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Colpisce l’enorme giubilo con cui, oltre ai partiti, tutti i giornali hanno accolto lo scivolone, ammesso che tale sia, della giunta Raggi. La sintesi delle pagine e pagine che da giorni tutti i giornali, e in particolare quelli che Travaglio chiama ‘i giornaloni’, può essere definita così: vedete i grillini sono come gli altri, sono marci come tutti noi. Scriveva su La Repubblica (8/9), che non è un giornale normale ma un giornale di partito però mascherato, quindi il peggio del peggio del peggio, l’indimenticabile Francesco Merlo, sintetizzando efficacemente questo sentimento di giubilo: “Una bugia li ha fatti definitivamente entrare nella Storia d’Italia”. Evviva, e pensare che noi speravamo di uscire da questa infame storia, infame almeno dagli anni in cui il Pci finì di fare opposizione consociandosi al potere e aprendo la strada a ogni sorta di abusi che fino al breve periodo di Mani Pulite rimasero impuniti per poi tornare in grande stile. Scriveva il direttore de Il Giornale (7/9) Alessandro Sallusti: “E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni”. E’ chiaro che questa destra che si fa fatica a chiamar tale perché la Destra è stata una cosa seria, anche se oggi è una categoria politica superata come superata è la Sinistra (forse l’unica che interpreta i sentimenti della vera Destra è Giorgia Meloni) non appena sente la parola ‘onestà’, che sarebbe meglio sostituire con ‘legalità’, fa il ponte isterico, cade in deliquio, si contorce come l’indemoniato davanti all’esorcista. In particolare questa è una assoluta necessità per Sallusti e il suo giornale, il cui proprietario è stato condannato in via definitiva per frode fiscale e definito dal Tribunale di Milano “delinquente naturale” che è qualcosa di più del ‘delinquente abituale’ perché è uno che delinque anche quando non ne ha alcun bisogno. E teniamo questa come sintesi, lasciando da parte tutto il resto che riguarda non solo Berlusconi ma infiniti esponenti della cosiddetta destra.

Tuttavia i Cinque Stelle un errore lo hanno commesso e ha a che fare solo indirettamente col ‘caso Muraro’. In un Paese marcio fino al midollo hanno spinto la loro ansia di moralità troppo oltre (anche se questo è il sentimento di una parte enorme dei cittadini, anche di coloro che non votano Cinque Stelle, basta pensare all’astensionismo che è arrivato vicino al 50 %) schiacciando sull’acceleratore come il primo Vasco Rossi. Mi ha detto una volta Don Giussani “l’errore è una verità impazzita”. Tradotto nella situazione che stiamo vivendo oggi, un principio, anche il più giusto dei princìpi, come quello della richiesta di moralità, spinto alle sue estreme conseguenze diventa un errore. Diceva il vecchio e saggio Nenni: “Anche il più puro dei puri alla fine trova uno più puro di lui che lo epura”. Questi non sono affatto puri, sono anzi marci, ma così hanno avuto buon gioco a mettere sullo stesso piano una leggerezza con i loro crimini decennali, penali e politici. Marco Travaglio che puro, in questo senso, lo è davvero, è un calvinista giansenista di marca torinese, li segue con il suo giornale su questa strada. Io no. Perché mi sono stufato, dopo quarant’anni, di una correttezza e di una coerenza intellettuale portata anch’essa alle sue estreme conseguenze che finisce solo per fare il gioco dei furfanti.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2016

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Bisognava aspettarselo. Dal primo giorno in cui si è insediata in Campidoglio la giunta di Virginia Raggi è entrata nel mirino di tutti i politici, di tutte le Tv, di tutti i giornali, di tutti i pennivendoli che operano in questo Paese a difesa del potere che esercitano da decenni. Da allora non c’è stato giorno in cui tutti i giornali non parlassero della monnezza di Roma e dei topi di Roma come se tutto ciò fosse responsabilità della Raggi e non di chi aveva governato Roma nei decenni precedenti. Eppure, almeno in questo campo, in meno di due mesi la giunta Raggi ha fatto qualcosa. Lo stesso principe del foro degli Azzeccagarbugli, Pier Luigi Battista, sul Corriere del 2/9 descriveva “lo stupore di molti romani che tornando dalle vacanze hanno visto la città più pulita e i cassonetti meno intasati di schifezze”. Bene, direbbe uno. E invece no. Battista, entrando nel cervello dei romani, aggiunge che costoro “si sono chiesti increduli e scettici: durerà?”. Se i romani avessero trovato la situazione di prima Battista avrebbe scritto che la Raggi non aveva fatto niente. Poiché qualcosa ha fatto rilancia che non lo farà in futuro. E’ il classico ‘letto di Procuste’ in cui Battista, come tutti gli innumerevoli Battista di questo Paese, è specializzato.

