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Sabato pomeriggio nell’ambito di Bookcity Chiarelettere ha presentato al Dal Verme “Anche le parole sono nomadi”, una biografia di Fabrizio De André, un po’ particolare perché contiene anche alcune sue interviste. In sostanza un modo per ricordare questo grande rapsodo nell’imminenza del ventennale della sua morte (11 gennaio 1999).

Paolo Villaggio, genovese anche lui, definiva De André “il più grande poeta del Novecento”, esagerando un po’ come suo solito. Certamente De André non è stato “il più grande poeta del Novecento”, ma altrettanto certamente non è stato semplicemente un cantautore come altri pur grandi della sua generazione (dai genovesi Bindi e Lauzi ai milanesi Jannacci e Gaber) o di altri di quelle successive (De Gregori, Dalla per dire solo di alcuni). E stato un aedo, un rapsodo, un cantore. Nella mia percezione è stato innanzitutto un cantore della morte. E anche dell’amore ma solo in quanto conduce a morte. De André era affascinato, attratto, ossessionato dal fantasma, sempre presente, della morte e ‘la Nobile Signora’ è protagonista in moltissime delle sue canzoni, soprattutto quelle del periodo giovanile: Marinella, lei dopo una giornata sognante scivola nel fiume, Ballata del Michè, lui si impicca per amore, Leggenda di Natale, lui la seduce e lei ne muore, La ballata dell’amore cieco, lui si uccide per lei, indifferente, La canzone dell’amore perduto (“ma più del tempo che non ha età siamo noi che ce ne andiamo”), Si chiamava Gesù, per la morte, senza resurrezione, di Cristo, Preghiera in gennaio, per Tenco suicida e per tutti quelli che si son tolti la vita “perché dei suicidi non hanno pietà”, La ballata dell’eroe, che è morto inutilmente, Fila la lana, lui non tornerà dalla Crociata e lei lo attenderà “per mill’anni ancora”, Il re fa rullare i tamburi (“La Regina ha raccolto dei fiori, la Regina ha raccolto dei fiori, celando la sua offesa, e il profumo di quei fiori ha ucciso la marchesa”), Caro amore (“e il sole e il vento e i verdi anni si rincorrono cantando verso il novembre cui ci stan portando”), sino al definitivo La Morte, che non so quanti avrebbero avuto il coraggio di cantare in un’epoca in cui la morte, la morte biologica, è stata scomunicata e, per parafrasare Oscar Wild, “è il grande vizio che non osa dire il suo nome” in un mondo che, dall’Illuminismo in poi, ha osato proclamare una sorta di ‘diritto alla felicità’.

Fabrizio De André era un aristocratico e un anarchico. E questo suo essere aristocratico spiega anche una buona parte della sua poetica. De André, prendendo da Brassens è attratto dal mondo medievale dove signori e popolino si mescolano (tutte le rivolte vandeane vedono nobili e popolo uniti contro la borghesia che è uno dei principali obbiettivi polemici di De André). Questa sua aristocrazia, che è una aristocrazia dell’animo, chiarisce il suo piegarsi, con pietas, con misericordia, sugli umiliati e offesi, sulle prostitute, insomma sui vinti della vita (“Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli/in quell’aria spessa carica di sale gonfia di odori/lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano/Se tu penserai e giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese/Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo/se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”).

De André era un non credente, uno spregiatore di vescovi, cardinali e Papi, ma era profondamente impregnato di cultura cristiana (Benedetto Croce lo ha detto: “Non possiamo non dirci cristiani”). E’ un esistenzialista (amico fragile, per tutti) ma non nella maniera laica dell’esistenzialismo classico e politico dei Sartre, dei Camus, dei Merleau-Ponty, bensì in un modo che possiamo chiamare religioso. Vede Cristo come uomo e non come figlio di un Dio cui non crede, e non è un caso che una buona parte della sua opera sia coeva a Jesus Christ Superstar in cui viene citato il passo a mio avviso più commovente del Vangelo dove Cristo dubita, umanamente dubita: “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”. E sempre come persone vede Giuseppe e la Madonna ne La buona novella, un’opera di grande portata, Maria è vista come donna, “femmina un giorno, madre per sempre”. E ’il sogno di Maria’, quando lei immagina di essere stata messa incinta dall’Angelo, è un altro straordinario passaggio di poesia e di pietas.

