Sono stato l’ultima persona a vedere in vita Walter Tobagi, a parte la moglie Stella. Ci eravamo incrociati al Circolo della Stampa per un dibattito. Abitavamo vicini e poiché a Walter non piaceva guidare (di lui tutto si può dire tranne che fosse un uomo dinamico) l’accompagnai in macchina a casa. Saranno state le due o le tre di notte, ma da quotidianisti incalliti non ci sembrava mai troppo tardi. Cadeva una pioggerellina leggera. Stavamo a chiacchiera ma d’improvviso Walter cambiò tono e mi disse che da un mese aveva abbandonato le inchieste sul terrorismo: “Sai, non voglio morire per questi qui” intendendo il direttore e il vicedirettore del Corriere. In quel momento pensai che eravamo folli a stare lì seduti in macchina davanti a casa sua, bersagli fissi, immobili, facili. Oltretutto i nostri nomi, il suo, il mio, quello di Abruzzo erano stati trovati in un covo di Prima Linea. Ebbi l’impulso di guardare fuori. Ma non lo feci, per non spaventarlo e non spaventarmi. Tornammo a parlare di cose normali. In quegli anni convulsi eravamo riusciti a strappare un’ora per portare i nostri figli allo zoo e c’eravamo divertiti moltissimo, forse più noi dei bambini. Ci ripromettemmo quindi di ripetere appena possibile l’esperienza. Walter uscì dalla macchina. Non mi chiese di salire da lui come avevamo fatto altre volte per saccheggiare, affamati, il frigo. Lo vedo ancora armeggiare con le sue mani grassocce davanti al grande ed elegante portone di legno.
La mattina dopo, poco dopo le undici, mentre stavo dormendo perché ero in uno dei miei periodi di disoccupazione, mi svegliò una telefonata del collega Gianfranco Venè. Poiché la mia voce era normale, tranquilla, si rese conto che c’era qualcosa che non quadrava: “Ma come non sai cos’è successo?”. “No”. “Hanno ucciso Walter”. Fu uno choc perché, con l’intervallo del sonno, per me era come se lo avessi lasciato da pochi minuti. Mi vestii in fretta e mi diressi verso la casa di Tobagi. C’era il solito canaio di giornalisti, di fotografi, di curiosi. Notai due colleghi del Corriere, quelli che più di altri avevano creato un clima d’odio intorno a Tobagi, che piangevano senza ritegno e ostentavano gli occhi rossi. Io non piangevo. Mi districai da quella folla e salii in casa. Stella mi vide e si abbandonò piangente sulla mia spalla: “Tu…tu sei stato l’ultimo a vederlo”.
Quello che successe nei giorni successivi avrei preferito dimenticarlo. A cominciare dai funerali, in pompa magna, con Rolls-Royce, che erano esattamente il contrario dello stile di Tobagi, che era un uomo schivo e pudico. C’era anche la Fallaci che non aveva mai conosciuto Tobagi (in quel periodo stava a New York) al braccio di Bruno Tassan Din, l’Amministratore delegato della Rizzoli. Voleva rubare il posto da protagonista al morto. Ma non fu la sola. Incontrai casualmente due importanti colleghi che, parlando della tragedia, mi dissero: “Puff, ma l’obbiettivo non era Tobagi, il vero obbiettivo ero io”.
Non ho conosciuto Tobagi all’Avanti!, quando io vi arrivai lui se ne era già andato all’Avvenire. Ci fece incontrare il capocronista di quel giornale cattolico, Giorgio Giusti, il più grande bestemmiatore in cui mi sia capitato di imbattermi. Walter non era “il cronista buono” come volle poi l’ipocrita iconografia del Corriere, aveva anche lui i suoi bravi artigli (all’Avvenire aveva il soprannomignolo di “viperotto” in contrapposizione ad un altro eccellente collega, Corrado Incerti, “la mangusta”) era un buon cronista e anche qualcosa di più, aveva quella profondità di analisi che lo avrebbe portato ad essere, a soli 33 anni, un importante editorialista del Corriere. Fra noi si diceva che “studiava da direttore”. E ci sarebbe arrivato se due ragazzi male educati, nel senso stretto del termine, cioè educati male dai loro padri, Morandini e Barbone, il primo figlio del critico cinematografico de La Notte, il secondo di un funzionario della Rizzoli, non gli avessero troncato l’esistenza (“Quella fu una stagione -scrisse splendidamente Oreste Del Buono- in cui gli adulti non seppero fare gli adulti”).
