A me va bene tutto. Mi sarebbe piaciuto però che nelle recenti rievocazioni delle censure perpetrate in Rai durante il ventennio berlusconiano, innescate dalla speranza che i 5Stelle riescano a spazzar via il regime partitocratico e familista che regna nella Tv pubblica dalla fine dell’epoca Bernabei, un cenno, almeno di sfuggita, fosse stato dedicato a quella che ho subìto io. Va da sé che le emarginazioni di Luttazzi, di Freccero, di Biagi e di altri protagonisti dello star system televisivo, sono molto più importanti per la notorietà di quei personaggi, ma la mia, dal punto di vista qualitativo, è la più grave. Perché non è stata una censura a un programma, ai suoi contenuti, ma a una persona in quanto tale, a prescindere. Una censura ‘antropologica’. Tanto che nel loro Regime Gomez e Travaglio le dedicarono il primo capitolo intitolato, appunto, “Massimo Fini, censura antropologica”. Cercherò qui di raccontare quegli antichi fatti, che hanno anche dei risvolti esilaranti.
Siamo agli inizi dell’autunno 2003. Un regista e produttore, Eduardo Fiorillo, direttore di una notevole struttura musicale, Match Music, propone al direttore di Rai Due, Antonio Marano, in quota Lega, un programma di costume che intende intitolare Cyrano, inspirato più a quello di Guccini che a Rostand. Conduttrice sarà Francesca Roveda, a me spetterà di cucire il filo fra i vari spezzoni del programma. Marano accetta: Cyrano andrà in onda in terza serata. Facciamo le prove negli studi Rai di corso Sempione a Milano. La prima puntata è pronta, ma deve essere ancora montata. Non è presente nessun dirigente o funzionario Rai. Insomma nessuno l’ha vista, tranne noi. In serata Fiorillo riceve una telefonata di Marano, da Roma. “Ci sono dei problemi” dice. “Sul programma?” chiede Fiorillo. “No, su un nome. Quello di Massimo Fini. Devi toglierlo di mezzo”. Fiorillo è basito. Conosce il mondo, anche nei suoi lati pericolosi e borderline, ma a violenze di questo tipo non è abituato. In fondo si è sempre occupato di musica. Comunque si rifiuta: “No, io una cosa del genere non mi sento di farla. Oltretutto il programma è centrato proprio su Fini”. Marano propone un incontro chiarificatore a tre (lui, Fiorillo ed io) per il lunedì pomeriggio, il giorno prima che il programma, ampiamente pubblicizzato dalla stessa Rai e anche dai giornali, incuriositi, vada in onda. In fondo la cosa dispiace anche a lui. In epoca di ‘reality show’ dar una patina un po’ più culturale alla sua Rete gli conviene. Nessuno dei due, né Fiorillo né Marano, si è reso conto di aver messo il piede su una merda. Io e Fiorillo decidiamo di portarci dietro un registratore, di nascosto. Non si sa mai. Marano, nella sua parte di Don Abbondio, è a suo modo onesto: “A questo punto la puntata l’ho vista. Potrei dirle che non funziona, che lei non ‘buca il video’. Ma non me la sento. Perché non è così. E’ che su di lei c’è un veto politico aziendale”. E mi propone di sparire dal video e di retrocedere ad autore. A parte che io non sono affatto autore del Cyrano, che è opera di Fiorillo, ritengo la proposta inammissibile e la rifiuto. “Non so se vi rendete conto della violenza che mi state usando. Perché mi avete avvicinato voi, mi avete contrattualizzato. Erano quindici puntate, ho dovuto modificare i miei programmi, per esempio lasciare quella poca roba che avevo su Odeon tv con Funari e cancellare un calendario di presentazioni di un mio libro Il vizio oscuro dell’Occidente. E adesso mi si dice: no, tu non puoi lavorare. Cioè, io non posso lavorare in questo Paese?”. Marano, quasi scandalizzato, farfuglia che non è così. “Diciamo allora che ci sono lavori che io non posso fare”. Marano: “Ecco, questo è più preciso”. “Va bene, dunque ci sono dei lavori che io non posso fare. Anche nel ’38 c’erano lavori che gli ebrei non potevano fare. Mi metterò una stella gialla sul petto”.
Il programma andrà in onda con una settimana di ritardo e con un nuovo titolo, Borderline, senza di me. La vicenda suscita un po’ di scalpore, non tanto, il ‘minimo sindacale’.