Bisognava aspettarselo. Sta accadendo quello che è accaduto alla prima Lega di Bossi quando nel 1992 si affacciò alla ribalta politica prendendo un voto quasi plebiscitario al Nord, cioè nella parte economicamente trainante del Paese, e rompendo così, sull’onda delle inchieste di Mani Pulite, il consociativismo (Dc+Psi+Pci+frattaglie repubblicane e liberali) che aveva dominato nei decenni precedenti nella più assoluta impunità per la propria dilagante corruzione. Tutti i politici, tutte le Tv, tutti i giornali, escluso l’Indipendente di Vittorio Feltri, intuendo il pericolo si gettarono a corpo morto contro la Lega con una violenza che non avevano riservato nemmeno alle Brigate rosse. La Lega di Bossi, come oggi i Cinque Stelle, non era né di destra né di sinistra ma avendo preso i voti solo al Nord aveva l’esigenza di allearsi con qualcuno. Bossi scelse Berlusconi che si presentava, almeno all’apparenza, come ‘homo novus’. Ma accortosi di che pasta era fatto realmente il Cavaliere in un memorabile e lucidissimo discorso alla Camera del 21 dicembre del 1994, il suo migliore in assoluto, fece cadere il Governo Berlusconi. Quel discorso si chiudeva così: “Oggi finisce la Prima Repubblica”. S’illudeva, il povero Umberto. Nel giro di due anni tutti i protagonisti di quella che impropriamente è stata chiamata ‘la rivoluzione italiana’ furono in un modo o nell’altro eliminati. Antonio Di Pietro fu sottoposto a sette inchieste da cui uscirà assolto (ma che importa), lo straordinario pool di Mani Pulite, Borrelli, Boccassini, Colombo, Davigo fu delegittimato, Feltri fu comprato da Berlusconi, Giancarlo Funari, che era stato anch’egli determinante, emarginato e la Lega di Bossi inglobata e innocuizzata. E tutto continuò come prima, addirittura peggio di prima come abbiamo potuto vedere.

E torniamo all’oggi. Al cosiddetto ‘caso Muraro’. La Muraro, allo stato, è stata semplicemente inserita nel registro degli indagati e non ha ricevuto nemmeno un avviso di Garanzia. I Cinque Stelle si trovano oggi in difficoltà non per oscuri conciliabili che avrebbero tenuto al loro interno, ma al contrario per un eccesso di trasparenza. L’unica colpa che si può addebitare, allo stato, alla Muraro - e lo fa anche Marco Travaglio- è di non aver detto la verità in alcune interviste. Eh no, caro Marco, vale qui quello che dissi ad Antonio Di Pietro, che all’epoca delle inchieste di Mani Pulite, intuendo il pericolo di una loro personalizzazione, non avevo quasi mai nominato, quando mi chiese l’introduzione al suo monumentale libro di difesa Memoria. Gli chiesi: “Perché non è entrato in politica quando si tolse la toga? In quel momento avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi” (gli davo del lei, non mi ero strusciato al pm quando era al massimo della sua popolarità come facevano moltissimi e importanti giornalisti, a cominciare da Paolo Mieli che intitolò un suo editoriale “Dieci domande a Tonino”, come se ci fosse andato a pranzo e cena a Montenegro di Bisaccia). Rispose: “Non sarebbe stato corretto”. Replicai: “Non si può lottare con un braccio legato dietro la schiena contro chi non solo gli usa tutti e due e in più aggiunge anche il bastone”. E lo stesso vale ora. Non si può mettere sullo stesso piano una leggerezza con gli innumerevoli crimini compiuti dalla classe dirigente italiana. E fa schifo, solo schifo, che le accuse ai Cinque Stelle vengano da un partito, il Pd, che ha una pletora di indagati, condannati o prescritti in Parlamento e 102 indagati nei Consigli regionali. Del resto il giochetto di sinistra e destra perennemente alleate contro chi può insidiare il loro potere è di attaccarlo, a seconda delle evenienze, da destra o da sinistra.

Quindi non vale affatto, caro Marco, la frase che tu attribuisci a Talleyrand: “E’ stato peggio di un crimine. E’ stato un errore”. Vale invece qui il verso del Vangelo: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Questi dovrebbero stare zitti, assolutamente zitti, almeno per un’eternità, se non vogliono che la rabbia dei cittadini, canalizzata democraticamente dai Cinque Stelle, si traduca in una violenza che non farà prigionieri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2016

