giudice Raimondo Mesiano, che aveva condannato la Fininvest a risarcire la Cir di De Benedetti, fu filmato da Mediaset mentre seduto su una panchina fumava una sigaretta e sotto il risvolto dei pantaloni si vedevano dei calzini color turchese. Gli sgherri di Berlusconi ne dedussero che era un tipo strano non adatto alla professione di magistrato.
I magistrati indipendenti stanno sui coglioni a tutti ma in particolare a Berlusconi dati i suoi precedenti e presenti (nove “non doversi procedere” per prescrizione, in tre delle quali la Cassazione accertò che i reati addebitatigli li aveva effettivamente commessi, condanna definitiva per una gigantesca frode fiscale da 360 milioni di dollari, quasi tutti prescritti, una mezza dozzina di procedimenti penali in corso). Così il Giornale, approfittando dell’indubbia degenerazione di parte della Magistratura, ha tutto l’interesse e buon gioco a pescare nel torbido e a fare di ogni erba un fascio. Sul Giornale del 26 maggio Alessandro Sallusti che ha ormai perso la sinderesi scrive che “Mani Pulite è stata una truffa giudiziaria”. Sallusti dice ciò che pensa ma forse non pensa a ciò che dice. Una “truffa giudiziaria”? Sono passati quasi trent’anni e in quel periodo storico c’era una Magistratura diversa che cercò di richiamare anche le classi dirigenti al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo obbligati a osservare. Quelle di Mani Pulite furono inchieste basate su carte, su documenti bancari, su confessioni degli indagati, su trasferimenti di ingenti somme di denaro che gli stessi indagati non riuscivano a giustificare se non con un fumoso e inconcludente politichese (il “che ci azzecca?” di Antonio Di Pietro).
I ‘berluscones’ sono ineffabili e quasi affascinanti nella loro faccia di tolla. Maria Elisabetta Alberti Casellati Mazzanti Vien dal Mare, attuale presidente del Senato, in quota Forza Italia, in un’intervista al Corriere del 30 maggio, informa di una serie di sue proposte per riformare la Giustizia fra cui il “divieto di porte girevoli dalla magistratura alla politica e viceversa”. Giustissimo. Peccato che la Mazzanti Vien dal Mare sia il prototipo delle “porte girevoli”. Eletta senatrice per il Polo delle Libertà nel 1994, e quindi personaggio politico, si è trasferita nel 2014 al CSM, ed è perciò diventata una giudice dei magistrati, per poi tornare alla politica.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2020
In questo periodo in cui, superata, si spera, l’emergenza Covid, si attendono con ansia una ripresa e una ripartenza che non si sa se arriveranno, viene spontaneo ai giornali fare riferimento ai lunghi anni del dopoguerra, al Piano Marshall, insomma alla ricostruzione. In genere l’obbiettivo è focalizzato sui grandi imprenditori di allora. Lo ha fatto Aldo Cazzullo sul Corriere (22.5) ricordando i nomi mitici di Vittorio Valletta, di Gaetano Marzotto, di Angelo Costa (“c’è un dio che invecchia in cima a un grattacielo” scriverà molti anni dopo Gianpaolo Pansa quando la Costa Armatori si stava trasformando, in modo lungimirante, in Costa Crociere).
Io voglio invece ricordare qual era in quegli anni lo stato d’animo di noi cittadini che, a meno che non fossimo di Torino, di Genova, di Vicenza, dei Valletta, dei Costa, dei Marzotto avevamo sentito parlare solo vagamente. A parte una sottilissima striscia di borghesia che era presente già durante il Fascismo o che si era arricchita proprio grazie alla guerra, ma che aveva il buon gusto e il buon senso di non ostentare, eravamo tutti poveri, molto più poveri di quanto lo si sia oggi anche nelle condizioni più al limite. Ma eravamo sereni, solidali, euforici, spavaldi. Il solo fatto di essere usciti indenni dai devastanti bombardamenti angloamericani che avevano avuto come epicentro Milano, e io qui di Milano soprattutto parlo, e dai rastrellamenti nazisti, bastava a renderci felici. E’ questo uno degli effetti positivi di tutti gli eventi fondanti della vita, come può essere appunto la guerra o, in misura ovviamente molto minore, l’epidemia che stiamo vivendo. Eravamo solidali. La solidarietà di cui Mattarella si riempie sempre la bocca ma che in questi due mesi ho visto pochissimo non è qualcosa che si cala dall’alto, per diktat, dipende dal contesto. Quando si è poveri essere solidali diventa naturale, un sentimento che è sincero ma anche in qualche misura interessato. Scrive Esiodo ne Le opere e i giorni: “Aiuta il vicino, perché poi nel momento del bisogno il vicino aiuterà te” (ed Esiodo, che scrive a cavallo fra l’VIII e VII secolo a.C., si dimostra anche un po’ disgustato da questo elemento d’interesse, perché la società che lo aveva immediatamente preceduto era quella del clan dove questo problema non esisteva: l’individuo progredisce o perisce col clan).
