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Per la nostra generazione, che segue da vicino la sua, Giampaolo Pansa, insieme ad Andrea Barbato (“i due cavalli di razza”) è stato un maestro. Di professionalità innanzitutto. Un esempio per la fatica e la diligenza che metteva nel suo lavoro e l’impegno, così difficile quando non si è dei talenti naturali come Montanelli, a dare ai suoi articoli una adeguata qualità di scrittura. Fra i tanti mi ricordo un ritratto, splendido, dell’armatore Costa che iniziava così: “C’è un Dio che invecchia in cima a un grattacielo”.

Se un qualche fatto era avvenuto, poniamo, alle sette del mattino, il giorno dopo per raccontarlo lui si recava alla stessa ora sul posto per vedere come batteva il sole su una certa casa e la luce in cui si era svolto. Era un maniaco del dettaglio come deve essere ogni vero professionista. Da buon piemontese era ligio al servizio, un soldatino di piombo, un doverista. Mi sento di dire che al mestiere, soprattutto nei suoi anni migliori, ha sacrificato tutto o quasi. Una volta mi raccontò che quando suo figlio divenne grande chiedeva a sua moglie “ma come era Alessandro da piccolo?”. In pratica non lo aveva visto mai travolto dalle esigenze del mestiere, da quei servizi scritti uno dopo l’altro seguendo l’inesorabile  martellamento della cronaca. Del resto fra di noi si dice che “il giornalista nasce orfano e muore vedovo” (ma parliamo naturalmente di un altro giornalismo, di un giornalismo di altri tempi, che ha poco o nulla a che fare con quello pressapochista di oggi). Il suo mondo, almeno nella prima parte della carriera, appartiene alla cronaca, alla grande cronaca. Non era un opinionista, era un giornalista. E infatti il Corriere della Sera, quando esistevano ancora certe regole, con suo grande disappunto non gli ha mai concesso il “fondo”, l’editoriale di prima pagina.

La sua prosa era nitida, limpida, direi quasi semplice, lontana dall’espressionismo di un altro notevole giornalista che per età lo segue da vicino, Paolo Guzzanti, ma altrettanto efficace.

Poiché gli mancava qualsiasi esperienza internazionale –ed è questo uno dei suoi grandi limiti- finì per dedicarsi invece che ai fatti e alle tragedie della vita al mondo della politica. E’ questa la fase, a mio avviso, meno convincente della sua carriera. Ha creduto di nobilitare il modestissimo materiale con cui aveva a che fare con i soprannomi e le maiuscole: “la Balena Bianca, l’Elefante Rosso, il Bisciobalena”. Insomma si era chiuso in un mondo dall’orizzonte ristrettissimo e a furia di fissare per anni il mostro ne aveva preso il linguaggio, i tic, l’opportunismo. Detestava Giorgio Bocca intuendo probabilmente che era di un’altra categoria e quando morì non fu né elegante né generoso affermando: “Non ci mancherà”.

Il grande successo lo ottenne con la pubblicazione de Il sangue dei vinti che dava conto delle violenze ad opera dei vincitori comunisti sui fascisti o presunti tali (le nefandezze del famoso “triangolo rosso”). Un atto di coraggio perché Pansa veniva comunque dal mondo di sinistra anche se non era mai stato un ottuso estremista (mi ricordo che quando seguivamo le “piste nere”, in una sorta di pool che si era specializzato in quest’ambito, cercava di tamponarne gli eccessi antifascisti). Ma anche questo suo ripensamento sulla Resistenza ha dei limiti. Pansa ha preso a piene mani dalla documentatissima e ineccepibile  Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò. Ma siccome Pisanò era un fascista, o direi piuttosto, avendolo conosciuto molto bene, un ‘mussoliniano’ che a questa sua passione romantica ha sacrificato quella che poteva essere una grande carriera, nessuno, Pansa compreso, a quel tempo gli diede alcun credito. Inoltre, com’è ovvio, era molto più facile scrivere quelle cose in un’Italia che si era spostata a destra, che in un’Italia in cui dominava l’egemonia di sinistra, cioè nei tempi in cui le scriveva Pisanò.