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Furio Colombo in un articolo pubblicato dal Fatto qualche giorno fa ci chiede se ci ricordiamo che cosa stavamo facendo alle 14:45 (ora italiana) dell’11 settembre 2001. Io lo ricordo bene. Dormivo, dopo una notte balorda. Mi svegliò lo squillo del telefono. Era un’amica: “Stanno bombardando New York. Accendi la Tv”. Accesi e vidi quello che più o meno tutti abbiamo visto, fino al collasso delle Torri. Non provai né costernazione né fui preso dalle isterie Fallaci style (“Oh God! Oh my God!”) che poi diventeranno il tema de La rabbia e l’orgoglio. Nella mia testa aleggiavano piuttosto i pensieri che poco dopo il filosofo francese Jean Baudrillard avrebbe messo sulla carta con crudezza, con lucidità e con grande coraggio (e ce ne voleva davvero tanto in quel momento): “che l’abbiamo sognato quell’evento, che tutti senza eccezioni l’abbiamo sognato – perché nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone – è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo” (Lo spirito del terrorismo, 2002).

Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non potevo essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo nel momento in cui il fatto era avvenuto. Eppure ho provato anch’io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano. Pensavo però che gli americani, colpiti per la prima volta sul loro territorio e che per mezzo secolo avevano colpito, con tranquilla e spietata coscienza, nei territori altrui, che negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale bombardarono a tappeto Lipsia, Dresda, Berlino col preciso scopo di uccidere milioni di civili perché, come dissero esplicitamente i comandi politici e militari statunitensi dell’epoca, bisognava “fiaccare la resistenza del popolo tedesco”, che avevano sganciato una terrificante Bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell’Atomica erano diventati evidenti e che nel dopoguerra avevano fatto centinaia di migliaia di vittime innocenti in ogni angolo del pianeta, capissero la lezione. Capissero cioè che cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli distrutti d’un sol colpo lasciando sul terreno migliaia o decine di migliaia di morti. Invece il cowboy stordito da quel colpo imprevisto, rialzatosi cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l’Afghanistan (per la verità il Washington Post e il New York Times – libertà dei giornali americani rispetto a quelli italiani che sono sempre più realisti del re – rivelarono in seguito che i piani per l’aggressione all’Afghanistan e all’Iraq erano pronti da mesi e del resto era circa da un anno che il Pentagono trafficava con il leader dei Tagiki, Massud, per preparare l’invasione dell’Afghanistan).

Non c’era nessuna seria ragione per attaccare l’Afghanistan talebano. Bin Laden? L’ambiguo califfo saudita i Talebani se l’erano trovato in casa, ce l’aveva portato il nobile Massud, che in Occidente gode di grande considerazione, perché lo aiutasse a combattere un altro ‘signore della guerra’, Gulbuddin Hekmatyar, suo storico avversario. E quando nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva proposto al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, che Omar disprezzava e definiva “un piccolo uomo”, il capo dei Talebani si era dichiarato disponibile purché fossero gli americani a assumersi ufficialmente la responsabilità dell’assassinio. Perché Bin Laden godeva di un certo prestigio in Afghanistan dato che con le sue ricchezze personali vi aveva costruito infrastrutture, strade, ponti, ospedali (cioè quello che avremmo dovuto in seguito fare noi e non abbiamo fatto). Comunque all’ultimo momento Clinton, da cui pur partiva la proposta, si era tirato inspiegabilmente indietro. Non c’era un afghano nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre. C’erano arabi sauditi, tunisini, egiziani, giordani, yemeniti, ma non afghani. Inoltre, durante i 14 anni di resistenza agli eserciti occupanti i Talebani hanno sempre colpito obiettivi militari e politici, non i civili se non per gli inevitabili ‘effetti collaterali’. Recentemente, il 24 agosto a Kabul, è stata attaccata l’università americana (American University of Kabul) dove studiano molti studenti afghani. I Talebani non solo hanno smentito di essere i responsabili ma hanno dichiarato che apriranno un’inchiesta su questo attentato che ha causato una quindicina di morti. Temono infatti che tra le loro file si siano infiltrati elementi dell’Isis che gli occidentali stano ottusamente favorendo combattendo i Talebani, che per quanto sunniti, sono acerrimi nemici di Al Baghdadi invece che gli uomini del Califfo. E, sia detto di passata, nel codice di comportamento dei guerriglieri talebani, dettato dal Mullah Omar nel 2009, è escluso l’utilizzo di bambini in guerra e tantomeno come kamikaze.

Ma questa è storia dell’oggi. Torniamo a quanto accadeva immediatamente dopo l’11 settembre. Gli americani che avevano già portato i loro bombardieri nelle basi dell’alleato Pakistan pretesero dal governo talebano la consegna di Bin Laden. Il governo talebano chiese che gli americani fornissero delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden era alle spalle dell’attentato alle Torri Gemelle e di quelli avvenuti nel 1998 in Kenya e Tanzania. Come avrebbe fatto qualsiasi altro governo e come sta facendo il governo americano a proposito della richiesta turca di estradizione di Gülen. Gli americani risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. E fu la guerra.

