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Lo scontro fra il Pd e il ministro Calenda sul canone televisivo è grottesco. Ma solo in via minore perché era stato il governo Renzi ad abbinare il canone alla bolletta elettrica, per costringere a pagare anche i riottosi e ora invece propone di abolirlo. Perché la questione della Rai è tutt’altra. Una Rete Tv pubblica controllata dal governo, com’è la Bbc inglese, considerata una delle migliori del mondo, non solo è utile ma necessaria. Per due motivi. Perché solo una Tv pubblica può fornire servizi appunto di pubblica utilità ai quali le Tv private non sono interessate. E perché anche il governo, che rappresenta comunque il Paese, ha il diritto e il dovere di dare un suo indirizzo culturale e in senso lato anche politico alla cittadinanza. Ma il fatto è che la Rai non è pubblica ma è in mano ai partiti che se la suddividono a seconda della loro consistenza o di chi in quel momento è al governo.

Nella Prima Repubblica la situazione era più evidente. La prima Rete andava alla Dc, la seconda al Psi, la terza al Pci. Che la situazione fosse questa lo disse ‘apertis verbis’, all’inizio di Mani Pulite, Bruno Vespa, allora direttore del Tg1: “Il mio editore di riferimento è la Democrazia Cristiana”. E fu, forse, l’unica volta che in vita sua disse la verità. Naturalmente fu mazzolato da tutti quelli che avevano la coda di paglia. Mi ricordo, in particolare, l’indignazione di Sandro Curzi che, come direttore del Tg3, faceva ciò che faceva Vespa, per il Pci.

Oggi con lo spappolamento dei partiti tradizionali la situazione è più confusa ma nella sostanza è rimasta la stessa. Le varie formazioni politiche si spartiscono la Rai pubblica. Fanno riferimento a questo o a quel partito tutti i direttori di Rete, tutti i direttori e vicedirettori dei Tg, tutti i capi struttura. Nel Consiglio di Amministrazione siedono uomini dei partiti, magari mascherati da giornalisti di quart’ordine o da sindacalisti. Idem, e anche peggio, nella Commissione di Vigilanza i cui membri sono nominati direttamente dai partiti con un rigoroso manuale Cencelli. Cioè i controllati sono anche i controllori. Se per avventura entra in Rai, in una posizione apicale, un giornalista indipendente ne viene quasi subito estromesso, perché è un corpo estraneo. Come è stato il caso di Carlo Verdelli.

Come si risolve questa situazione? Non si risolve finché i partiti, questo autentico cancro della democrazia, faranno il bello e il cattivo tempo non solo in Rai ma nell’intero Paese.

Una risposta, almeno parziale, potrebbe venire da quello che in altri tempi si chiamava “disarmo bilaterale”. Cioè alla Rai pubblica rimane una sola Rete, sul modello della Bbc inglese, le altre due vengono messe sul mercato e vendute a privati che non siano possessori di altri network in Italia. Ma contemporaneamente anche Mediaset mette sul mercato, nello stesso modo, due delle sue Reti. Perché una sola Rete pubblica non potrebbe reggere l’urto di un network privato che ne ha tre. E’ vero che oggi ci sono Sky, che però è a pagamento, e La7. Ma anche La7, pur potendo contare su quel genio televisivo che è Mentana, fa una fatica boia a competere in termini di share e raccolta pubblicitaria con i due supercolossi.

Quindi finché i partiti avranno in mano il pallino e Berlusconi, per soprammercato, sarà contemporaneamente imprenditore televisivo e uomo politico in un colossale conflitto d’interessi che non esiste in nessun paese democratico e forse anche non democratico (negli Stati Uniti un uomo politico non può possedere nemmeno una free press) non se ne farà nulla. A meno che i Cinque Stelle, come hanno promesso, non facciano piazza pulita e sempre che, come spesso avviene, una volta arrivati al potere non diventino più tracotanti di coloro che li hanno preceduti.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2017

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I giornali hanno scoperto che c’è in giro l’influenza. Oh bella, ma da che mondo è mondo d’inverno c’è l’influenza. Sul Corriere Margherita De Bac, giornalista scientifica che di solito si occupa, e bene, di questioni importanti, si prodiga in consigli per prevenire e curare il terribile morbo, anche se c’è una massima, popolare ma pure diffusa fra i medici, che dice che “un raffreddore ben curato dura una settimana, uno non curato una settimana”. Per la prevenzione c’è naturalmente il vaccino, se poi, vaccino o no, ci si ammala: riposo, letto, bere molta acqua, cibi leggeri. Chiedo scusa alla De Bac ma sono cose che tutte le mamme sanno perché i bambini sono il veicolo più comune del terribile morbo.