La questione finisce davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Rai presieduta dal diessino Claudio Petruccioli. E Petruccioli compie un autentico capolavoro: si fa inviare da me la cassetta con la registrazione, ne dà notizia in Commissione ma non la fa ascoltare. I consiglieri leghisti (Davide Caparini), gli ex missini ora An (Alessio Butti) e il forzista Giorgio Lainati, si scatenano subito contro di me: vogliono che sia denunciato alla Magistratura per violazione della privacy e radiato dall’Ordine. Da vittima divento il colpevole. Cornuto e mazziato (E pensare che ero stato uno dei pochissimi intellettuali italiani a difendere la prima Lega di Bossi quando era trattata peggio delle Br, un po’ come oggi i ‘populisti’ grillini, e l’unico, insieme a Mughini, a difendere il diritto di cittadinanza politica dei missini contro la truffa dell’ ‘arco costituzionale’). Un altro exploit lo fece Marcello Veneziani, uno dei leader di quella ‘nuova destra’ che pure, a suo tempo, avevo difeso, che scrisse sul Giornale: “Visto che Fini è tanto bravo e così necessario al video come mai la Rai dell’Ulivo non aveva pensato a offrirgli un programma?”. Insomma in Rai non potevo lavorare né se comandava la destra né se comandava la sinistra. Non potevo lavorare e basta. Ero (e sono rimasto) un meteco.
La mancata audizione della registrazione permise a Marano (che tuttora sverna in Rai) di cambiare completamente le carte in tavola, nonostante contro le sue menzogne ci fosse anche la testimonianza di Fiorillo: ero un incapace, uno che “non buca il video” e se non me lo aveva detto in faccia era solo per delicatezza.
Naturalmente non fui denunciato alla Magistratura, tantomeno da Marano, né radiato dall’Ordine. Sarò io a far causa alla Rai per i danni materiali e quelli morali portati alla mia immagine. E la vincerò. Ma il Tribunale riconobbe solo i danni materiali, non quelli morali con la singolare motivazione che ero stato io stesso a danneggiare la mia immagine parlando dell’accaduto con i giornali. Sarebbe come se una ragazza stuprata non venisse risarcita perché ha denunciato la violenza.
Ma come a volte avviene da un male può nascere un bene. Fiorillo decise di portare il Cyrano a teatro, ma non quello che avevamo immaginato per la Rai bensì centrato sul ‘Fini pensiero’ antimodernista. “Non ce la puoi fare, Edo” gli dissi. “Ne verrà fuori un polpettone indigeribile”. Invece Fiorillo, usando gli strumenti dello spettacolo non per distrarre gli spettatori dal ‘polpettone’ ma per supportarlo, mise in piedi una pièce che ha ottenuto un grande successo in teatri importanti come il Ciak di Milano, il Celebrazioni di Bologna, lo splendido Storchi di Modena, una piccola Scala, con i palchi, riempita fino all’inverosimile. E io ho ottenuto la mia rivincita personale. Altro che “non bucare il video”. Perché, caro Marano, a teatro, con il pubblico davanti a te, a differenza della tv o dallo scranno di un ufficio, non si può mentire.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2018
Per la prossima Pasqua verrà pubblicato dall’editore Cantagalli un libro dedicato a Joseph Ratzinger che contiene molte delle sue omelie fra le quali è particolarmente interessante quella che tenne nel 1978 a Unterwössen in Germania. Ratzinger, a parer mio, è stato il più spirituale degli ultimi tre Pontefici. Wojtyla è stato un Papa soprattutto politico e troppo immerso nella mondanità e nella modernità, di cui usava con grande disinvoltura, e direi spregiudicatezza, i mezzi (TV, jet, viaggi spettacolari, creazione di ‘eventi’, concerti, gesti pubblicitari, ‘papamobile’, ‘papaboys’) fino a confondersi con essa. Noi non abbiamo bisogno di una mondanità che ci circonda da tutte le parti, che ci esce sin dalle orecchie, di questa mondanità ne abbiamo fin sopra i capelli, abbiamo bisogno di qualcosa che dia un senso alla nostra vita che poi sarebbe la ragione in ditta della Chiesa, che sembra però aver smarrito anch’essa, nella enorme confusione portata dalla modernità, la via maestra. In quanto a Papa Bergoglio, non meno narcisista, esibizionista e superbo di Giovanni Paolo secondo (basta pensare al nome che si è scelto, Francesco, il più grande santo che Madre Chiesa abbia espresso, pauperista ad onta degli adoratori dell’unico dio rimasto all’Occidente, il Dio Quattrino) nella sua smania di voler piacere a tutti finisce per non convincere nessuno.
Ne parlo in partibus infidelium , da non credente. Ma non è da pensare che in chi non crede sia assente il sentimento che l’uomo non sia fatto soltanto di materia ma anche di spirito, sia pure uno spirito che non si immortala com’è invece il credo di tutte le religioni monoteiste.
Ratzinger afferma in sostanza, all’interno di una complessa cosmogonia che ha comunque al suo centro la divinità, che il dolore è necessario all’essere umano proprio per conservarsi tale. E’ un’aporia, che come molte altre aporie, era ben presente nel greco e laico Eraclito, che dice: “E’ la malattia che rende dolce la salute, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo”. Prendiamone un’altra di queste aporie. La morte è necessaria alla vita, non ne è solo la conclusione inevitabile, ne è la precondizione. Senza la morte non ci sarebbe nemmeno la vita.
