«Fusse che fusse la vorta bbona» diceva in una Canzonissima del 1960 Nino Manfredi nella parte di un barista incazzato. E se fosse davvero venuto il momento della caduta di un regime delegittimato, di una democrazia espropriata dai partiti che, esorbitando completamente dal ruolo loro assegnato dalla Costituzione, hanno occupato ogni spazio costituendosi in lobbies clientelari, corrotte, corruttrici e sostanzialmente mafiose? Le manifestazioni, per ora pacifiche, che si stanno svolgendo in tutta Italia, da Ventimiglia a Palermo, hanno la peculiarità di non essere targate, di non aver il cappello di nessun partito nè del sindacato. Sono agricoltori, 'padroncini' di Tir, artigiani, commercianti, ambulanti, lavoratori autonomi. Uomini e donne qualunque ridotti a sudditi che non si sentono rappresentati da nessuno. Ma il segnale più inquietante per gli uomini del Potere e che ha messo loro addosso una paura birbona (si vedano le dichiarazioni 'ad alzo zero' di Alfano) è che a Torino e Genova alcuni agenti si siano tolti il casco antisommossa e abbiano fraternizzato con i manifestanti che gridavano «Siete dei bravi ragazzi, venite con noi». Tutti i regimi cadono quando polizia ed esercito smettono di difendere il Potere fino ad allora considerato legittimo. Nel 1918 lo Zar non faceva che mandar battaglioni contro il pugno di insorti guidati da Lenin e Trotskij ma lungo il tragitto i battaglioni si liquefacevano, i soldati disertavano o si univano ai rivoluzionari. Nel 1991 il golpista Janaev, dopo aver esautorato Gorbaciov, mando' i carri armati sulla Piazza Rossa, ma i carristi si rifiutarono di sparare sulla folla. Su uno di quei carri sali' Boris Eltsin e fu la fine dell'Unione Sovietica. Lo stesso meccanismo è scattato in alcune delle 'primavere arabe'.
Le Questure di Torino, di Genova, il ministro degli Interni hanno cercato di minimizzare il gesto degli agenti che si sono tolti il casco presentandosi a viso scoperto: «E' prassi quando cala la tensione». Ma non è cosi'. E quel gesto non deriva solo dal fatto che i poliziotti sono malpagati e sovracaricati di lavoro, come hanno cercato di ammorbidire alcuni giornali. Si tratta di qualcosa di molto più grave: quei poliziotti, che presumibilmente rappresentano i sentimenti di molti loro colleghi che hanno preferito restare al coperto, non si identificano più con lo Stato e le Istituzioni che dovrebbero difendere, come non ci si identificano i manifestanti.
Del resto che fossimo in una sorta di quiete che precede la tempesta ce lo aveva preannunciato, in un certo senso, solo pochi giorni fa, il rapporto del Censis descrivendo un'Italia «sciapa, infelice» aggiungendo che non è semplicemente una questione di soldi ma di «accidia, immoralismo, disinteresse generalizzato...tessuti valoriali persi, dissolti». Da questa situazione agonica prima o poi doveva nascere fatalmente qualcosa, come dalla brace che cova sotto la cenere. Se poi le cosiddette classi dirigenti riusciranno con i consueti metodi, con le astuzie, cercando di dividere la protesta, con le blandizie, con i compromessi, con le promesse mai mantenute, con i Renzi, a spegnere l'incendio appena divampato o se ci sarà, finalmente, anche una 'primavera italiana' è cosa tutta da vedere. Non ci conto, ma ci spero.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2013
Non so cosa abbia spinto Bossi a sottoporsi all'inevitabile umiliazione delle 'primarie' della Lega. Ma nell'ora della sconfitta sento il bisogno di rendergli l'onore delle armi. E' stato l'unico, vero, uomo politico comparso sulla scena italiana nell'ultimo quarto di secolo.
Nel 1990 salutai con favore l'affiorare della Lega: era la prima forza di opposizione che si presentava dopo vent'anni di regime consociativo che negava, in sè, l'essenza di ogni liberal democrazia. La presenza di una forza di opposizione permise ai magistrati (se prima osavano tanto venivano scaraventati nella periferia dell'Impero) di scoperchiare il verminaio della corruzione della classe politica, del taglieggiamento sistematico degli imprenditori. Oggi si tende a cambiare le carte in tavola affermando che la Magistratura si sostitui' alla politica, agendo in modo abusivo, ma vorrei vedere chi ha la faccia tosta di negare che in quegli anni non ci fosse appalto senza tangente politica che poi gli imprenditori scaricavano sui consumatori. Questo malaffare di sistema ci è costato 630 mila miliardi di lire, un quarto di quel debito pubblico che oggi è uno dei nostri maggiori elementi di debolezza in Europa.
