C’è molta confusione sotto i cieli, internazionali e nazionali. Io credo che in questi anni stiano cambiando, e molto rapidamente, gli assetti politici ma anche valoriali usciti dalla Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti non sono più il Paese egemone, la guida indiscussa di quello che noi chiamiamo il “mondo civile”. Non c’è bisogno di vedere il formidabile film di Denys Arcand (il regista delle “Invasioni barbariche”) La caduta dell’impero americano per capire che, avvitandosi solo sul denaro, il proprio e l’altrui, è un Paese in piena decadenza morale che ha perso anche (Trump non ne è la causa ma l’inevitabile sbocco) quello spirito di unità nazionale che ne aveva costituito sempre la forza.
Ma gli anni attuali segnano anche il fallimento delle democrazie occidentali. La Democrazia infatti è un metodo, un sistema di regole, di forme e di procedure, non è un valore in sé e non propone valori. E’ un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberista e laica, che sono il substrato su cui la democrazia è nata, mentre facevano tabula rasa dei valori precedenti (complici anche “la morte di Dio” e delle ideologie, sia pure contrapposte) non sono state in grado di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili. Le monarchie assolute, le teocrazie, il potere carismatico e persino le dittature propongono invece valori forti, buoni o cattivi che siano, in genere condivisi dalla popolazione o da una buona parte di essa. Non è necessario che i governanti credano sul serio a quei valori –in genere non ci credono affatto- importante è che ci credano i governati.
La globalizzazione, portando con sé un’omologazione pressoché universale, ha enfatizzato tutte le contraddizioni, diciamo pure i deficit, del turbocapitalismo. Le tecnologie, soprattutto le più recenti, invece di unirci ci hanno separato. Di qui le controspinte verso aggregazioni identitarie, nazionaliste, comunitarie, espresse in forme reali ma anche virtuali (pur di sentirsi appartenenti a qualcosa le persone, non riuscendo più a farlo nella realtà, si aggregano sul web). C’è insomma in giro uno smarrimento, una perdita di punti fermi, solidi, di cui danno conto anche le cronache con crimini sempre più incomprensibili e mostruosi (“i delitti delle villette a schiera” come li chiamava Guido Ceronetti) e un’incomprensione sempre più visibile fra i sessi o generi come li si vuol chiamare ora.
Nonostante le apparenze non è la situazione economica, l’andar su e giù del Pil o dello spread di cui la gente capisce poco o nulla, il core della questione. Per restare nel nostro Paese negli anni Cinquanta noi italiani eravamo molto, ma molto più poveri di oggi. Ma c’erano uno slancio, una vitalità e anche un’allegria di cui chi vive le temperie attuali non può rendersi conto. La questione quindi sta nella perdita di senso. Nessuno, a meno che non sia obnubilato dal consumismo compulsivo, che è insieme causa ed effetto di questa perdita, può vivere un’intera vita, dalla culla alla tomba, senza un ideale. Qualsiasi esso sia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2019
Al Salone di Torino io ci sarò. Con un libro. Altri autori hanno fatto una scelta diversa ritenendosi offesi dal fatto che, come scrive Camilla Tagliabue sul Fatto, a questo Salone è presente una casa editrice dichiaratamente fascista “sovranista e vicino a CasaPound, Altaforte, che ha appena sfornato un libro-intervista a Matteo Salvini e il cui fondatore, Francesco Polacchi, si dice ‘fascista senza problemi’”. In democrazia ognuno può fare ciò che vuole, nella misura in cui non nuoce agli altri. Per lo stesso motivo, come garantisce l’articolo 21 della Costituzione, ognuno ha diritto di esprimere liberamente le proprie idee per quanto aberranti possano apparire al pensiero contemporaneo. L’unico discrimine è che nessuna idea, buona o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. Invece dai garantisti un tanto al chilo, che non hanno nemmeno l’idea di che cosa sia un regime liberale e democratico, si invocano le manette contro idee, fasciste, ‘sovraniste’ e, sia pure in modo indiretto, contro Matteo Salvini che ha pubblicato un libro-intervista con Altaforte. Non so se costoro si rendono conto del vaso di Pandora che stanno aprendo. Quando si viola un principio di libertà, anche con le migliori intenzioni di cui peraltro è lastricato l’inferno, si sa dove si comincia ma non dove si finisce. Si parte con Altaforte, si prosegue col ‘sovranismo’, si arriva a Matteo Salvini che, se non sbaglio, è viceministro del nostro Paese, mentre alle ultime elezioni politiche il suo partito, la Lega, ha ricevuto il 17 per cento dei consensi. Se non erro il consenso è l’essenza stessa della democrazia. Andando avanti di questo passo si potrebbero mettere fuori legge i Cinque Stelle che sono alleati con Salvini che ha scritto un libro per Altaforte che è vicina a CasaPound e che ha un editore che si dichiara fascista. Ma si può andare anche oltre. Il quotidiano il manifesto è esplicitamente comunista e il comunismo, come il fascismo, è considerato dalla communis opinion di oggi uno degli orrori del Novecento. Poi potrebbe toccare ai centri sociali che certamente sono antifascisti, ma altrettanto certamente si richiamano, con diverse declinazioni, al comunismo.