Nella postfazione Erri De Luca scrive che De André non partecipò al Sessantotto ma ammirava da lontano i suoi protagonisti. Niente di più errato. Li disprezzava. Nel Bombarolo canta “intellettuali d’oggi, idioti di domani…profeti molto acrobati della rivoluzione”. Più esplicito di così…

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2018

 

 

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Mentre i giornali italiani si affannavano, e si affannano, a seguire le baruffe chiozzotte di casa nostra, Angela Merkel teneva al Parlamento europeo (non a una riunione di partito, non al Bundestag) un importante discorso sulla linea politica che, a suo dire, dovrebbe seguire l’Europa, una sorta di ‘testamento morale’. Questo discorso è finito a pagina 15 del Corriere della Sera che peraltro è stato l’unico ad essersene occupato.

Cosa ha detto Angela? “Il tempo in cui potevamo contare sugli altri è finito: oggi noi europei dobbiamo prendere il destino nelle nostre mani”. Quegli “altri” sono gli americani come Angela aveva detto in modo più esplicito qualche mese fa in un’occasione meno solenne. La prima cosa da fare, secondo Merkel, è “costruire un vero esercito europeo”. Di questa intenzione, per la verità di lunga data perché già negli anni Ottanta tedeschi e francesi avevano cercato di costituire un primo nucleo di un esercito europeo, tentativo bloccato dagli Stati Uniti, si è accorto, preoccupandosene, anche il Washington Post per la firma di un suo autorevole editorialista, David Ignatius. Adesso, col discorso di Merkel, questo tentativo è diventato ufficiale. Per i soliti motivi (80 basi militari americane, anche nucleari, in Germania, 60, in parte atomiche, in Italia)  Merkel non ha potuto dire a chiare lettere che i Paesi europei che fanno parte della Nato dovrebbero denunciare questo Trattato che è uno degli strumenti con cui gli Stati Uniti hanno tenuto in stato di minorità l’Europa dal punto di vista militare, politico, economico. E, alla fine, anche culturale, per rendersene conto basterebbe guardare i programmi dei film che si danno da noi quasi monopolizzati dalle grandi major yankee. Questa minaccia sottintesa di lasciare la Nato è stata invece avvertita dal Washington Post. Dovrebbero rendersene conto anche gli altri Paesi europei. E Trump ce ne ha dato il destro come scrive  lo stesso Washington Post: “Dal giorno in cui si è insediato Trump ha fatto vacillare la Nato”. Questa occasione poteva, e ancora può, essere colta al volo dall’Unione europea.

Merkel ha anche difeso la sua politica di austerity (“ogni Paese membro rispetti a casa propria le regole di stabilità finanziaria”) tanto contestata da una parte dell’Europa, in particolare dall’Italia. In un intervento a Sky Tg24 Federico Rampini, di Repubblica, ha lodato la politica economicamente espansiva, basata sul gonfiamento del debito e del credito, degli Stati Uniti. Peccato che nessuno gli abbia fatto notare che proprio questo tipo di politica (il debito che finanzia il credito o viceversa) abbia portato nel 2008 alla crisi della Lehman Brothers di cui tutta l’Europa, ma non solo l’Europa, ha pagato e ancora sta pagando le drammatiche conseguenze. Quello che Merkel vorrebbe evitare è proprio di creare una nuova bolla speculativa le cui conseguenze sarebbero ancora più devastanti. Ma se gli americani continuano nella politica tanto lodata da Rampini, e da tutti i Rampini del pianeta, immettendo nel sistema, come hanno fatto, tre trilioni di dollari nella forma del credito, la giusta e saggia politica di Merkel rischia di essere inutile. Come se ne esce? Creando una limitata autarchia europea. L’Unione europea ha popolazione, mercato, potenzialità di consumo e in parte anche risorse per fare da sé. Per quelle che ci mancano, soprattutto nel settore energetico, potremmo rivolgerci alla Russia e all’Iran fottendocene dei diktat unilaterali di Trump. E del resto tutta la politica di Angela Merkel molto poco ben vista dalla Casa Bianca va nella direzione di trovare una posizione di equidistanza fra Stati Uniti e Russia. Per arrivarci l’Europa deve trovare un’unità politica molto più forte di quella che ha ora ed è questo il senso di un’altra frase pronunciata da Angela Merkel al Parlamento europeo: “Per fare qualcosa insieme occorre che ogni Paese ceda un pezzetto di sovranità nazionale”. I deliri ‘sovranisti’ di Salvini and company (e tutte le accuse quotidiane ai ‘burocrati’ della Ue) sono privi di senso. Nessun Paese europeo, tantomeno l’Italia, può resistere da solo ai grandi agglomerati politici, economici, militari, dagli stessi Stati Uniti alla Russia alla Cina all’India e persino al Brasile e al Sudafrica, e alle grandi organizzazioni speculative governate da mani anonime (chiamiamole ‘anonime’ per non essere immediatamente sommersi dall’accusa di antisemitismo e finire, democraticamente, al gabbio) i famosi ‘mercati’ che possono non solo condizionare pesantemente le politiche nazionali ma spezzare in un sol giorno, con un improvviso spostamento di enormi capitali finanziari, le reni a un Paese. Quindi come ha detto Merkel: o l’Europa si salva insieme o perisce insieme.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2018