Sono concetti elementari questi. Che però l’Illuminismo, osando proclamare un diritto alla ricerca della felicità, che poi l’edonismo straccione contemporaneo ha declinato tout court in un diritto alla felicità, rendendo così, ipso facto, l’uomo infelice, è andato via via perdendo per strada. Non esiste alcun diritto alla felicità. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità. Non un suo diritto. E di questi diritti impossibili è piena la nostra società e la nostra testa.
Il dolore è quindi consustanziale all’uomo, per volere divino secondo Ratzinger. Ma non c’è bisogno di scomodar Dio. Il dolore fa parte della struttura psicologica profonda dell’uomo, questo essere tragico leopardianamente incapace di trovar quiete, il solo animale del Creato lucidamente consapevole della propria fine. Ma il dolore ha anche un’altra connotazione. Per usar Nietzsche e le sue parole: “Ogni malattia che non uccide il malato è feconda”. Non si tratta però di andarsi masochisticamente a cercare il dolore, proprio o altrui, in una sorta di gioco di specchi e controspecchi, alla Madre Teresa di Calcutta. Non ce n’è alcun bisogno. Abita già in noi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2019
Nei giorni che precedono immediatamente il Natale cominci a ricevere telefonate di persone che non frequenti più da tantissimo tempo. E la litania prosegue fino a Capodanno. Degli auguri hanno solo la forma, in realtà sono solo una delle manifestazioni di quella solitudine che assale alla gola noi vecchi sotto le Feste. Quella solitudine c’è sempre, ma qui si fa più acuta e dolorosa. Con una velocità vertiginosa ti vengono incontro i tempi in cui eri bambino e il Natale era una Festa, ricevere i regali un’affascinante sorpresa e ti agguantano anche i Natali in cui eri tu ad avere i bambini, e la tua famiglia, di cui eri diventato il capo, non era una famiglia ma un clan, con i genitori, i nonni, gli zii, la zia rimasta nubile, le sorelle, i fratelli, i cugini, con le loro fidanzate o compagne o mogli con i propri figli e magari già con i figli dei loro figli. Adesso quel clan si è smembrato così come si è smembrata la tua vita. Molti amici sono morti. Lì per lì non te ne sei quasi accorto, erano casi isolati. Ora è come essere su un campo di battaglia senza nemmeno la battaglia.
Terribile non è solo l’ira del mansueto, lo è anche la solitudine del vecchio. D’ordine diverso sono la solitudine del giovane e del vecchio. Quella del giovane è una scelta, può interromperla in qualsiasi momento, quella del vecchio è coatta, una prigione, un buio sforato solo da qualche, rara, ‘bocca di lupo’.
Da vecchi avviene una cosa sorprendente, all’apparenza. Le giornate sembrano lunghissime perché sei molto meno o per nulla impegnato (“E adesso vai curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”, questo è il vero senso di quella pensione tanto agognata da molti). Inoltre dormi molto meno. Di quelle ore che un tempo ti sarebbero state così preziose ora non sai che fare. Mi ricordo il raccapricciante racconto di un vecchio amico di mio padre il quale, intendo mio padre, era morto, per sua fortuna, una ventina di anni prima. Era stato Direttore, oggi nella contrazione orwelliana delle sigle si direbbe AD o CO, di una banca di media importanza, un uomo molto attivo. Adesso si svegliava all’alba e passava quattro ore, ansiose e inoperose, in attesa dell’apertura della Biblioteca, alle otto del mattino. Qui, con l’inutile e patetica voracità di Bouvard e Pécuchet, si gettava a leggere di tutto, anche, anzi soprattutto, cose di cui non gli era mai importato nulla, tanto per “ammazzare il tempo” pur essendo ben consapevole, perché era un uomo intelligente e sensibile, che era il tempo ad ammazzar lui.
Al contrario, in vecchiaia, se i giorni sono lenti, gli anni passano fulminei, senza nemmeno che te ne accorga. “Come, è già di nuovo Natale? Ma non era stato ieri?”. Pensate a un mese di vacanza. La prima settimana passa lenta, la seconda un po’ più veloce, la terza rapidissima, la quarta è appena cominciata che è già finita. Così è il Tempo nella vita dell’uomo. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall’infanzia? La giovinezza, pur essendo oggettivamente più lunga (i Latini la fissavano dai 14 ai 45 anni) corre più veloce. La maturità che, sempre per i Latini, arrivava a sessant’anni, dopo di che cominciava l’atra senectus, è ancora più rapida. In vecchiaia il Tempo, questo padrone inesorabile delle nostre vite, precipita, cade a vite come un aereo cui abbiano impiombato un’ala. E mentre spegni l’ultima candelina dell’ultimo albero di Natale ti chiedi, rassegnato più che sgomento, se ci sarà un’altra volta.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2018