Un consiglio mi permetto di darlo anch’io: uscite più scoperti che potete. Da ragazzo, con una madre russa che si curava poco del freddo e, per la verità, anche di me, io d’inverno uscivo scamiciato, senza golf, con i calzoncini corti fino all’inguine. I miei vicini Mosca, quattro figli del famoso umorista più o meno della mia età, uscivano coperti fino al collo, sciarpe, cappotti pesanti, cappelli e, quel che è più grave, in una famiglia snob e un po’ parvenu (si trattava pur sempre di giornalisti) calzoni corti sì ma fino al ginocchio “perché così li porta Carlo d’Inghilterra”. Bene, in tutti quegli anni io non ho mai beccato un’influenza, i Mosca se ne facevano una mezza dozzina a stagione e più si coprivano e più si ammalavano.

Del terrorismo da influenza è compare quello meteorologico, invernale ed estivo. C’è un temporale come ne abbiamo visti mille volte? No, è “una bomba d’acqua”. Cade finalmente sulle montagne la neve a lungo sospirata da sciatori e albergatori. Possiamo essere contenti? Eh no, c’è “l’allerta 3 su 5”, pericolo valanghe che sui monti ci sono sempre state e sempre ci saranno. Straripano i fiumi come sono sempre straripati. No, “esondano” parola di nuovo conio che evoca disastri. C’è una tempesta che arriva dal Nord e, come quasi sempre, coinvolge buona parte dell’Europa. Non è una tempesta, è la Supertempesta Eleanor che ha fatto in tutto un morto, altri dicono tre, comunque meno di un incidente stradale. Allarme rosso: la gente non deve uscire di casa. E’ estate, fa caldo, dovrebbe essere normale. Ma i notiziari non si limitano a darti le temperature, troppo semplice, ti forniscono anche quelle “percepite” e così tu che fin lì non ci avevi fatto troppo caso prendi paura, cominci a sudare come se fossi nella sala macchine di una nave, ti manca il respiro e chiami il 118.

La nostra è una società dell’esagerazione. In tutto. Anche nel calcio. Il portiere fa una parata un po’ difficile, è “un salvataggio miracoloso”. Uno tira una punizione a palombella che si insacca, come ne faceva a caterve tanti anni fa l’interista Mario Corso, è “un gol strepitoso, il più bello della stagione”.

Ma di tutti i terrorismi il più temibile è quello diagnostico e preventivo. Dovresti palpeggiarti e auscultarti in ogni momento (e un’extrasistole è già un infarto), fare una mezza dozzina di esami clinici l’anno. Eppoi, va da sé, niente fumo e niente alcol. Ma jogging per inspirare a pieni polmoni l’aria inquinata che ci circonda. Poiché la tecnica ci ha sollevato da ogni fatica fisica siamo costretti a rifugiarci nelle palestre e in queste stronzate (mai visto un contadino fare jogging). C’è poi il subterrorismo del colesterolo su cui marciano la pubblicità e le case farmaceutiche. Sei lì tranquillo, seduto in poltrona e irrompe l’annuncio sinistro e sibillino: “Avevo il colesterolo a 235. Dicevo: non è importante. Mi sbagliavo”. E la glicemia? C’è gente che se la misura, con speciali macchinette, ogni mattina e se supera il limite “consentito” si tormenta tutto il giorno prima di correre dal medico di base che naturalmente gli farà fare una quantità infinita di esami dai quali verranno fuori altri superamenti dei limiti “consentiti” e così via in una spirale che non dà tregua e ti avvelena la vita. C’è quindi il terrorismo auditivo per cui, anche se ci senti benissimo, o così almeno ti pare, sei invitato, più o meno perentoriamente, a fare un controllo presso centri specializzatissimi, ultratecnologici, da medicina nucleare, per cui un difetto te lo trovano di sicuro. Insomma dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Tutto può essere pericoloso. E’ logico: è vivere che ci fa morire.

Abbiamo paura anche della nostra ombra, dell’ombra di un’ombra, di un petardo anzi della sensazione di un petardo come si è visto nell’indecoroso panico di piazza San Carlo a Torino: un morto e 1500 feriti, per un nulla.

