“Indebolire l’Europa è l’obbiettivo di Trump” ha scritto Alessandro Sallusti nei giorni delle visite del presidente americano in Gran Bretagna e in Francia in occasione delle celebrazioni del 75° anniversario dello sbarco in Normandia. Per la verità questa non è una novità. E’ dalla fine della guerra mondiale che gli Stati Uniti hanno cercato e ottenuto di tenere in stato di minorità l’Europa, posizione politicamente legittima perché sono stati gli americani, i sovietici e gli inglesi i vincitori della seconda guerra mondiale, mentre l’Europa quella guerra l’ha persa (gli inglesi, protetti dalla loro isola, non sono mai stati europei, non hanno mai sentito di avere un forte legame col Vecchio Continente, come anche la Brexit oggi conferma). La novità è semmai che The Donald, com’è suo costume, manifesta questa sua volontà antieuropea in modo più diretto e brutale.
Quando Adenauer, De Gasperi, Spaak decisero di iniziare a costruire un’unità europea sapevano benissimo che questa avrebbe dovuto essere prima politica e poi economica. Ma sapevano altrettanto bene che gli americani non lo avrebbero permesso. Così l’unità economica ha dovuto farsi strada attraverso una serie di accordi parziali, per esempio la CECA, per arrivare alla fine, faticosamente, all’Europa dell’euro di oggi. Ma una vera unità politica l’Europa non l’ha raggiunta tuttora. Per diverse ragioni. La prima affonda le sue radici nel passato. Ogni Stato europeo ha una sua storia molto diversa da quella di tutti gli altri. La seconda è molto attuale. E riguarda i miopi ‘sovranismi’ che, giocando proprio sulle rispettive identità nazionali, si oppongono a un’Europa politicamente e concretamente unita senza capire che nessun Paese europeo può reggere da solo la competizione con i grandi aggregati politici, ed economici, come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’India.
Uno degli strumenti per mantenere l’Europa in uno stato di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti è stato naturalmente quello militare. Quando a metà degli anni 80 francesi e tedeschi cercarono di costituire un primo nucleo di esercito europeo gli americani si opposero. “Che ve ne fate? C’è già la Nato”. Ma la Nato è stata sempre nel pieno dominio degli americani. Ed è la Nato, trasformatasi nel frattempo, contro il suo stesso statuto, da patto difensivo in offensivo, ad aver trascinato negli ultimi anni l’Europa nell’avventurismo degli yankee con guerre aggressive in cui l’Europa non aveva alcun interesse, dalla Serbia all’Afghanistan all’Iraq alla Libia (solo in quest’ultimo caso preceduti dai francesi spinti dall’interesse a scalzare l’Italia dalla posizione economica privilegiata che aveva con la Libia di Gheddafi). Senza una propria forza militare, autonoma, l’Europa non potrà mai avere una vera indipendenza. Ma adesso proprio l’’isolazionismo’ di Trump contrario ad accordi multilaterali per privilegiare quelli unilaterali, da Paese a Paese, dove gli Stati Uniti saranno sempre vincenti, e che in ragione di ciò ha espresso insofferenza nei confronti della Nato, offre all’Europa un’opportunità inaspettata e imperdibile: svincolarsi finalmente dal soffocante abbraccio dell’’amico americano’. Lo aveva capito bene Angela Merkel che nel maggio 2017 affermò: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”. Era, per la prima volta, un invito esplicito a svincolarsi dalla Nato e a creare quell’esercito europeo che a metà degli 80 era stato impedito a Germania e Francia di mettere in piedi. Qualche passo in questa direzione la Germania di Merkel l’ha già fatto, incorporando nella Bundeswehr due brigate olandesi, una rumena, una ceca e facendo la stessa proposta a Francia e Polonia. Naturalmente denunciare il Patto Atlantico e uscirne fuori è estremamente difficile per Paesi come la Germania e l’Italia che, proprio in ragione di questo Patto, hanno rispettivamente 80 e 60 basi militari, alcune nucleari, sul proprio territorio. Ma è questa, a nostro avviso, la strada che l’Europa deve seguire mettendo al margine gli isterismi sovranisti ‘Salvini style’. Vedremo se il successore della Merkel –perché è dalla Germania democratica di oggi che tutto in Europa dipende- avrà la stessa tempra.