Con Walter ci incontrammo quindi nei primissimi anni Settanta. La nostra amicizia si basava proprio sulla diversità dei nostri caratteri: riflessivo lui, impetuoso io. Benché fosse di tre anni più giovane aveva verso di me un atteggiamento protettivo, da fratello maggiore e saggio. A volte cercava di limitare le mie intemperanze, inoltre aveva intuito la mia natura più profonda e con affettuosa ironia mi chiamava “passato è bello”. Tobagi era molto più adulto della sua età.
Walter Tobagi è stato ucciso perché racchiudeva in sé due importanti motivi simbolici: notista già prestigioso del Corriere e Presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. E per questa sua carica e quindi, alla fine, della sua morte ho qualche responsabilità. Lo avevo convinto a rompere l’alleanza socialcomunista della Lombarda creando una nuova corrente. I nostri motivi più che politici erano professionali: volevamo togliere il sindacato ai sindacalisti di professione, che in realtà erano dei politici mascherati, per restituirlo ai giornalisti che facevano i giornalisti, e sia Tobagi che io che Abruzzo lo eravamo. Si trattava di allearsi con i “fascisti” di Autonomia, in realtà dei normalissimi conservatori. In quegli anni di poco postsessantottini era una mossa rischiosa che ci avrebbe tirato addosso ogni sorta di accusa, a cominciare, naturalmente, da quella di essere dei “fascisti”. Tobagi, che era un uomo prudente, esitava. Esitava ancora la sera in cui decidemmo di sfiduciare il presidente della Lombarda, il socialista quisling Marino Fioramonti. Walter girava e rigirava fra le sue mani la mozione di sfiducia, ma non si decideva a presentarla. Gli strappai quasi di mano il foglietto e dissi: “Presidente, c’è una mozione di Tobagi e mia”. Si trattava ora di decidere chi avrebbe fatto il presidente della Lombarda. Walter voleva che fossi io, ma a parte che non ero assolutamente indicato per quel ruolo, non ne avevo nessuna voglia. Così toccò a lui. Negli ultimi tempi della sua breve vita Tobagi si estenuò quindi, spendendovi moltissime energie, in quel doppio ruolo.
A Tobagi morto i socialisti di Craxi si appropriarono del suo cadavere, imitando quello che avevano fatto sempre i comunisti. Tobagi era certamente socialista (anzi un catto-socialista, animale piuttosto raro) ma da giornalista indipendente qual era non aveva alcun rapporto organico col Psi. Craxi cavalcò l’occasione per montare una campagna contro i comunisti insinuando più o meno apertamente che i mandanti del suo omicidio erano due giornalisti del Corriere. Cosa del tutto inverosimile. In regime di legislazione premiale se Barbone e Morandini avessero avuto dei mandanti, per soprammercato giornalisti, avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciarli invece di coprirli. Inoltre è vero che Fiengo and company avevano montato una campagna d’odio contro Tobagi, e in misura minore contro di me, ma erano persone di così basso livello –io li conoscevo bene- che mai si sarebbero implicate, nemmeno indirettamente, in un omicidio. Chiesi comunque a Ugo Intini, mio ex caporedattore all’Avanti!, incontrato al Plaza di Roma, se avessero delle prove. Ugo, onestamente, mi disse che non ne avevano. Il caso volle che a una commemorazione di Tobagi al Circolo della Stampa io incrociassi Bettino Craxi, che nel frattempo aveva avuto modo di definirmi da New York “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili” perché criticavo duramente la deriva presa dal craxismo, nella strettoia che portava fuori dal Circolo. “Sbagli a scrivere quello che scrivi” mi disse Bettino. “No, siete voi a sbagliare” replicai. La discussione continuò giù dalle scale e nel vasto androne del Circolo della Stampa. La schiera dei cortigiani stava a rispettosa distanza. Quando ci lasciammo passai davanti ai cortigiani e costoro, che da anni non mi salutavano, si prodigarono in attuzzi e moine nei miei confronti. Nella loro testa di servi avevano pensato che avessi riallacciato i rapporti col Capo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2020
Ho scritto quest’articolo per rendere giustizia alla memoria di Walter Tobagi, immerso dai media, oggi come allora, in una scivolosa retorica che è esattamente il contrario dello stile di Walter, come giornalista e come uomo.
