I cinque presidenti americani che hanno preceduto Trump si sono riuniti per raccogliere fondi per le vittime degli ultimi uragani. Queste ‘Dame di San Vincenzo’ made in Usa avrebbero fatto meglio a contare le vittime civili che hanno provocato durante la loro presidenza e a ripensare ai disastri politici che hanno combinato. Non tutti per la verità. Il democratico Jimmy Carter fu un presidente pacifico e pacifista. Invece l’altrettanto democratico Bill Clinton aggredì la Serbia contro la volontà dell’Onu e senza alcuna seria ragione. La Serbia era alle prese con un conflitto interno: gli albanesi del Kosovo, divenuti maggioranza, avevano creato un movimento indipendentista armato (armato dagli Usa) che come avviene in ogni lotta di liberazione faceva uso del terrorismo, la Serbia difendeva l’integrità dei propri confini. C’erano due ragioni a confronto che avrebbero dovuto essere risolte dai contendenti senza alcun peloso intervento esterno. Invece intervennero gli Usa da diecimila chilometri di distanza e che dopo il tentativo di accordo di Rambouillet, che la Serbia non poteva accettare perché avrebbe significato la sua fine come Stato sovrano, decisero che le colpe stavano solo dalla parte dei serbi, e bombardarono per due mesi quel Paese. Risultati. 5.500 morti civili di cui 500 erano albanesi cioè proprio coloro che si pretendeva difendere. Oggi il Kosovo è ‘libero’, ma al prezzo della più grande pulizia etnica dei Balcani: dei 360 mila serbi che vivevano in Kosovo ne sono rimasti solo 60 mila. E’ vero che oggi in Kosovo gli americani hanno la loro più grande base militare al mondo, ma in questo modo hanno favorito, contro la Serbia ortodossa di Milosevic che faceva da ‘gendarme’ dei Balcani, la componente musulmana dove oggi sono ben incistate cellule Isis, mentre la criminalità comune (droga, traffico di armi e di esseri umani) è aumentata in modo esponenziale. Inoltre dopo il precedente del Kosovo, che dagli Stati Uniti è lontanissimo, riesce un po’ difficile contestare alla Russia di essersi annessa i territori russofoni ai suoi confini.
Qualche attenuante ha invece Bush senior, repubblicano: Saddam Hussein aveva aggredito il Kuwait, Stato sovrano rappresentato all’Onu (anche se, per la verità, il Kuwait è uno Stato fantoccio creato dagli Stati Uniti nel 1960 per i loro interessi petroliferi). Le perplessità, per chiamarle così, vengono dal modo in cui gli americani condussero quella guerra. Invece di affrontare fin da subito, sul terreno, l’imbelle esercito iracheno che era stato battuto persino dai curdi e per salvare il rais di Bagdad dovette intervenire la Turchia (e quanto imbelle sia questo esercito lo si è visto anche di recente a Mosul e a Raqqa) bombardarono per tre mesi Bagdad e Bassora facendo 157.971 vittime civili di cui 32.195 bambini.
E’ stato poi il figlio George W. Bush, repubblicano, a inventarsi la teoria totalitaria che gli Sati democratici avevano non solo il diritto ma anche il dovere di esportare, a suon di bombe, la democrazia in quelli che democratici non erano. La guerra all’Afghanistan talebano è stata, e continua a essere, una guerra puramente ideologica. C’era stato, è vero, nel frattempo l’11 settembre. Ma i fatti hanno poi dimostrato in modo inequivocabile che i Talebani con l’abbattimento delle Torri Gemelle non avevano niente a che fare. La teoria Bush si è poi estesa all’Iraq (2003) e col democratico Obama alla Libia (2011). In Iraq le conseguenze, umane e politiche, sono state devastanti. I morti causati, direttamente o indirettamente, dall’intervento americano vanno dai 650 ai 750 mila. Inoltre gli americani, che avevano sempre combattuto gli iraniani e che nella guerra Iraq-Iran erano intervenuti per impedire agli uomini di Khomeini la vittoria che si erano conquistati sul campo, con la guerra all’Iraq hanno consegnato agli iraniani, che non hanno dovuto sparare nemmeno un colpo, tre quarti dell’Iraq. La tragedia libica, Obama presidente, è sotto gli occhi di tutti.
In Siria c’era una rivolta contro Assad. Anche qui, come in Serbia, era una questione interna a quel Paese. Sono intervenuti gli americani, con i soliti bombardieri e droni, il che ha permesso ai russi di inserirsi nel conflitto. I morti di questa tragedia li conteremo alla fine se avrà una fine.