E’ la paura l’autentico totem dell’epoca. E a tutti questi terrorismi da caga io, lo confesso, preferisco quello vero. Mi sembra più vitale.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2018

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Di tutti i tweet scaricati da Trump in questi giorni natalizi il più inquietante è quel “il mondo vi sta guardando” rivolto all’Iran dove la polizia e i ‘guardiani della Rivoluzione’, i pasdaran, sono impegnati a reprimere le manifestazioni contro il governo degli Ayatollah colpevole del rialzo dei prezzi e del carovita che peraltro sono l’onda lunga delle sanzioni comminate per anni a quel Paese e di quelle, per volere degli Stati Uniti, ancora in vigore.

Non vorremmo che anche ‘the Donald’, che per certi versi rappresenta una novità nel mondo yankee, avesse introiettato quella ‘forma mentis’ dei suoi predecessori per cui è un diritto, anzi un dovere, degli Stati Uniti intromettersi, in nome dei ‘diritti umani’, negli affari interni di altri Stati e che tante conseguenze disastrose ha provocato, agli Usa e soprattutto a noi europei.

Cominciò Clinton nel 1999 con la guerra alla Serbia per il Kosovo col risultato di rafforzare nei Balcani quella componente islamica che oggi è all’origine di tante isterie ‘Fallaci style’. Proseguì George W. Bush con l’aggressione all’Afghanistan e una guerra, portata avanti in seguito anche dai suoi successori, che dura da 16 anni e oltre, da cui non riusciamo o non vogliamo disimpegnarci per “non perdere la faccia”. Una guerra puramente ideologica poiché l’Afghanistan non ha nessuna risorsa, energetica o di materie prime, per noi appetibile, col risultato di aggravare di gran lunga la situazione economica e sociale di quel ‘martoriato’ Paese, come comunemente lo si definisce (‘martoriato’ da chi, please?) come dimostra il fenomeno, nuovissimo per la sua entità, delle migrazioni in massa degli afgani storicamente legatissimi alla loro terra. Fu ancora Bush ad aggredire l’Iraq spappolando quel Paese, provocando, in modo diretto o indiretto, dai 650 ai 750 mila vittime civili e ponendo le premesse per la nascita dell’Isis il più grave pericolo per l’Occidente democratico dalla fine della Seconda guerra mondiale e che la vittoria a Mosul e a Raqqa, praticamente rase al suolo, non ha certo sconfitto definitivamente perché lo Stato islamico non ha bisogno di una collocazione territoriale essendo un’epidemia ideologica che prima o poi, come ha previsto Houellebecq, contaminerà anche gli occidentali. E’ stato poi ancora ‘Double’ fra il 2006 e il 2007 ad aggredire, attraverso la democraticissima Etiopia, gli shabaab somali che avevano posto fine allo spadroneggiare dei ‘signori della guerra’ locali e che avevano portato un po’ di ordine e di pace in quel Paese dove fino ad allora aveva dominato l’arbitrio (molto somiglia la vicenda somala a quella talebana). Risultato: oggi la Somalia è in piena guerra civile e gli shabaab hanno giurato fedeltà al ‘Califfo nero’. Infine è a quel pseudodemocratico e pseudonero di Barack Obama che si deve, con l’apporto essenziale di Sarkozy, l’aggressione più incomprensibile, e forse la più devastante per noi europei, quella alla Libia del colonnello Muammar Gheddafi e la disgregazione di quel Paese. Mentre Gheddafi, che basava il suo potere sul proprio prestigio personale e sull’appoggio di una parte consistente della popolazione, riusciva a contenere in modo non particolarmente brutale le migrazioni subsahariane, ora la Libia, divisa fra mille milizie che il ridicolo governo Serraj non riesce in alcun modo a controllare, scarica sulle coste italiane i disperati del subsahara.

Queste sono le conseguenze della concezione bushista, e prebushista, teorizzata da quello straordinario think tank di Francis Fukuyama che profetizzò nel 1992 La fine della Storia, per cui ogni Stato, in qualsiasi parte del mondo, deve essere “democratico, basato sulla libera intrapresa e sul consumo”.

Possibile che non si impari mai nulla dall’esperienza? La sola speranza è che il pragmatico Trump twitti, cinguetti, squittisca, strilli, abbai sui social, ma non morda.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2018