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Con Peter Gomez ho presentato a Milano il libro di Travaglio Viva il Re!.C'è voluta proprio tutta l'insipienza e la mediocrità della classe politica italiana degli ultimi anni per far assurgere Giorgio Napolitano a un ruolo di protagonista. Nel Pci d'antan, quello dei Togliatti, degli Amendola, dei Pajetta, dei Lajolo e persino dei Colajanni, Napolitano era una semplice suppellettile. Si diceva che era autorevole. Se chiedevi a un ragazzo della Fgc, un 'figiciotto', di Napolitano ti rispondeva «Ah, è autorevole», ma perchè mai lo fosse non sapeva spiegartelo. Era autorevole perchè era li' da sempre, da epoche pleistoceniche. Tutte le generazioni di italiani viventi, e fra poco anche morenti, se lo sono trovati in casa, pomposo e inamidato, fin dalla nascita. Come Andreotti, con la differenza che il 'divo Giulio' ha segnato, nel bene e nel male, la politica italiana, mentre di Napolitano non si ricorda, prima di questi ultimissimi tempi, non dico un'azione, sarebbe pretendere troppo, ma un discorso di un qualche significato. Travaglio, nel suo sterminato archivio, puo' anche averlo trovato, ma ha dovuto cercarlo col lanternino, con quella luce che sta in capo al medico quando in sala operatoria deve fare un intervento di microchirurgia. «Un coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. Lui non agiva, 'partecipava'. Quando era giovane, si fa per dire, mentre i suoi compagni giocavano a pallone, lui stava a guardare. Per non inzaccherarsi la scarpe. Non era una cosa autorevole. «Nu guaglione fatt'a vecchio» lo aveva chiamato lo scrittore napoletano Luigi Compagnone. Veniva ricordato solo per un'imbarazzante somiglianza con Umberto di Savoia di cui qualcuno insinuava fosse figlio naturale. Ma questa mi pare una malignità gratuita. Ai danni del Re.

Adesso Napolitano determina la politica italiana e ha una falange di adepti non solo politici ma anche giornalisti. Un giornalista di Repubblica, Mario Pirani, un giornalista molto autorevole, ha chiesto l'incriminazione del Fatto per 'vilipendio al Capo dello Stato', un reato da Codice Rocco, un reato d'opinione che non dovrebbe esistere in una democrazia. E invece ce ne sono un mucchio, non tutti derivati dal Codice Rocco, alcuni di nuovo conio, come quella 'legge Mancino' (bello quello) che punisce «l'istigazione all'odio razziale». Credo sia la prima volta che si vogliono mettere le manette ai sentimenti. Nei regimi si puniscono le azioni, le idee ma, tranne forse che in Corea del Nord, non è obbligatorio anche amare il Capo.

Ma non è solo una questione italiana. Tira una brutta aria in Europa. Che non è quella dell'antisemitismo, ma del liberalismo liberticida. In Francia si vogliono vietare, oltre al velo, i teatri a un comico, Dieudonné M'bala M'bala, che fa satira antimperialista, antiamericana e anche antisemita. Ora, il teatro è storicamente l'ultima ridotta della libertà di espressione, quando tutti gli altri canali sono chiusi. Nella Jugoslavia di Milosevic l'opposizione si faceva a teatro (e per la verità anche fuori, molto di più che in questo regime).

Chiunque non è in linea con la 'communis opinio' è pronto per la garrota mediatica e, all'occorrenza, anche per le manette. Scriveva Stuart Mill che, con Locke, è uno dei padri della liberaldemocrazia: «La protezione dalla tirannide non è sufficente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee e usanze a chi dissente... a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2014

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Nella conferenza stampa di martedi' François Hollande a un giornalista che gli chiedeva della sua relazione con un'attrice, rivelata dal settimanale scandalistico Closer, con appostamenti dei suoi fotografi davanti all'abitazione dove si sarebbero svolti gli incontri, clandestini perchè Hollande è tuttora legato alla cosiddetta 'première dame', la giornalista Valérie Trierweiler, il presidente si è rifiutato di rispondere. E ha perfettamente ragione. Gli affari privati di un uomo politico (a meno, naturalmente, non si concretino in reati) non devono riguardare l'opinione pubblica ma solo i diretti interessati. Ma mentre 84% dei francesi ha fatto sapere, attraverso un sondaggio, che questa vicenda non sposta di un ette il giudizio, positivo o negativo, su Hollande e la stampa di quel Paese, almeno quella seria, si è comportata complessivamente con sobrietà, ponendo caso mai delle questioni sulla sicurezza del presidente, in Italia i principali quotidiani hanno dato grande risalto alla notizia, pubblicandola in testa in prima pagina, e 'Porta a Porta' vi ha dedicato una puntata con la presenza di due direttori di giornali specializzati in gossip e di alcune squibe che hanno subito trasformato la trasmissione, nonostante i disperati tentativi di Vespa, in un indegno pollaio.