m.f.
C’è un simpatico e affascinante animaletto chiamato Turritopsis Dohrnii. E’ una medusa di piccolissime dimensioni, 3,2 mm di diametro per l’individuo adulto. A scoprire la straordinaria e affascinante particolarità della Turritopsis fu un biologo tedesco, Christian Sommer, che alla fine degli anni ’80 stava facendo delle ricerche nel mar di Rapallo, anche se questa medusa è originaria del Pacifico e attraverso la navigazione dei mercantili è arrivata in Italia. Che cosa rende straordinaria la Turritopsis? Questa medusa dopo aver raggiunto la maturità sessuale, ed essere quindi diventata a tutti gli effetti adulta, regredisce poi a uno stato infantile, per poi ricominciare questo ciclo.
Non è l’eterna giovinezza di Dorian Gray nel famoso Ritratto di Oscar Wilde, perché Dorian rimane immobilizzato nella sua bellezza, mentre la sua decrepitezza sia morale che fisica è riflessa dal ritratto che tiene nascosto in camera. Insomma Dorian è un soggetto statico, un giovane vecchio.
Non è nemmeno il mito dell’allungamento della vita fino a condizioni ed età indecenti che è una ‘classica trappola della ragione’ da molti punti di vista, estetico, psicologico oltre che economico per cui se si continua su questa linea in futuro, ma è un futuro che è diventato quasi un presente, un manipolo ridotto di giovani dovrà mantenere una legione di vecchi.
Non è nemmeno un ritorno al passato “una macchina che riavvolge il tempo” per dirla con Ivano Fossati. Perché non è logicamente possibile. Se io mi facessi riportare da questa macchina, poniamo, nel Cinquecento la mia stessa presenza o anche un solo semplice gesto come spostare un bicchiere cambierebbe tutta la storia successiva. E se io mi facessi riportare indietro ai miei sedici anni troverei gli stessi amici, le stesse cose, la stessa situazione di allora. Non è la condizione della Turritopsis. Poniamo che io oggi sia una Turritopsis di quarant’anni fra vent’anni ne avrei venti ma in un altro contesto, che non è ovviamente quello di oggi. L’esistenza della Turritopsis è dinamica, va avanti e indietro, dalla giovinezza alla vecchiaia, dalla vecchiaia alla giovinezza. Immaginiamo che la Turritopsis sia un uomo. Non è immortale (altro terrificante mito soprattutto della Modernità, ma coltivato anche dagli antichi col pantheon degli Dei) sia nella sua fase ascendente che discendente può essere colpito da malattie letali, da uno spigolo fatale di uno sportello in cucina e da qualsiasi altro accidente di cui è cosparsa la vita di un uomo.
Forse la vicenda della Turritopsis ha qualche somiglianza con l’eterno ritorno di Nietzsche (“tutto ciò che sarà è già stato, tutto ciò che è stato sarà”) ma nella concezione di Nietzsche il Tempo è fatto da ‘eterni presenti’ che sono contemporanei (il mio primo bacio esiste contemporaneamente a me che in quest’attimo scrivo). Una concezione abbastanza terrificante a cui lo stesso Nietzsche si avvicina e si ritrae spaventato, perché avrebbe tolto senso al suo stesso filosofare. Comunque la Turritopsis, a differenza dell’eterno ritorno, a differenza del Big Bang della fisica che alla concezione Nicciana somiglia assai, non è statica ma dinamica, per dirla volgarmente alla toscana “va su e giù come la pelle dei coglioni”.