A Pansa è sempre mancato qualcosa. Per fare un paragone calcistico Lukaku, il centravanti dell’Inter, non diverrà mai Robert Lewandowski. A Gianpaolo Pansa è mancato quell’x factor per diventare Montanelli o Bocca. Però ci mancherà. E’ un’altra parte della nostra vita che se ne va.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2020

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Ha fatto scalpore nei giorni scorsi la notizia che Sharon Stone, 60 anni, si sia rivolta alla piattaforma Bumble, un sito d’incontri, per trovare un compagno. La cosa è parsa talmente incredibile che la Bumble ha chiuso il profilo dell’attrice ritenendo la sua richiesta un falso. Invece era vera. Sulla scia di questa notizia è saltato fuori che altri vip, come Ben Affleck, Lily Allen, Cara Delevingne, Amy Schumer, Katy Perry, Zac Efron, si sono rivolti a questi siti d’incontri che sono una sorta di declinazione moderna dei vecchi “annunci matrimoniali”. Mark Gaisford, importante manager inglese di 50 anni, ha confessato di non avere un solo amico. E questi sono tutti soggetti giovani e nel pieno dell’età, famosi, che non dovrebbero avere difficoltà a incontrare chi vogliono. Il fatto è che quello occidentale è un mondo di solitudini. E se la solitudine colpisce giovani e famosi, si può facilmente immaginare quale sia la situazione dei vecchi. Non è così in mondi molto più disastrati del nostro. In Africa il vecchio vive circondato da figli e nipoti (in Europa solo il 5,3 % si trova in questa situazione), resta il capo della famiglia, conserva un ruolo e la sua vita un senso. Da noi accade esattamente l’opposto. Terribile, veramente terribile, è la situazione del vecchio nelle società sviluppate. Il micidiale istituto della pensione, una crudeltà che solo la modernità poteva inventarsi, una volta raggiuntala ti taglia fuori. Da un giorno all’altro perdi il posto, per quanto modesto, che avevi avuto nella vita sociale. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo (qualcuno ricorderà, forse, il film Fantozzi va in pensione). Scriveva lo storico Carlo Maria Cipolla nel 1980 in Storia economica dell’Europa preindustriale: “Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza. L’uomo industriale (per non parlare di quello che vive nell’attuale mondo digitale, ndr) è sottoposto ad un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2020

 

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“I più pericolosi terroristi del mondo sono i gloriosi United States of America” scrivevo sul Fatto del 5 marzo del 2019 (Altro che Isis, i terroristi più pericolosi sono gli americani) ribadendo un concetto già espresso altre volte. L’assassinio, con un drone, di Soleimani, leader dei pasdaran, numero tre della gerarchia iraniana dopo Ali Khamenei e Rouhani, avvenuto in Iraq violando quindi anche la sovranità di quel Paese, ne è l’ennesima conferma. Un atto terrorista in piena regola. Il governo degli Stati Uniti lo motiva sostenendo che Soleimani stava preparando attentati contro siti di “interesse americano”. Un processo alle intenzioni in linea con la teoria Bush della “guerra preventiva” che abbiamo visto dove ci ha portato. Teoria a cui in questo caso mancavano anche le premesse perché nel recente aggravarsi della tensione fra Stati Uniti e Iran, non certo voluta dagli iraniani, i pasdaran non avevano messo in atto gravi provocazioni, il che è un dato di fatto, confermato tra l’altro, dal generale Mini che ha dichiarato al nostro giornale: “Sono anni che Teheran non mette a segno attentati o azioni eclatanti contro gli Usa”. Al contrario erano stati gli Stati Uniti a dare inizio alla bagarre con un raid contro una base di un gruppo filo-iraniano in Iraq, uccidendo 25 miliziani, fatto che è all’origine  dell’assalto, due giorni dopo, alla protettissima ambasciata americana a Baghdad. L’assassinio di Soleimani è un fatto inaudito nella storia recente, e forse anche meno recente, nel rapporto fra Stati perché, come ha scritto Pino Arlacchi sul Fatto, introduce “l’assassinio politico palese, e al massimo livello, come strumento accettabile delle relazioni internazionali, anche di quelle ostili”. Anche i senatori democratici Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno definito il blitz Usa “un assassinio” e non credo lo abbiano fatto solo per propaganda elettorale. E la speaker della Camera Nancy Pelosi ha affermato che Trump non può dichiarare guerre a suo piacimento senza una preventiva autorizzazione del Congresso. E’ un Presidente, non un dittatore. E’ stato eletto democraticamente, ma il metodo democratico non garantisce nulla sulla qualità degli eletti, a qualsiasi livello. Scrive Tocqueville in La democrazia in America: “Quando voi entrate nell’aula dei rappresentanti a Washington, restate colpiti dall’aspetto volgare di questa grande assemblea”. Non voglio dire che tutte le leadership dei Paesi democratici occidentali corrispondano alla descrizione di Tocqueville. Angela Merkel e le premier dei Paesi scandinavi sono qui a smentirlo. Ma Donald Trump è di quello stampo, a cominciare dalla volgarità e da una qualsiasi coerenza nella sua politica. Il decidere, dopo aver tentennato, il raid di venerdì fra una buca e l’altra di un campo da golf dove stava giocando può essere emblematico. Forse lo ha deciso perché ha centrato una buca altrimenti avrebbe soprasseduto.

