Basta entrare in un “salotto” romano per rendersi conto che in Italia non si farà mai la Rivoluzione. Né le riforme. Né nulla di serio. Basta entrare in una di quelle stupende case –belle come solo a Roma possono essere- e vedervi prestigiosi uomini politici variamente intrecciati con palazzinari, mafiosi d’alto bordo, giornalisti dall’aria di manutengoli, cocottes, scrittorucoli del Corriere della Sera, fotografi alla moda, pubblicitari e parassiti di tutte le risme, per capire com’è conciata l’Italia. Quando vedi il parlamentare che, appena lanciate durissime accuse contro la mafia, ammicca complice al palazzinaro notoriamente legato ad ambienti mafiosi, ti rendi conto che le polemiche, gli attacchi, i furibondi scontri, gli scazzi ideologici di cui i giornali quotidianamente ci informano, non sono che lo spettacolo della democrazia, la commedia della democrazia, ma che la realtà è qui: nel salotto.
Ci sono qui, nel salotto, una complicità, uno sbraco, una mancanza di tensione morale e ideale, così veri, così evidenti, così sinceri che non è proprio possibile farsi illusioni. Qui, nel salotto, parole come classe operaia, lotte, giustizia, uguaglianza, libertà perdono ogni senso e quando vengono dette –perché, pur spudoratamente, vengono dette- acquistano un significato grottesco e di scherno.
E’ l’eterno “generone” romano, quello che si abboffava intorno a Ciano, che eternamente si riproduce e che adesso si abboffa intorno alla democrazia. Ai simulacri della democrazia. Nulla è cambiato. Se non il segno con cui questa gente giustifica i propri privilegi e la propria pochezza.
Forse la storia d’Italia sarebbe stata diversa se la capitale fosse rimasta a Firenze. Forse, a Firenze, avremmo avuto una leadership più seria. Ma, purtroppo, la capitale è Roma. E Roma corrompe. Corrompe anche chi non lo vuole. E’ irresistibile Roma, in questo. E, quel che è peggio, da qualche anno Roma sta fagocitando tutto: la vita intellettuale, la finanza, le banche, il management industriale, perfino i giornali e le case editrici. Questo cancro enorme sta terzomondizzando l’Italia. E le sue metastasi, che si chiamano clientelismo, burocratismo, parassitismo, mentalità mafiosa, corruzione, si diramano ormai ovunque e raggiungono Milano e Torino e Genova. Tutti hanno un’aria beata: l’importante è partecipare.
Il lettore penserà che questo articolo io l’abbia scritto oggi. Invece fu pubblicato l’11 ottobre 1979 su Il Lavoro di Genova col titolo “Un salotto sinistro”. In quarant’anni nulla è cambiato. Se non in peggio. Come ci dicono anche le cronache recentissime che, come è stato riportato dal Fatto del 12/12/2018, coinvolgono l’ex ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il Direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Alessandro Pansa e l’ex premier Paolo Gentiloni.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2018
Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato.
La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un ‘non credente’: “Sono un religioso, non un credente…Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana”. E liquida la Bibbia (“un libro raccapricciante che suscita orrore” secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio) il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di “Leggende venerabili ma piuttosto primitive. Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere (e qui si riferisce precipuamente alla Bibbia, ndr) che mi faccia cambiare idea…Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive”. Insomma sono miti fondativi, ma senza nessun riscontro storico e tantomeno scientifico.
Ma Einstein non è un ‘non credente’ integralista, ‘freddo’ alla Rita Levi-Montalcini, se in questa stessa lettera riprende un passaggio di Spinoza che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo. In Einstein sembra quindi esserci comunque e nonostante tutto una tensione verso il trascendente e in questo credo consista la sua ‘spiritualità’. La presenza/assenza di Dio lo turba se nella famosa polemica col collega danese Niels Bohr, che aveva descritto per primo la struttura dell’atomo, gli replica: “Dio non gioca a dadi con l’universo”.
Einstein è ebreo e si riconosce nella cultura ebraica sia pur senza integralismi (“con piacere”) e scrive: “E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori”. E qui Einstein centra una questione molto attuale, che non ha a che vedere con la scienza ma con l’essenza dell’umano, e che risponde a quella legge storica per cui i vinti di ieri una volta diventati vincitori non si comportano molto diversamente dai loro antichi sopraffattori. Altrimenti sarebbe incomprensibile come lo Stato di Israele tenga a Gaza un enorme lager a cielo aperto, quando proprio dei lager gli ebrei sono stati vittime nei modi atroci che ci vengono sempre ricordati.
La lettera venduta l’altro giorno da Christie’s ci riporta anche alla famosa polemica fra Niels Bohr e lo stesso Einstein. In estrema sintesi: Bohr sostiene il “principio di indeterminazione” e cioè che la Scienza non può arrivare a scoprire la legge ultima dell’universo, Einstein al contrario non riuscirà mai a convincersi che non sia possibile, per l’uomo, arrivare alla Verità assoluta. E qui noi, pur nella consapevolezza di inserirci da nani in un confronto fra giganti, stiamo con Bohr che doveva aver ben presente il profondo insegnamento di Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima (e qui per anima va intesa la Verità, ndr) per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E aggiunge: la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana.