Oggi, se vogliamo utilizzare queste terminologie che dovrebbero essere obsolete e catacombali, i veri fascisti sono quegli antifascisti che vogliono proibire agli altri, che hanno diversa opinione, di esprimersi. Che è esattamente la concezione illiberale che aveva il fascismo storico. Molti, in questo Paese, non hanno mai capito che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E purtroppo continuano a dare ragione al fulminante aforisma di Mino Maccari: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2019
Il ‘golpe’ di Guaidò in Venezuela è una dimostrazione in vitro di come un fuoco concentrato di balle, in termini moderni fake news, può far apparire reale l’irreale e il falso. Tutti i giornali e i media internazionali ci avevano rotto i timpani facendoci intendere che in Venezuela era in atto un colpo di Stato, che Caracas era nel caos, che erano in corso combattimenti, che il presidente “usurpatore” Maduro stava per fuggire dal Paese e gettarsi nelle braccia di Putin. Ebbene Pino Arlacchi, che non è proprio l’ultimo venuto, essendo stato fra le tante altre cose sottosegretario delle Nazioni Unite, che in quei giorni era a Caracas, quindi sul posto, ha raccontato a Salvatore Cannavò del Fatto, forse l’unico giornale che insieme al nostro governo, in questo caso a trazione Cinque Stelle, non si è fatto abbagliare, una realtà molto diversa. Ha attraversato la città e l’ha trovata tranquilla tranne che in piazza Altamira, luogo tradizionale in cui si radunano i sostenitori della destra estrema, “i guarimbas, le squadre dei bulli dei quartieri alti che assaltano i cortei popolari picchiando, bruciando e sparando”. Sono stato in Venezuela, per motivi personali e non professionali, a metà degli anni 90 prima che Chavez prendesse il potere. Mille ricchissime famiglie di Caracas possedevano, in pratica, quasi tutta la ricchezza nazionale, il resto era desolazione, miseria, analfabetismo. Come avevo scritto in un altro pezzo (“Altro che Isis, i terroristi più pericolosi sono gli Stati Uniti”, Il Fatto 5.3.2019), basato su dati forniti dal Fmi e dalla Banca Mondiale, il ‘chavismo’ aveva lavorato ottimamente in Venezuela: le spese sociali avevano raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il Pil pro capite era triplicato in poco più di 10 anni, la povertà era passata dal 40 al 7%, la mortalità infantile dimezzata, la malnutrizione era diminuita dal 21 al 5%, il coefficiente Gini di disuguaglianza sociale era sceso al livello più basso dell’America Latina, l’analfabetismo praticamente azzerato. Alla morte di Chavez gli Stati Uniti hanno colto la palla al balzo per abbattere questo scandalo: un Paese socialista che si permetteva di migliorare invece che peggiorare. Hanno sottoposto il Venezuela a sanzioni economiche e sociali sempre più pressanti. E’ chiaro che in questo modo si mette facilmente in ginocchio un Paese, qualsiasi Paese. Racconta ancora Arlacchi (menomale che qualcuno d’una sinistra non comunista esiste ancora, peraltro qualcosa in questo senso si vede adesso in Spagna dove il governo socialista di Pedro Sanchez ha finalmente un programma socialista): “Le sanzioni economiche americane tagliano le medicine, il rapporto Sachs spiega molto bene che negli ultimi due anni a seguito delle sanzioni sono morte 40 mila persone in più soprattutto per la mancanza di medicine come l’insulina o i farmaci anti-Hiv, il governo ha i soldi per comprare ma le banche internazionali si rifiutano di eseguire le transazioni”. Capite allora chi è che domina la danza? Capite che quando qualcuno parla di “poteri forti” (non è il mio caso, mi sembra un’espressione troppo vaga) non sta vaneggiando? Adesso gli americani, visto che il fantoccio Guaidò non regge più, minacciano un intervento armato in Venezuela se dobbiamo dar retta alle parole del segretario di Stato Mike Pompeo (basta guardarlo in faccia, costui, per capire di che pasta è fatto). Io non posso credere che gli americani vogliano ripetere in Venezuela gli errori, e gli orrori, che anche con la complicità di alcuni Paesi europei, Francia in testa, hanno compiuto in Serbia nel 1999, in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011. Domenica 12 maggio parteciperò a un convegno a Brescia in cui parlerò del “diritto dei popoli di filarsi da sé la propria storia”. Cioè del diritto all’autodeterminazione sancito peraltro solennemente a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo. Questo diritto è stato stracciato non solo nei Paesi che abbiamo nominato, ma anche nell’ex Africa Nera da cui ci giungono le migrazioni che tanto ci preoccupano o fingono di preoccuparci. L’Onu non conta più nulla, quel poco di diritto internazionale che ancora esisteva nemmeno. Alla forza del diritto abbiamo sostituito definitivamente il diritto della forza. Una concezione che sarebbe piaciuta ad Adolf Hitler.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2019