Il Segretario di Stato Mike Pompeo (per il quale bisognerebbe rispolverare Lombroso) ha avuto la sfrontatezza di rimproverare gli alleati europei per non aver plaudito al crimine.

Le conseguenze. 1. Il Parlamento iracheno ha votato una risoluzione per l’espulsione di tutti i contingenti stranieri dall’Iraq. Questi contingenti erano stati chiamati in Iraq dal governo di Baghdad per sconfiggere l’Isis. Una richiesta d’aiuto molto pelosa che ricorda parecchio da vicino quelle fatte all’Unione Sovietica dopo la rivolta ungherese del 1956 e quella cecoslovacca del 1968 per aiutare i governi “amici”. 2. Ricompattamento, se ce ne fosse stato bisogno, fra Iran e la popolazione sciita dell’Iraq che rappresenta i due terzi di quel Paese. 3. Indebolimento in Iran della fazione più moderata e progressista, che fa capo a Rouhani, a favore dell’ala più radicale. Anche qui l’intero Iran si ricompatta perché a prevalere oggi c’è un solo sentimento che unisce tutto il Paese: l’odio antiamericano. 4. Una delle poche cose buone fatte da Obama, insieme a Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania (il noto “5 più uno”) era l’accordo sul nucleare iraniano. Trump, pur di sminuire il suo predecessore, prima è uscito formalmente dall’accordo e adesso lo ha sostanzialmente distrutto con l’assassinio di Soleimani. Il governo iraniano ha affermato che non ha più nessun obbligo di rispettare quell’accordo e che imboccherà la strada della fabbricazione dell’Atomica, anche se, per il momento, probabilmente nel tentativo di non inimicarsi anche gli altri firmatari, continua ad accettare le ispezioni dell’AIEA. Il possesso di un’Atomica come deterrente diventa una necessità di fronte alle minacce di Trump (“non esiteremo a reagire anche in modo sproporzionato”) come dimostra anche l’atteggiamento molto più soft del governo americano nei confronti del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che un paio di bombette atomiche le possiede. Lo stesso motivo indurrà molti altri Paesi, anche quelli che hanno firmato il Trattato di non proliferazione, a comportarsi di conseguenza. E con un mondo pieno di Atomiche una guerra nucleare, fra vari Stati in conflitto fra di loro, non sembrerà più così remota.

Si è sottolineata da molti l’irrilevanza dell’Europa, per non dire dell’Italia, sui vari scenari di guerra. Ma l’Europa non può nulla perché non possiede una forza militare adeguata. Visto che un diritto internazionale non esiste più, che l’Onu non conta più nulla perché è da più di vent’anni, dalla guerra alla Serbia del 1999, che gli americani agiscono contro la sua volontà, anche la Germania democratica dovrebbe avere la possibilità di dotarsi di quest’Arma. Nell’attuale situazione non è pensabile che oltre a Stati Uniti, Russia e Cina, l’Atomica ce l’abbiano Pakistan, India, Sudafrica, Israele, Arabia Saudita e non il più importante, e centrale, Paese europeo. Bisognerebbe anche che i Paesi europei che fanno parte della Nato denunciassero questa alleanza preistorica e ne uscissero, perché la Nato altro non è che un organismo al servizio degli americani. “Vasto programma” avrebbe detto De Gaulle.  Ma un’Europa politicamente unita, armata e nucleare, con una politica estera comune e il ridimensionamento degli Stati nazionali, è assolutamente necessaria se non vuole soccombere, senza difesa, davanti ai grandi potentati, Stati Uniti, Russia, Cina, India, più la finanza internazionale.

Tutta la politica più recente degli Stati Uniti è anti europea. Per un diktat americano i Paesi europei, a cominciare dall’Italia che con Teheran ha buoni rapporti, non possono avere commerci con l’Iran. Gli Stati Uniti hanno anche decretato sanzioni contro le imprese, fra cui quelle italiane, che partecipano al gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe portare appunto il gas dalla Russia all’Europa e che è particolarmente importante per l’Italia che su questo fronte energetico è molto debole.

Gli Stati Uniti si comportano come se fossero ancora i padroni del mondo. Ma non lo sono più. Il Novecento è stato il “secolo americano”. Il dopo Duemila apparterà ad altri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2019