Attualmente il maggior studioso della Turritopsis Dohrnii è lo scienziato giapponese Shin Kubota dell’Università di Tokio. Se io fossi il reggitore del mondo finanzierei la ricerca di Shin Kubota con enormi somme, per capire se il meccanismo che rende la Turritopsis qual è può essere trasferito sull’essere umano invece di spendere miliardi per andare su Marte o raggiungere qualche altra galassia nel tentativo di consolarci di non essere soli in questo inesplicabile Universo o per trovare un vaccino contro il Covid-19 che, pompato com’è (intendo il vaccino non il covid) invece di rassicurarci finisce per terrorizzarci ulteriormente ed è comunque inutile perché il virus, per difendersi, cambierà composizione mentre la Turritopsis, nella sua essenza, rimane sempre lo stesso soggetto.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2020
Mentre qui da noi si muore di paura da Covid, in Afghanistan si muore sul serio, di morte violenta. Il 12 aprile ci sono stati due gravi attentati in zone diverse del Paese: a Jalalabad durante un funerale un kamikaze si è fatto saltare in aria uccidendo 20 persone e ferendone 40, a Kabul un commando armato ha preso d’assalto l’ospedale di Medici senza Frontiere facendo 24 vittime. I Talebani hanno negato qualsiasi responsabilità in questi attentati che infatti poco dopo sono stati rivendicati dall’Isis. Non c’era nemmeno bisogno né della negazione talebana né della rivendicazione Isis, durante tutta la lunga storia della loro resistenza i Talebani hanno sempre avuto di mira solo obbiettivi militari e politici, e infatti due giorni dopo gli attacchi Isis i Talebani hanno preso d’assalto un’importante base militare a Gardez . E questa azione l’hanno rivendicata. I Talebani, come abbiamo già scritto più volte, non hanno alcun interesse a colpire la popolazione civile grazie al cui sostegno hanno potuto portare avanti vittoriosamente la loro guerra d’indipendenza. I guerriglieri dell’Isis non hanno di queste preoccupazioni. La loro è una guerra totale, religiosa, ideologica sia contro l’Occidente che contro gli odiati ‘cugini’ sciiti (Il Mullah Omar, quando era al governo, pur essendo pashtun e sunnita come la maggioranza dei suoi non perseguitò mai la consistente minoranza sciita in Afghanistan. Gli sciiti avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri cittadini dell’Emirato Islamico d’Afghanistan). Lo scopo degli attacchi Isis in Afghanistan è di dimostrare che i Talebani non sono in grado di mantenere l’ordine nel momento delicato in cui, in virtù del patto talebano-statunitense concluso a Doha alla fine di febbraio, gli americani stanno lasciando il Paese. Di queste recenti vicende, vitali non solo per il futuro dell’Afghanistan ma anche per la sconfitta o meno del terrorismo internazionale, non trovo traccia sui giornali italiani.