L’avventurismo americano è stato seguito con fedeltà canina dagli europei (con qualche eccezione: Angela Merkel) e si è rovesciato puntualmente sul Vecchio Continente. L’aggressività americana nei confronti del mondo musulmano ha partorito l’Isis che nonostante le sconfitte a Mosul e a Raqqa non è affatto finito, è anzi più pericoloso che mai per noi europei perché i foreign fighters stanno rientrando. Inoltre è sulle coste del Vecchio Continente, in particolare quelle italiane, che si riversa parte dei migranti che fuggono dalle guerre innescate dagli Stati Uniti. Se i presidenti americani che si sono riuniti per fare le ‘anime belle’ siano più cinici o più cretini non sapremmo dire. Quel che è certo è che noi europei siamo stati solo cretini.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2017
Salendo sul carro di una sentenza che ha condannato il Comune di Brescia a risarcire due residenti che si sono ritenuti danneggiati dagli schiamazzi provocati dai giovani all’uscita di alcuni locali del centro, il sindaco di Firenze Nardella, che non avrà fatto il boyscout come Matteo Renzi ma ne respira la stessa aria perbenista e ipocrita, già noto per essere stato il primo in Italia ad aver introdotto il reato di prostituzione, ha intenzione di inasprire i provvedimenti anti movida: divieto di vendita di alcol d’asporto e blocco di tre anni per i nuovi locali e i minimarket che dal 6 maggio scorso ha bloccato l’apertura di 54 nuovi bar. Dichiara Nardella: “ Il combinato disposto tra Brescia e la circolare Minniti indica la strada per misure sempre più restrittive”.
Il divieto di aprire nuovi locali rischia di dividere la città in settori, in ghetti, alcuni destinati alla movida e altri invece off-limits, e quindi i ragazzi non possono più scegliersi i luoghi del divertimento secondo il loro gusto e istinto ma devono radunarsi in qualcosa che somiglia a dei campi di concentramento decisi dall’Autorità (misure degne della Cina di Xi Jinping). Questa storia dei ghetti sta già cercando di introdurla l’assessore al Commercio di Torino, Alberto Sacco, che insegue l’ambizioso, quanto paranoico, progetto di “una vita notturna divisa per distretti enogastronomici”.
Dovrebbe essere arcinoto che il proibizionismo, come certe medicine, provoca effetti paradossi, cioè opposti al fenomeno che si vuole contrastare. Negli Stati Uniti, nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale, sotto la spinta di nobili e pie intenzioni (i promotori erano soprattutto dei religiosi integralisti) si bandì la vendita di alcol per una quindicina d’anni. Risultato: consumo di alcol, acquistato al mercato nero, in ascesa verticale insieme alla criminalità legata al mercato proibito. Quando in Unione Sovietica Gorbaciov (“distruggi un Impero e andrai a Sanremo”) salì al potere si mise in testa di limitare il consumo di vodka dei russi: nei ristoranti non si poteva servire vodka prima delle due del pomeriggio e la vendita negli spacci era limitata dalle due alle quattro. Risultato: fino alle due i ristoranti erano vuoti e dalle due alle quattro, intorno agli spacci, si creavano lunghissime file che si attorcigliavano, per interi isolati, intorno ai brutti grattacieli della nuova Mosca costruita da Stalin, e all’uscita dello spaccio il fortunato che era riuscito a procurarsi le tre bottiglie di vodka consentite le distribuiva agli amici e tutti insieme andavano allegramente a ubriacarsi nel primo giardinetto disponibile.
A parte il fatto che non è che i ragazzi prendano la bottiglia e se la vadano a bere chissà dove ma, soprattutto d’estate, si bevono il bicchiere appena fuori dal locale (si vada a dare un’occhiata al Cocoricò, il più famoso locale che sta fra Rimini e Riccione) bisognerebbe capire che i nostri giovani, privi ormai, e con buone ragioni, di passione politica, di idee per cui valga la pena battersi e ai quali è negata qualsiasi azione che esca dagli infiniti regolamenti, ordinanze, diktat, hanno bisogno, come vuole la vitalità della loro età, di un qualche sfogo. Noi adulti siamo diventati troppo insofferenti, nevrotici non sopportiamo alcun rumore: il bimbo del vicino che piange, il cane che ci zampetta sopra la testa, quello che abbaia, figuriamoci gli schiamazzi della movida. Credo che dovremmo, tutti, fare un bello stage in Siria o nel Kurdistan o in Afghanistan.
Comprimere la vitalità dei giovani, e la movida in assenza d’altro è un modo per esprimerla, può portare solo in due direzioni: o se ne fa degli smidollati, operazione già abbondantemente riuscita, o li si induce alla violenza vera. Non si può stare in pantofole a vent’anni.