L'insopportabile puritanesimo americano sta raggiungendo, insieme ad altre nefandezze, anche l'Europa. Negli Stati Uniti non si vota un Presidente ma la sua intera famiglia che, naturalmente, deve essere da 'Mulino bianco'. In Europa non era mai stato cosi', almeno fino a ieri (già il concetto di 'prèmiere dame', con ufficio e sei collaboratori all'Eliseo, contravviene questo civile costume).

In Italia il principale oggetto di questo pruriginoso e torbido interesse per gli affari sentimentali o sessuali di un uomo politico è stato Silvio Berlusconi. Col bel risultato di mettere sullo stesso piano vicende irrilevanti e atti gravissimi, spesso coperti dalla prescrizione ma sfociati alla fine in una condanna definitiva per una colossale frode fiscale (a proposito, ma quando costui comincierà a scontare la sua pena, invece di stare sempre a mezzo?). Il lettore mi puo' dar atto che io non mi sono mai occupato delle donne di Berlusconi (nè sul Gazzettino nè sull'altro giornale cui collaboro Il Fatto Quotidiano) e se in qualche caso l'ho fatto è stato per difendere il suo diritto ad avere la vita privata che più gli piace. Qualche anno fa l'Espresso mi chiese se non c'era proprio nulla che mi piacesse di Berlusconi: «Solo la discrezione di sua moglie». Veronica Lario infatti non si è mai posta come 'prèmiere dame', è sempre stata al suo posto, senza romperci i corbelli.

Confesso che rimpiango i democristiani di una volta. Che non ci hanno mai inflitto le loro mogli e tantomeno le loro amanti (eppure le avranno avute anche loro, le cose cominciarono a guastarsi con Craxi). Della moglie di Giulio Andreotti (di cui Gianni Letta ha giustamente lamentato la mediocrità della commemorazione che ne è stata fatta di recente in Senato) non sappiamo quasi nulla e dei suoi quattro figli ancor meno. Ci ricordiamo solo della sua efficentissima segretaria, Enea, ma questo è un fatto politico. Io rimpiango addirittura le mogli dei dirigenti sovietici che, prima di Gorbaciov e della sua insopportabile Raissa (distruggi un Impero e andrai a Sanremo) non comparivano mai in pubblico e la cui esistenza si scopriva solo ai funerali degli anziani mariti, infagottate in lise pelliccette di Astrakan. A questi bizzarri rimpianti ci costringe la devastante volgarità, dilagante in tutti i campi, dell'oggi.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 17 gennaio 2014

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Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparo' due colpi di pistola, uno alla nuca, l'altro alla schiena, poi risali' su una 125 blu guidata da un complice e spari' nel traffico.

E' curioso che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparo', il secondo guidava la 125 blu). Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell'opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l'ambiente in cui maturo'. E' strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.

Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all'Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull'asfalto c'erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.

Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell'anarchico Pino Pinelli 'caduto' nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).

Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls. Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere. Pinelli era il classico anarchico d'antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando «E' la fine dell'anarchia!» andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile. Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perchè al momento del 'volo' di Pinelli non era nella stanza, c'erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall'Espresso e dall'Avanti!.

Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell'editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all'omicidio (c'era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra. Perchè in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da 'rivoluzionari' era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono cosi' inutilmente gli anni e alla fine l'omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.

Sedici anni dopo, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell'editoria, nella politica e, più in generale, nell''intellighentia', si autodenuncio' per l'omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti. Marino non era un 'pentito', diciamo cosi', classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).

Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l'evidenza. Negando che esistesse un 'secondo livello' di Lc dedito agli 'espropri proletari', cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera. Me l'avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confesso' che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un'auto 'pulita' per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l'ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. «Chiedilo a Pietro» dicevano i militanti di Lc quando c'era un problema di questo genere da risolvere.

Durante i vari processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell'entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perchè era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo 'i padroni'.

Sofri ha avuto otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta 'sentenza suicida' perchè il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro di condanna. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997. Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto cio' la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato. Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perchè in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perchè il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, 'Il bandito della luce rossa', condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori: Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto). Quando, a volte, un'università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: «Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino».

Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all'amico. Io questo fascino non l'ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l'aspetto molliccio per nulla virile. Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose.

Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d'ufficio di Adriano Sofri.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2014