 

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Credo che nella prossima legislatura i Cinque Stelle dovranno essere molto più attenti nel selezionare i propri candidati per la Camera e il Senato. Nelle prime due, essendo un movimento nuovo, hanno dovuto imbarcare ‘n’importe quoi’ purché avesse la fedina penale pulita. Così nelle elezioni del 2018 si sono fatti affascinare da Gregorio De Falco, famoso e popolarissimo per la frase diretta al comandante Schettino: “Torni a bordo, cazzo!”. Non c’era alcun bisogno di fare il fenomeno, umiliando un uomo già umiliato e che con tutta evidenza non era più in grado di agire. Quello che doveva fare De Falco, come capo sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno, era inviare un elicottero (da Livorno all’Argentario ci vogliono 15 minuti) con a bordo un paio di ufficiali di Marina che scendessero sulla nave e prendessero il controllo della situazione. Non lo fece, accontentandosi di quella inutile e maramaldesca esibizione. Un comandante di una di queste grandi navi, che nella sua lunga carriera non aveva avuto incidenti di rilievo, senza voler difendere l’indifendibile Schettino ma evidentemente rivolto a De Falco, disse: “C’è chi va per mare e chi sta a terra”. E De Falco è uno che nella sua carriera è sempre stato a terra. De Falco si aspettava chissà quale promozione. Invece il suo atteggiamento non piacque affatto, e a nostro avviso giustamente, al Comando generale della Marina mercantile che nel 2014 lo trasferì alla Direzione Marittima di Livorno con le mansioni di capo ufficio studi e relazioni esterne. Fu relegato a un ruolo meramente burocratico, una decisione punitiva tanto che De Falco fece ricorso, ma inutilmente.

De Falco è un uomo che va per terra, molto per terra. Tanto che colse subito l’occasione, approfittando dell’indebita popolarità acquisita, e si fece candidare al Senato dai Cinque Stelle e fu eletto.

Adesso Gregorio De Falco, che a me pare un uomo molto più attento a se stesso che ai valori dei Cinque Stelle, si è messo di traverso contro il Movimento in cui milita (o militava, nel momento in cui scriviamo non sappiamo se è stato espulso) in tre occasioni: sul decreto Sicurezza, sull’emendamento al dl Genova per il quale ha votato contro insieme a Forza Italia e al Pd, sull’articolo 41 che riguarda lo sversamento dei fanghi da depurazione.

E’ vero che la nostra Costituzione all’articolo 67 dichiara: “Ogni membro del Parlamento…esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Questa disposizione fu presa dai nostri Padri costituenti perché ogni parlamentare potesse votare in piena libertà di coscienza. Ma allora i partiti non avevano ancora occupato, del tutto arbitrariamente come abbiamo scritto più volte, buona parte del sistema democratico. Bisogna quindi prendere atto della realtà: la libertà di voto, in linea teorica sacrosanta, si è trasformata nel disinvolto passaggio di un parlamentare da un gruppo all’altro, come abbiamo visto tante, troppe volte, spesso in modo prezzolato (il caso De Gregorio, comprato da Berlusconi con 3 milioni di euro per sottrarlo al gruppo di Antonio Di Pietro, docet). Per evitare queste situazioni i Cinque Stelle si sono dati regole rigidissime sul comportamento dei loro parlamentari che devono seguire la linea politica e le direttive del Movimento, pena il richiamo, la sospensione e l’espulsione. Si può discutere molto su queste regole dei Cinque Stelle, ma quando De Falco è entrato a far parte del movimento fondato da Beppe Grillo le conosceva benissimo e non può ora darsela da martire. Adesso la questione è questa: se Gregorio De Falco, come crediamo, sarà espulso dal Movimento politico che lo ha portato in Parlamento, si dimetterà dal Parlamento, come coerenza vorrebbe, lasciando il posto a chi ha diritto a subentrare? Non crediamo proprio. De Falco è “un uomo di terra”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2018