Leggo nelle cronache rievocative di oggi un certo disprezzo per la scarsa resistenza che i Talebani opposero all’invasione americana. Per forza. I Talebani sul terreno si trovavano di fronte uomini di pari valentia guerriera, i Tagiki di Massud (che nel frattempo era stato assassinato proprio dagli americani per i motivi che ho spiegato nella mia biografia del Mullah Omar) ma dal cielo le loro linee erano costantemente bombardate da diecimila metri d’altezza dai B52. Si ritirarono a Kandahar, la loro storica roccaforte. Ma responsabilmente il Mullah Omar decise la resa, liberando i suoi uomini da ogni impegno, perché i caccia americani bombardavano la città a tappeto, come sempre a chi cojo cojo, distruggendo anche i parchi giochi dei bambini. A quel punto americani e inglesi, che erano anche loro della partita, cominciarono la caccia a Omar su cui pendeva una taglia, allora, di 50 milioni di dollari. Tutti pensavano che Omar fosse intrappolato a Kandahar. Invece era riuscito a sgusciare dall’assedio la notte stessa in cui aveva dichiarato la resa insieme a 1.500 fedelissimi rifugiandosi nel territorio, i Monti Neri sopra Bagram, controllato da un capo tribale, Walid. Individuato finalmente dopo un mese grazie ai satelliti, gli inglesi, a cui era stato dato questo compito, ne chiesero la consegna a Walid. Walid traccheggiò per un paio di giorni consentendo al Mullah Omar quella famosa fuga in moto che per me resta l’ultimo, e forse unico, atto romantico delle sordide guerre ‘post eroiche’ e ‘asimmetriche’ che stiamo combattendo da quindici anni.

Con pazienza il Mullah Omar ritesse la sua tela e diede inizio alla resistenza contro gli occupanti stranieri. Qui c’è da sfatare una leggenda, o meglio ancora una balla, in cui cadono anche sperimentati commentatori e inviati occidentali. E cioè che l’indipendentismo talebano sia stato foraggiato dal Pakistan o addirittura che sia un’emanazione dell’Isi, il servizio segreto pakistano. Se così fosse almeno un missile Stinger terra-aria i Talebani lo avrebbero (quei missili che, forniti dagli americani, costrinsero al ritiro i sovietici). È evidente infatti che le difficoltà del movimento indipendentista talebano-afghano derivano da non avere una contraerea. Quando, recentemente, hanno conquistato la città di Kunduz i bombardieri della Nato l’hanno quasi rasa al suolo colpendo anche l’ospedale di Medici senza frontiere, come qualcuno ricorderà. Inoltre il 5 maggio 2009 l’esercito pakistano lanciò un attacco di violenza inaudita, senza precedenti anche per i livelli di questi Paesi turbolenti, nella valle di Swat su ordine del generale americano David Petraeus. L’attacco aveva l’obiettivo di uccidere tutta la dirigenza talebana, Mullah Omar in testa, che si pensava fosse nascosta da quelle parti. Quanti siano stati i morti non si sa. Si sa invece che i profughi da Swat furono due milioni. I giornali italiani titolarono: “Due milioni in fuga dai Talebani”. Invece fuggivano dall’esercito pakistano. Di questo genere sono le informazioni che si danno sull’Afghanistan e questo è l’aiuto che il Pakistan ha fornito al movimento talebano.

L’aggressione all’Afghanistan è, per parafrasare Saddam Hussein, ‘la madre’ di tutto ciò che è successo dopo. Gli afghani non sono arabi, sono un antico popolo tradizionale, come i curdi, ma sono pur sempre musulmani. L’aggressione all’Afghanistan, con le successive umiliazioni, sevizie e torture subite dai guerriglieri talebani a Guantanamo ha infiammato l’immaginario del mondo arabo, o almeno di parte di esso. Lo dicono quelle tute arancioni che gli uomini dell’Isis fanno indossare ai loro prigionieri prima di decapitarli com’è documentato da quei loro atroci video. E arancioni erano le tute in cui a Guantanamo gli americani costringevano i prigionieri afghani.

All’inizio quindi c’è l’Afghanistan. Poi ci sono stati l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, l’attacco alla Somalia degli shabaab, per interposta Etiopia, del 2006/2007, l’attacco alla Libia del 2011.

L’11 settembre di quest’anno non starò quindi ad ascoltare compunto la lettura dei nomi delle quasi tremila vittime delle Torri Gemelle che si fa ogni anno a Ground Zero. I morti civili provocati direttamente o indirettamente dagli americani e dai loro alleati dopo l’11 settembre assommano a circa un milione. A nominarli tutti uno per uno, ammesso che un nome questi ce l’abbiano, ci vorrebbero quindici anni. Esattamente il periodo di tempo che passa dall’aggressione all’Afghanistan ad oggi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2016