Se l’Afghanistan è normalmente ignorato, quando però per un qualche caso se ne parla si raccontano un mucchio di frottole. In margine alla vicenda della cooperante Silvia Romano si è tirato in ballo l’Afghanistan, l’Afghanistan talebano, come fucina dei sequestri a fine di estorsione. Ebbene in tutta la storia del movimento talebano non c’è un solo sequestro di questo tipo. Quando fu catturato il giornalista di Repubblica Mastrogiacomo i Talebani chiesero uno scambio di prigionieri: cinque dei loro uomini in cambio del giornalista. E così fu fatto. Per i Talebani tutti gli stranieri presenti in Afghanistan, fossero militari o civili, che avevano la stessa nazionalità di uno dei 48 Paesi occupanti, erano considerati dei nemici e se catturati trattati come “prigionieri di guerra”. Quando nell’aprile del 2007 furono presi prigionieri tre cooperanti francesi della Ong Terre d’enfance, due uomini e una donna, Céline Cordelier, la richiesta talebana per liberarli fu la stessa: scambio di prigionieri. La Cordelier però fu liberata spontaneamente dopo 25 giorni di prigionia senza alcuna trattativa e la donna dirà: “Non dimenticherò mai che mi hanno nutrita e trattata con rispetto”. Questa del rispetto dei prigionieri stranieri è una costante del comportamento dei Talebani, costante che risponde alle regole dettate dal Mullah Omar ai suoi comandanti sul campo in quel famoso libretto azzurro tanto irriso in Occidente. Il libretto conteneva sette regole, di cui riassumo qui, in finiano non in dari in cui fu scritto, quelle che riguardano i sequestri: 3) Militari stranieri prigionieri. Vanno trattati come prigionieri di guerra. 4) Bando ai sequestri di persona e alla richiesta di riscatti. Quando un soldato americano, Bowe Bergdhal, fu catturato, venne trattato secondo le direttive: da “prigioniero di guerra”. Gli americani non restituirono mai queste cortesie, non rispettarono mai, a differenza dei Talebani, le leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra, ma considerando i guerriglieri talebani dei “terroristi”, li deportarono a centinaia a Guantanamo dove furono torturati e umiliati in ogni maniera.
Poiché siamo in tema di sequestri parliamo di quello di Silvia Romano. Dico subito che in linea di principio io sono contrario alle Ong, a meno che non si tratti di organizzazioni mediche e consolidate come Emergency e Medici senza Frontiere perché hanno l’arrogante pretesa di “aiutare” i Paesi in cui operano, l’Africa nel caso della Romano. L’Africa, come ci dimostra tutta la sua storia, stava molto meglio quando si aiutava da sola. Precisato questo la gravità della vicenda Romano non sta nell’entità del riscatto ma nel riscatto stesso, perché mette a rischio tutti gli altri italiani presenti nelle zone pericolose, non solo africane. Infatti se si sa che l’Italia paga, i suoi cittadini diventeranno degli obbiettivi privilegiati non solo di gruppi strutturati come al-Shabaab ma anche di bande di semplici predoni. Come “danno collaterale” forniamo ai terroristi, perché gli al-Shabaab oltre a condurre una guerra di indipendenza, come i Talebani, sono anche legati, a differenza dei Talebani che lo combattono, al Califfato che fu di Al Baghdadi. Insomma l’Italia diventa un bancomat buono per tutti gli usi. In un’intervista al Corriere rilasciata a Luigi Ferrarella, il pm milanese Alberto Nobili, uno specialista in tema di sequestri di persona, ha ricordato: “La regola del blocco dei beni (dei familiari, ndr) e cioè il messaggio dello Stato che il sequestro non avrebbe più fruttato una lira, ebbe efficacia”.
Il sequestro della Romano come quello di ogni altro cooperante o cittadino italiano che operi in zone pericolose ricorda, sia pur in termini molto diversi perché molto diversi sono i contesti, il dilemma che si pose all’epoca del sequestro Moro. La Democrazia Cristiana, che noi avevamo sempre accusato di non avere il senso dello Stato, in questo caso lo ebbe, aiutata dal Pci che il senso dello Stato ce l’ha incorporato perché i comunisti, quando sono al potere, si identificano con esso, si rifiutò di trattare con i terroristi. E fece bene. Perché se avesse accettato il giorno dopo quelli delle Brigate Rosse avrebbero sequestrato un cittadino qualsiasi e a questo punto si sarebbe dovuto trattare ancora, in una spirale vertiginosa che avrebbe portato alla dissoluzione dello Stato, oppure non si sarebbe trattato e sarebbe diventato palese che l’Italia è un Paese dove, come nella Fattoria degli animali di Orwell, “tutti gli animali sono uguali ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”. Disse all’epoca il vice segretario del Partito liberale Alfredo Biondi: “Non c’è da dividersi e dividere in falchi e colombe: non c’è da mistificare come caldo umanitarismo lo spirito di rinuncia e di sottomissione e come gelida statolatria l’elementare esigenza di non transigere su diritti e doveri indisponibili come quello di rendere giustizia e di assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2020