Oltre che a quello della povertà c’era un elemento strutturale a garantire la solidarietà. Milano, pur essendo strabombardata, era una grande capitale ma rimaneva una città di quartieri. E nel quartiere ci si conosceva tutti. Se una famiglia era un po’ più in difficoltà delle altre lo si sapeva e la si aiutava come si poteva. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, mangiato un rapido panino, e tornavamo alle otto di sera. Non che i nostri genitori fossero incoscienti, forse anche un poco lo erano, nel clima dell’epoca, ma perché se uno di noi si fosse messo in una situazione difficile sarebbe intervenuto subito un adulto. Se si fosse presentato un pedofilo sarebbe stato riconosciuto a un chilometro di distanza. E poi c’era il “ghisa”, il mitico ghisa, il vigile urbano, un giovanotto milanese ben piantato, che conosceva tutti e che disarmato, come il bobby londinese, godeva di una autorità assoluta (“chiedilo al ghisa”, “dillo al ghisa”, “c’è lì il ghisa”). Come c’era il commissario di quartiere che sapeva tutto di tutti e quindi anche chi era da tener d’occhio e chi no. Del resto anche la “mala” di allora, quella cantata dalla Vanoni, almeno fino a Vallanzasca era fatta da professionisti che si guardavano bene dallo spargere sangue. Era una malavita con un’etica perché era inserita in una società che aveva un’etica.
Eravamo spavaldi. Ho visto cose che voi umani…tram, il vero simbolo di Milano, zeppi fino all’inverosimile con gente sui predellini e qualcuno attaccato anche al trolley. Oggi interverrebbe la psicopolizia. Chi era passato attraverso la guerra non aveva certo paura di farsi la “bua” cadendo da un tram o da un autobus. Tutti fumavano, nei bar, nei cine, nei teatri e l’Humphrey Bogart di Casablanca, con la sigaretta un po’ di sbieco perennemente fra le labbra, era un mito. Il terrorismo diagnostico era di là da venire.
Prendersi a botte fra noi ragazzini era di rigore, sia pur rispettando certe regole: se il ‘nemico’ cadeva a terra non si poteva toccarlo, niente colpi sotto la cintura e se si capiva che era successo qualcosa di più grave del solito ci si fermava tutti (in realtà nei terrain vagues dove giocavamo l’unico vero rischio era di mettere un piede su una bomba inesplosa). Non c’era ‘bullismo’, era un punto d’onore difendere il ragazzo più fragile fisicamente o psicologicamente e se qualcuno si fosse azzardato a prenderlo in giro avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte. Insomma imparavamo la vita dalla strada.
Questa struttura che ho chiamato “di quartiere”, col suo tono sostanzialmente bonario, ha resistito a lungo a Milano. Nel quartiere non c’era un bar che non avesse un biliardo e, dietro, una saletta dove si giocava a poker, a ramino pokerato, a tresette ‘ciapa no’ senza che a nessun ‘pulotto’ venisse in mente di ficcare il naso. E a biliardo o a poker giocavano, insieme, giovani e anziani. Era un modo naturale di mantenere in contatto le generazioni. Adesso il retrobottega ‘peccaminoso’ è scomparso e, a parte qualche circolo per professionisti o quasi, nessun bar ha più un biliardo. Ho chiesto al gestore di un bar in cui mi rifugio, che non è ‘trendy’, non è zeppo di escort accalappiacani, non ha pretese, un bar normale insomma dove si possono fare quattro chiacchiere alla buona, perché nemmeno lui abbia un biliardo. “I biliardi occupano troppo spazio e rendono poco rispetto alle slot appiccicate alle pareti”. Business is business. Ma una cosa è stare con gli altri diversa è farsi una sega solipsistica con una macchina, abitudine che è diventata devastante con l’avvento degli smartphone.