Una notazione in finale. In uno speciale di Sky dedicato al D-Day l’ambasciatore Sergio Romano, che è il commentatore politico del Corriere più svincolato dai soliti schemi, ha affermato: “E’ giusto ricordare e onorare i caduti del D-Day appartenenti ai Paesi vincitori, ma a me appare ingiusto che nemmeno una parola sia stata spesa per i caduti, altrettanto in buona fede, dell’altra parte, italiani e tedeschi”. Un’affermazione coraggiosa, controcorrente, che ci sentiamo di condividere pienamente. E non da oggi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2019
Il Fatto ha dato un grande spazio allo scandalo che per comodità chiameremo “Palamara” ma che in realtà coinvolge l’intero sistema giudiziario. Ed è comprensibile per l’importanza che hanno in uno Stato di diritto l’indipendenza e la credibilità della Magistratura che la nostra Costituzione, dopo l’esperienza fascista, volle indipendente da ogni altro potere. Per non farne però un organo lontano dalla società i nostri Padri costituenti vollero che il Csm, da cui dipendono “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, fosse composto per due terzi da giudici ‘togati’, cioè da magistrati, e per un terzo dai cosiddetti ‘laici’ scelti dal Parlamento fra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Furono ingenui i nostri Padri costituenti perché non potevano immaginare la presa che i partiti avrebbero assunto nella società per cui questi stessi partiti immisero nel Csm ‘laici’ non per la loro esperienza in campo giudiziario ma per la loro dipendenza da l’una o dall’altra formazione politica. E questo è stato il primo tarlo che ha cominciato a corrodere la Magistratura italiana nell’era repubblicana.
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia della nostra Magistratura dopo l’unificazione del Paese è, sostanzialmente, una buona storia. I magistrati erano talmente gelosi della propria indipendenza, considerando il loro lavoro più che una professione una vocazione, che il fascismo non riuscì a piegarli ai suoi fini e dovette ricorrere ai Tribunali Speciali. Erano altri tempi. Altri uomini. Mi ricordo un bell’articolo di Salvatore Scarpino dove raccontava l’isolamento dei magistrati nella cittadina dove era nato, Cosenza, che limitavano al massimo le proprie frequentazioni sociali per non dare adito a dubbi sulla loro attività.
Nel dopoguerra, dopo una prima fase di euforia generale dovuta alla ricostruzione e con uomini politici di notevole spessore perché forgiati da quel conflitto, la nostra classe dirigente comincia a corrompersi e per uscire indenne dalle proprie malefatte cerca di mettere le mani anche sulla Magistratura. Tentativo in buona parte riuscito. Tutti ricordiamo che il Tribunale di Roma, cui erano affidati i processi più scottanti, era chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiarli. Ma attraverso l’istituto dell’avocazione, cioè la possibilità del Procuratore capo da cui dipendono i Pubblici ministeri, molte istruttorie venivano tolte ai titolari perché non ficcassero troppo il naso in vicende delicate. E questo accadeva non solo a Roma ma in Procure di città anche meno importanti. Di fatto la classe dirigente, politica e imprenditoriale, si era assicurata, salvo rari casi, l’impunità. Il momento del riscatto venne con Mani Pulite. Mani Pulite è frutto di un avvenimento storico estraneo al nostro Paese ma che vi ha inciso profondamente: il collasso dell’Unione Sovietica. I voti dei cittadini non più costretti a votare Democrazia cristiana perché il pericolo comunista non esisteva più (il “turatevi il naso” di Montanelli) si diressero verso un movimento nuovo e sostanzialmente antipartitocratico, la Lega di Umberto Bossi. Cioè nasceva finalmente un vero partito di opposizione, in quanto quello ufficiale, rappresentato dal Pci, si era consociato con la Dc e ne condivideva sostanzialmente gli interessi, anche nell’ambito dell’autodifesa della classe dirigente dalla Magistratura.