L’aggressività è un elemento della vitalità e non può essere eliminata del tutto, si può solo canalizzarla in modo che non superi un certo livello di guardia. Volendo creare una società perfettina, asettica, sempre più astratta (oggi un ragazzo non può più nemmeno sfogarsi allo stadio, c’è “la discriminazione territoriale”) noi abbiamo dimenticato alcuni elementari che erano ben presenti alle civiltà che hanno preceduto la nostra ma che sono riconosciuti anche dalla moderna psicanalisi. Si potrebbero fare infiniti esempi di come alcune civiltà che noi riteniamo rozze e primitive riuscissero senza negarla a tenere l’aggressività sotto controllo. Ma ci limitiamo alla Grecia antica e all’istituto del ‘capro espiatorio’. Il ‘capro espiatorio’ era uno straniero o un meteco che veniva mantenuto e ben nutrito dalla polis. Quando in città, per qualche ragione, si creavano delle tensioni il ‘capro espiatorio’ veniva sacrificato per concentrare su di lui l’aggressività che stava pericolosamente emergendo. Come si chiama in greco il ‘capro espiatorio’? Si chiama pharmakos, medicina.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2017
Nel lontano 1991 sul New York Times il giornalista americano William Safire scriveva: “Svendere i curdi…è una specialità del Dipartimento di Stato americano”. Sono passati quasi trent’anni e nulla è cambiato anche se oggi “svendere” i curdi non è più solo una specialità degli Stati Uniti ma anche di molte altre potenze regionali.
I curdi con i famosi peshmerga, grandi guerrieri, sono stati determinanti per la sconfitta del Califfato non solo a Mosul e a Raqqa, dove erano direttamente interessati perché si trovano in un territorio che si chiama Kurdistan, ma anche a Sirte in Libia. Ma, come avevo avvertito in vari articoli del Fatto, non solo non raccoglieranno i frutti della loro vittoria ma verranno penalizzati. E’ appena caduta Raqqa che già ce ne sono le prime avvisaglie. L’altro giorno a Kirkuk dieci peshmerga sono stati decapitati, probabilmente dalle forze della Turchia che ha sempre combattuto in modo sanguinario l’indipendentismo curdo. In un bel reportage Adriano Sofri, che è sul posto, riferisce che truppe appoggiate dagli americani e alla cui guida c’è il comandante dei pasdaran iraniani si sono impadronite di Kirkuk, importante città petrolifera che fa parte della regione autonoma curda in Iraq. Insomma la regione autonoma curda viene riportata ai confini del 2003 quando in Iraq regnava ancora Saddam Hussein.
I curdi sono sempre stati una spina nel fianco in questa parte del Medio Oriente perché la loro regione di cui sono i legittimi abitanti, non per niente si chiama Kurdistan, è arbitrariamente incorporata in vari Stati, Turchia, Iraq, Iran, Siria e, in misura minore, Azerbaigian. Tutti questi Stati vedono il legittimo indipendentismo curdo come fumo negli occhi. In particolare l’Iraq e, soprattutto, la Turchia in cui vivono più di 13 milioni di curdi, circa un sesto della popolazione. Nel 1984 fra Iraq e Turchia, una Turchia ‘laica’ non ancora in mano a Recep Tayyip Erdogan (figuriamoci ora) fu concluso un patto leonino che consentiva ai rispettivi eserciti di inseguire al di là dei confini i ribelli curdi. Nel 1988 Saddam Hussein usò le ‘armi chimiche’, fornitegli dagli americani, dai francesi e, via Germania Est, dai sovietici, su Halabaja ‘gasando’ in un sol colpo tutta la popolazione di quella cittadina, 5.000 persone circa. Ma questo è solo l’episodio più noto. Si calcola che Saddam abbia ‘gasato’ circa 30.000 curdi iracheni e abbia raso al suolo 3.000 dei circa 4.500 villaggi curdi in territorio iracheno. Spazzato via Saddam Hussein i curdi iracheni avevano finalmente raggiunto l’autonomia del proprio territorio che comprende la fondamentale città di Kirkuk. E adesso è proprio Kirkuk che viene loro sottratta da quegli Stati che nella lotta al Califfato li hanno usati come alleati. Anche in Iran, sia quello dello Scià sia quello degli ayatollah, le prigioni sono sempre state zeppe di curdi. E così nella Siria di Assad.
Il fatto è che i curdi non hanno santi in paradiso (tutti i fatti che abbiamo fin qui raccontato sono avvenuti nel complice silenzio, quando non con la connivenza, della cosiddetta comunità internazionale) non sono arabi, non sono ebrei, non sono cristiani, sono un antichissimo, millenario, popolo tradizionale, indoeuropeo. E, come spesso è in questi popoli, sono anche molto ingenui. Spendendo generosamente il loro sangue in favore nostro e degli altri Stati della regione, se è vero che l’Isis è considerato il maggior pericolo per la comunità internazionale, si illudevano di esserne in qualche modo ripagati. Invece, dopo la breve parentesi della lotta al Califfato, contro di loro si ritorna alle pratiche di sempre. Anche secondo il Washington Post “i curdi si sono impegnati nella lotta all’Isis senza ricevere nulla in cambio”. Se pensiamo all’antico articolo di William Safire sul New York Times vediamo che questa sporca storia si ripete. Dopo essere stati cinicamente usati ora i curdi vengono, altrettanto cinicamente, mazziati e beffati.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2017