Non ancora immersi nella grascia del benessere eravamo belli. Asciutti. Io ricordo sempre i funerali di Fausto Coppi che qualche volta ridanno in tv. Chi c’è a quei funerali? La gente del popolo, vestita in modo modesto ma dignitoso, composta, nessun sgangherato applauso all’uscita della bara, la folla onora in silenzio il suo campione.
Nel 1960 – era l’inizio del boom economico - entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il Cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2020
La Sardegna non ci vuole a noi lombardi e soprattutto a noi milanesi, gli untori. Bell’esempio di quella solidarietà di cui si riempie sempre la bocca il presidente Mattarella. Il sindaco di Milano Beppe Sala, parlando da milanese, più che da primo cittadino, di fronte a questa discriminazione ha replicato: “Quando poi deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò”. Condivido in pieno. Ma poi chi se la caga la Sardegna? Prendiamo una mappa di quest’isola. In quella che una volta era la splendida Gallura, nord-est dell’isola, a Porto Cervo e a Porto Rotondo, prima l’Aga Khan e poi Berlusconi hanno costruito a manetta violando ogni legge paesaggistica con la complicità ovviamente degli amministratori locali, sardi. Porto Cervo è una trappola, molto costosa, per borghesi scemi. Vi capitai invitato da un’amica. Era un compound o piuttosto un condominio con le case un po’ distanziate, situato nella più infelice delle posizioni, incassato, per cui a destra non vedevi la montagna e a sinistra nemmeno il mare perché la vista era ostruita da altri edifici. La spiaggia era fatta di materiali di risulta delle costruzioni tirate su in fretta e furia per cui ci dovevi andare con dei sandali di gomma trasparenti. Il mare faceva schifo. La grande consolazione, anzi l’unico vero obbiettivo per abitare in quel posto sconfortante, era che nei paraggi Silvio Berlusconi aveva una delle sue ville e ipoteticamente lo si sarebbe potuto vedere e forse, chissà, anche toccare. Peccato che il Berlusca non si facesse vedere mai e sulla spiaggia non ci vada, nemmeno con la scorta, perché non sa nuotare.
A Porto Rotondo i malcapitati ma colpevoli turisti erano conciati anche peggio. Ci andai all’inseguimento di una bella donna soprannominata “fascino discreto della borghesia”, il che dice tutto. Il grande obbiettivo era la “spiaggia di Ira” che sarà stata anche bella quando ci andava la Fürstenberg ma all’epoca, siamo all’incirca nei primi anni Novanta, era un deserto di sabbia che avrebbe spaventato anche Lawrence d’Arabia con alle spalle una rada sterpaglia. Le belle borghesi in tanga si abbronzavano al sole assassino di Sardegna e non di rado si scottavano a tal punto che dovevano essere portate al neurodeliri. Che a Porto Rotondo ci si annoiasse in modo mortale lo si vedeva, tra le altre cose, da un dettaglio: alle undici di mattina si creava una lunghissima coda, erano i turisti che, ansiosi, davanti all’edicola aspettavano i giornali del Continente. C’era un porto, è vero, ma non ho mai visto uno yacht puntare verso il largo. La grande attrazione qui erano le feste di Marta Marzotto dove l’ospite, suprema trasgressione, si aggirava per le sale tenendo in mano un fallo finto ma istoriato. C’era un esorbitante profumo di fiori che ricordava molto il camposanto, perché Porto Rotondo in realtà non esiste, il giornalaio, il tabaccaio, i proprietari delle lussuose boutique finita la stagione se ne tornano a Olbia. Tutto, a Porto Rotondo, era e forse è ancora (perché non ci ho mai più rimesso piede) provvisorio e c’era un inquietante ‘sensus finis’.