Con la Lega in campo simili sporchi giochetti non erano più possibili. La Lega liberò le mani ai magistrati milanesi che per la prima volta nella storia repubblicana poterono richiamare la classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto di quella legge cui noi cittadini, diciamo così, normali, siamo obbligati. Non ci furono e non ci sono ombre sui componenti di quel formidabile pool, dal Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli a Ilda Boccassini a Piercamillo Davigo a Gherardo Colombo e allo stesso Antonio Di Pietro, particolarmente bersagliato, soprattutto dal mondo berlusconiano allora vincente, e sottoposto a sette processi da cui è uscito regolarmente assolto. Fu l’ultima stagione in cui noi cittadini, perlomeno quelli, diciamo così, normali, potemmo avere piena fiducia nella Magistratura. Ma l’illusione durò poco. Nel giro di pochissimi anni, con l’appoggio dell’intera stampa nazionale, e non solo di quella berlusconiana, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso, proprio attraverso il Csm zeppo di politici mascherati da professionisti dello ‘iure’, giudici dei loro giudici. Fu un segnale. Decisivo per la nostra storia successiva. Era un ‘liberi tutti’ per la corruzione di lorsignori che poi, discendendo giù per gli rami, ha finito per coinvolgere anche noi cittadini, diciamo così, normali. Inoltre la corruzione, morale e non solo, si è incistata negli altri corpi istituzionali, non solo nella Magistratura, finendo per sfiorare anche le Forze Armate dove circola un’aria di insubordinazione. Non si era mai visto che un ministro della Difesa, in questo caso Elisabetta Trenta, fosse messo sotto accusa da importanti generali che sia pur da poco pensionati evidentemente respirano qualche cosa che bolle in pentola nelle nostre Forze Armate. Non si capisce come il nostro Paese possa uscire da una simile confusione generale che assomiglia molto a quello che in termini psichiatrici si chiama “marasma senile”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2019
Delle sorde, sordide, lotte intestine che si sono scatenate fra le varie correnti del Csm e i magistrati a esse legati per accaparrarsi il posto di Procuratore capo di Roma lasciato libero un mese fa da Giuseppe Pignatone, che hanno a loro volta scoperchiato, come in una matrioska, altri fondi e sottofondi dello stesso genere per assicurarsi posizioni apicali nell’ordine giudiziario, col corollario di altissimi magistrati sospettati di essere disposti a vendersi per un anello da regalare alla moglie, per sbafare una vacanza in qualche località prestigiosa, e di frequentazioni equivoche, in questo caso non più sospettate ma documentate, con uomini politici, faccendieri, imprenditori indagati per gravi reati, insomma di questo guazzabuglio sinistro e quasi inestricabile abbiamo capito una sola cosa, quella scritta (Fatto, 31.5) da Gian Carlo Caselli, ex Procuratore della Repubblica di Torino fra i tanti incarichi che ha avuto, cioè che “l’impatto vero e tremendo” di questa storia grava “sull’indipendenza della Magistratura”. Noi, che non siamo magistrati né ex magistrati, e siamo quindi liberi da ogni riguardo di colleganza, diremo qualcosa di più: dalle notizie emerse in questi giorni, anche se fossero confermate solo in parte, si ricava che la Magistratura italiana, come ogni altro corpo del nostro Stato, è corrotta, con tutta probabilità anche penalmente, di sicuro moralmente. ‘Pecore nere’ ci possono essere ovunque, questo è ovvio, ma qui il dissesto morale, e forse anche penale, appare di sistema. E se anche si trattasse solo di sospetti bastano per incrinare la fiducia dei cittadini nella credibilità della Magistratura. E con una Magistratura ritenuta, a torto o a ragione, più a ragione, temiamo, che a torto, poco credibile, si minano alle radici le fondamenta stesse dello Stato e della democrazia. In uno Stato di diritto la Magistratura è il massimo organo di garanzia di una corretta convivenza fra i cittadini, non lo è, benché sia capo del Csm, il Presidente della Repubblica che in quest’ambito ha di fatto solo un potere di ‘moral suasion’ che in un Paese come il nostro dove l’immoralità e la corruzione, nelle Istituzioni e non, sono dilaganti, lascia il tempo che trova. Se settori della Magistratura e singoli magistrati non agiscono per la difesa di quella legalità di cui dovrebbero essere gli integerrimi custodi, ma per fini propri diversi da quelli di giustizia, allora casca l’asino. Si rompe cioè il contratto sociale che dovrebbe tenerci insieme. Diventa anche patetico il disperato grido dei Cinque Stelle “legalità, legalità” se a violarla sono proprio quelli che dovrebbero assicurarla. E si rischia di dar ragione al mantra di Silvio Berlusconi che, coadiuvato dalla potenza di fuoco dei suoi media, ha sempre sostenuto, e tuttora sostiene, di essere stato e di essere vittima di una “magistratura politicizzata”. E allora avremo davvero toccato il fondo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2019