Infine in un’altra nota Einstein, nella sua saggezza umana, molto umana e nient’affatto troppo umana ci dà un consiglio, che con la fisica ha poco a che vedere, ma che dovrebbe far rizzare le orecchie ai cantori molto attuali, inesausti e dilaganti delle “sorti meravigliose e progressive”, delle crescite esponenziali e del mito del successo: “Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2018
Allora è ufficiale. E’ stato certificato dalla Società di gerontologia e geriatria: la vecchiaia comincia solo a 75 anni esatti. Evviva. Io ho compiuto questa età lo scorso novembre, ciò vuol dire che a ottobre ero ancora giovane.
Di questa decisiva certificazione ci informa sul Corriere del 2/12 Edoardo Boncinelli che oltre ad essere un genetista è un importante commentatore delle questioni che girano intorno alla vecchiaia e alla morte. Scrive Boncinelli: “Io vado proclamando che ho avuto una fortuna sfacciata a vivere in questa epoca. Per aver testimoniato di persona l’incredibile allungamento della nostra vita e, spesso, della nostra vita attiva. E combattiva”.
Innanzitutto bisogna spazzar via un equivoco in cui cade volutamente, e non innocentemente, la società scientifica che ci fa credere che in passato, diciamo prima della Rivoluzione industriale, la vita fosse cortissima, trenta o quarant’anni di meno di oggi. Questo è vero se ci si riferisce alla vita media che sconta l’alta mortalità natale e perinatale. Ma se si superava questo primo scoglio, che lasciava in vita i più robusti, la realtà era ben diversa. Noi non possiamo pensare che gli uomini del passato vivessero in media poco più di trent’anni quando, in genere, gli uomini si sposavano a 28 anni e le donne a 24. Non avrebbero avuto nemmeno il tempo di badare ai primi figli e tantomeno di farne altri. Invece ne figliavano moltissimi. Non c’è bisogno di tornare ad un lontano passato per ricordare che i nostri nonni facevano sei, otto, dodici figli. Il confronto non va quindi fatto con la vita media ma con l’aspettativa di vita dell’adulto. E qui la differenza è molto meno clamorosa: in termini di aspettativa di vita abbiamo guadagnato circa dieci anni per gli uomini e dodici per le donne. Bisogna poi vedere come si vive questa dozzina d’anni di esistenza in più. Tutto l’articolo di Boncinelli gira intorno a uno dei totem dell’epoca: “vecchio è bello”. I Latini più pragmatici, meno retorici e disposti a mentirsi addosso, sapevano bene che la vecchiaia, a qualsiasi età la si voglia far cominciare, è un periodo estremamente doloroso della vita. La chiamavano atra senectus, Terenzio scrive Senectus ipsa est morvus e Seneca che morì a 69 anni e quindi ne sapeva qualcosa aggiunge “e per soprammercato inguaribile”. Vita attiva e combattiva. Non scherziamo. Il dramma della vecchiaia non sta solo, e non è davvero poco, nell’inevitabile logoramento fisico. Sta nell’impossibilità di un progetto di vita, esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Manca qualcosa da aspettare se non la morte. I vecchi fanno di tutto per riempire questo vuoto che li separa dalla nobile signora con ogni sorta di attività di cui da giovani gli importava poco o nulla. Si estenuano in visite a mostre, a musei, a collezioni d’arte contemporanea oppure in viaggi improbabili su pullman a loro dedicati durante i quali qualcuno ci resta secco provocando il terrore generale.
Oltre ai problemi esistenziali dei vecchi, ci sono quelli dei loro figli. Conosco molte persone che hanno poco meno della mia età e che hanno genitori ovviamente anzianissimi raramente in grado di badare a se stessi. Praticamente non vivono più costretti fra l’accudimento dei vecchi e la loro vita personale.
Inoltre la vecchiaia portata alle sue estreme conseguenze, grazie anche all’accanimento terapeutico, comporta un grave problema sociale ed economico che già oggi è all’ordine del giorno e ancor più lo sarà in futuro: un numero sempre più ristretto di giovani deve accollarsi il mantenimento di anziani sempre più numerosi. La nostra, in Occidente, è una società di vecchi. Diceva lo psicoanalista Cesare Musatti quando aveva novant’anni e quindi era al di sopra di ogni sospetto: “Una società popolata in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore”.
L’allungamento a dismisura della vita che suscita in molti tante speranze, nello stesso Boncinelli che agogna di arrivare a cento anni, è un problema, o meglio un dramma, che era già stato avvertito da Max Weber. In una delle lezioni raccolte nel Il lavoro intellettuale come professione scrive: “Il presupposto della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita…Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”.
Questa fondamentale domanda noi moderni continuiamo a lasciarla in sospeso. E ci attorcigliamo disperatamente, senza arrivare ad alcuna conclusione, intorno a quelli che i filosofi, quando esistevano ancora, hanno chiamato “i nuclei tragici dell’esistenza”: la vecchiaia, il dolore, la morte.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2018