E veniamo al sud dell’isola. A sud-ovest c’è Villasimius con spiagge indubbiamente splendide, ma altrettanto care. Qui il problema sono proprio i turisti, radical chic, insopportabili con quella loro puzzetta sotto il naso. Molto meglio l’area del Sulcis Iglesiente dove, essendo storicamente terra di miniere di carbone, nessuno ha osato costruire e sconciare il paesaggio. Ma anche qui qualche problema c’è: il beghinismo sardo. Io c’ero andato pilotato da un mio giovane amico, Alberto Cossu, venendo da Cagliari dove ero stato per altre ragioni, ero quindi vestito da cittadino. Mi spogliai al riparo di una specie di asciugamano improvvisato da Alberto e mi cacciai a mare in mutande facendo un bagno bellissimo con sullo sfondo l’Isola, enclave ligure, di Carloforte. Quando uscii venimmo circondati da delle vecchie zie che tutte vestite di nero se ne stavano da quelle parti: “Ma vi rendete conto di quello che avete fatto?” ci dissero scandalizzate. Poiché ci incalzavano ulteriormente Cossu che è un bel ragazzo, aitante, le disperse con un bastone e quelle se ne andarono schiamazzando come galline impazzite.
La Sardegna è quasi completamente piatta a parte il gruppo del Gennargentu che in genere, esclusa Punta La Marmora 1.834, supera di poco i mille metri. Non c’è nulla da vedere perché i Nuraghi una volta che ne hai visto uno gli hai visti tutti.
A nord della Sardegna, separate da uno stretto braccio di mare, le Bocche di Bonifacio, c’è la Corsica. La Corsica ha una dorsale di monti alti quasi tremila metri (il Cinto è 2.700). Il che vuol dire fiumi, vuol dire foreste, vuol dire paesaggi quasi dolomitici. E’ un piccolo continente, c’è il maquis, c’è il deserto (des Agriates dove un tempo stazionava la Legione Straniera e che produce vini squisiti come quello che sto bevendo in questo momento alla faccia dei sardi) ci sono dei laghi. Siccome le montagne sono a ridosso della costa basta inerpicarsi un po’, tre o quattro chilometri al massimo, e tu vedi sotto, in un paesaggio stupendo, il mare con tutti i suoi golfi. Ha un suo microclima, la temperatura di giorno non supera quasi mai i 30 gradi, di sera fa 17 o 18. E’ molto ventosa, piacevolmente ventosa, e le rarissime volte che il Mistral cede e si crea quell’afa che noi milanesi conosciamo benissimo, ma anche in Sardegna in certe aree non si scherza, basta prendere la macchina e fare una decina di chilometri e si è a 1.700 metri, in salvo. Consiglio la Corsica del Nord da Ajaccio in su (la città natia di quel teppista di Napoleone non ha nulla a che vedere con la Corsica, è di stile francese e i corsi odiano i francesi, non vedono nemmeno il Tour) perché i prezzi sono modesti, i turisti normali. Con i corsi, che io chiamo degli “afghani minori”, bisogna saperci fare, se non gli vai a sangue è meglio che giri al largo, se invece li capisci ed entri nel loro mondo mentale sono molto ospitali e tutto si basa sulla parola. Quante volte alla fine di una lunga vacanza, in genere ci passo un mese, mi è capitato di accorgermi di non avere i soldi. “Pagherai quando sarai rientrato in Italia”. Sono molto orgogliosi di essere corsi e sulle loro magliette, che il prefetto di Ajaccio tenta sempre, inutilmente, di togliere dalla circolazione, c’è scritto: “Corsica, un’isola sempre conquistata, mai domata”. Le ragazze sono belle, la Casta non è un’eccezione, fan le studentesse a Corte e d’estate, per guadagnare qualche soldo, scendono al mare per fare le cameriere con una grazia che è un misto fra la “finesse” francese e l’anima selvaggia che alberga in ogni corso. Ma i motivi per preferire la Corsica del Nord, in particolare il Dito nel lato che dà verso la Spagna, è che il Sud dell’isola risente già della Sardegna, dei suoi prezzi e delle sue facce di culo.
L’estate prossima quindi, con il Covid alle spalle e la riapertura delle frontiere internazionali, ce la fileremo in Corsica. Ma chi se la caga la Sardegna?
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2020