Ma la Lega di Bossi non era mera opposizione. Aveva dei contenuti originali. La riscoperta, in un mondo che si andava globalizzando, del bisogno di identità. Bossi è stato l'unico uomo politico, nella modernità, a creare miti, poveri miti se volete (il Dio Po, l'ampolla, Pontida) ma miti e quindi sogni. In questa sacrosanta riscoperta dell'identità la Lega (più che Bossi) ha fatto l'errore di non capire che essa passava per il rispetto di quella altrui (anche se la presenza di parlamentari leghisti a Belgrado, sotto i bombardamenti americani del 1999, aveva questo segno). C'è stata poi l'intuizione delle tre 'macroregioni', perchè è vero che Nord, Centro e Sud rispecchiano realtà molto diverse, dal punto di vista economico, sociale, culturale, climatico. Un'idea che guardava lontano perchè un'Europa politicamente unita (quella che oggi la Lega di Salvini avversa) non avrebbe più avuto come punti di riferimento periferici gli Stati nazionali, azzerati, ma aree omogenee e fra loro coese. Quest'idea fu ferocemente avversata dalla classe politica del tempo («le tre Repubblichette») come ferocemente avversata fu la Lega contro la quale venne organizzato un fuoco di sbarramento che nemmeno le Br avevano avuto, perchè la partitocrazia aveva avvertito il pericolo (oggi ci riprovano Grillo e i 'forconi', vedremo).
Ma il vero 'assassino' di Bossi è stato Berlusconi. Bossi aveva scosso l'albero, Berlusconi, sodale di Craxi, per il misterioso ragionar degli italiani, ne raccolse i frutti. L'alleanza con Forza Italia fu mortale per la Lega. Era un movimento localista e si alleava con un assatanato globalizzatore, era antiamericana e si alleava con uno più americano degli americani. Bossi aveva intuito il pericolo e il suo più bel discorso in Parlamento è stato quello del dicembre del 1994 quando abbattè il primo governo Berlusconi. Ma poi le cose andarono diversamente, l'altro era troppo più forte economicamente e non solo.
Bossi era un autodidatta. Ma sapeva assemblare i materiali più vari metabolizzandoli per i suoi obiettivi. Che è il vero segno dell'intelligenza. Era un uomo animato da un'autentica passione e come tutti gli uomini di passione ha finito per lascarci la salute. Tutto il triste resto è frutto della malattia. Per questo nell'ora più amara desidero dirgli, con rispetto, con amicizia e con affetto: grazie Umberto.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 13 dicembre 2013
Quando al V-Day di Genova Grillo, abbandonato per un momento il mantra del «Tutti a casa», che campeggiava anche sulle magliette distribuite in Piazza della Vittoria è tornato sul tema del lavoro (già sfiorato in altre occasioni senza ottenere molta attenzione) visto pero' in un'ottica completamente diversa da quella attuale («Chi non lavora non mangia») affermando che «il lavoro è schiavitù e deve essere ripensato», la folla osannante che gremiva la piazza non lo ha seguito e non lo ha capito. Eppure questa visione del lavoro è centrale se non nell'intero Movimento 5Stelle, certamente lo è, anche se in modo un po' confuso, nel pensiero del suo leader, cosi' come per la Lega delle origini lo era l'identità prima che tracimasse in xenofobia.
Prima della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. C'è qualche studioso (R. Kurtz, 'La fine della politica e l'apoteosi del denaro', Manifestolibri, 1997) che ipotizza che in epoca preindustriale non esistesse il concetto stesso di lavoro cosi' come noi modernamente lo intendiamo, semmai quello di mestiere che è cosa diversa. Anche la Chiesa, almeno a stare a San Paolo, considerava il lavoro solo «uno spiacevole sudore della fronte». E' l'Illuminismo che, razionalizzando gli straordinari sconvolgimenti portati dall'industrialismo, fa del lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per Marx il lavoro è 'l'essenza del valore', per i liberisti (Adam Smith, David Ricardo) è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso 'plusvalore'. Da questo punto di vista liberismo e marxismo si differenziano molto poco (Stakanov è un'eroe dell'Unione Sovietica e Lulù, nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè, è, almeno nella prima parte del film, lo Stakanov italiano nel beffardo capolavoro di Elio Petri, 'La classe operaia va in Paradiso'). E' da qui che ha inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi oggi non produciamo nemmeno più per consumare ma consumiamo per poter continuare a produrre. E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute. O la cassiera di un Supermarket deve considerare vita passare otto ore al giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in un call-center. Volete altro? Che senso ha aver inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il tempo cosi' guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione di strumenti ancor più veloci in un circolo vizioso che non ha mai fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l'abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario. Cio' a cui, sia pur confusamente, pensa Grillo (e non so se i suoi giovani seguaci, tantomeno i suoi elettori, l'hanno capito) è un ritorno al passato. Non è un rivoluzionario ma un reazionario (anche se, a questo punto, le due cose finiscono per coincidere). Pensa a un ritorno all'agricoltura, all'artigianato, a una piccola impresa che non superi le dimensioni dell'antica bottega. Utopia? Oggi certamente si'. Domani forse no. Ed è qui che l'ormai vecchio Beppe si differenzia dal giovane paraculo Renzi. Rottamare tutti, mandare «tutti a casa» non ha senso se poi si continua col modello di sempre.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2013