Lettera al Fatto Quotidiano e risposta
Martedì 16 Gennaio, attratta dallo stimolante titolo (“La pacca e la metafisica del c.”), ho iniziato a leggere il pezzo di Massimo Fini, sempre più coinvolta dalla erudita disamina storico-psicologico-filosofica. Poi mi sono guardata allo specchio e mi sono chiesta se avevo sufficiente bellezza, raffinatezza, eleganza, fama che mi dessero quell’autorevolezza che permette alla signora Deneuve di temere la fine di quello che lei – e immagino M. Fini – definiscono “corteggiamento maschile”. No, assolutamente no, devo ammetterlo: sono una anonima donna di una certa età, che ha dalla sua solo un apparato genitale che le consente, forse, di esprimere, conscia della sua pochezza culturale, qualche pensiero.
Anche se la disamina di M. Fini sul culo è - all’apparenza- democratica, interclassista e coinvolge l’umanità maschile e femminile tutta intera, si rivela, andando avanti nella lettura, dedicata esclusivamente al “luciferino ed orgoglioso” culo femminile, visto il tenero confronto con il seno ( che “si accarezza, si vezzeggia e si mordicchia affettuosamente”). Cosicché mi par evidente che è quello femminile il culo “masochista e remissivo” da “abbattere” e “degradare”.
Consiglio però, M. Fini di fare molta attenzione quando pone la sua mano su uno di quei tanti culi che gli si presentano con quella loro aria di “falsa innocenza” o di “impertinenza” quando non arroganti: si accerti prima se dall’altra parte ci sono due TETTE o due GONADI, perché l’esito della pacca potrebbe non essere quello sperato.
In attesa di un suo prossimo saggio sulla “culità nel pensiero di Platone” o, in alternativa un approfondimento su “il culo in Aristotele: dalla Potenza all’Atto”.
Vittoria Gallo
Gentile signora, la ringrazio per l’attenzione con cui ha letto il mio articolo e anche per l’ironia così diversa dall’aggressività di una lettera al Fatto di Claudia Mori. E’ vero: spesso la cultura serve per confondere le acque. Premesso che il mio articolo sul culo è anche un divertissement, è ovvio che in un pezzo breve non si può esprimere interamente il proprio pensiero. Approfitto della sua lettera per cercare di farlo. Io penso che la donna, per meglio dire la femmina, sia dal punto di vista antropologico la vera protagonista della vicenda umana. Perché è colei che dà la vita, mentre il maschio è solo un inseminatore, un fuco transeunte. E infatti nella tradizione kabbalistica, e peraltro anche in Platone (e ora non mi accusi di eccesso di cultura), l’Essere primigenio è androgino. Con la caduta si scinde in due: la Donna, che viene definita “la Vita” o “la Vivente”, e l’uomo, che è colui che “è escluso dall’Albero della Vita”. Ciò che in definitiva, e nonostante tutto, spinge l’uomo verso la donna è la nostalgia della vita. Nel linguaggio degli innamorati lui le dice “tu sei la mia vita”, “non posso vivere senza di te”. In una bella canzone Tony Del Monaco canta: “Io che avevo ormai perduto tutte quante le speranze/non credevo nei miei occhi quando sei venuta tu/Vita mia, vita mia, l’unica ragione tu, della mia vita”. Lei invece lo chiama amore, tesoro, gioia e con ogni altra sorta di vezzeggiativi, ma quasi mai gli dice “Tu sei la mia vita”. Perché la vita è lei.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2018
E il Papa finalmente lo ha detto, chiaro e tondo: “Non esiste una cultura superiore a un’altra”. Parlava a Temuco nella regione cilena della Araucanìa dove vivono i Mapuche (letteralmente “il popolo della Terra”) i soli nativi del Sudamerica sopravvissuti alla colonizzazione europea e alle violenze di Stato. L’occasione era quindi propizia e Francesco l’ha colta al volo. Ma a ben guardare il discorso del Papa va ben oltre la sorte dei nativi sudamericani e la storia della violenta colonizzazione europea cui parteciparono i pii missionari. Francesco parla dello ieri ma anche, e forse soprattutto, per parlare dell’oggi. Lasciando infatti stare la colonizzazione dei secoli passati sono almeno trent’anni che l’intero Occidente a guida americana si bea d’essere una “cultura superiore” che è il modo attuale di declinare il razzismo, nei suoi vari aspetti, poiché quello classico, dopo Hitler, non è più praticabile. E’ in nome di questa “cultura superiore” che da trent’anni aggrediamo, con la violenza delle armi o dell’economia, altri popoli che hanno vicende storiche diverse dalla nostra e culture che non vogliono omologarsi alla nostra. Tutto ciò, naturalmente, è addobbato con i buoni sentimenti, con la difesa dei cosiddetti “diritti umani” che noi per primi calpestiamo quando irrompiamo in realtà diverse. Quando sento parlare di “diritti umani” metto mano alla pistola perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno. Debbo rifare la filastrocca? La rifaccio, anche se Travaglio sostiene che repetita non iuvant: Serbia (1999), Afghanistan (2001 e, per ora, 2018), Iraq (2003), Somalia (2006/2007), Libia (2011). Ma in questo discorso rientrano anche le decennali sanzioni all’Iran che si permette di essere una teocrazia e non una democrazia, il Venezuela di Chavez e ora di Maduro che con tutta probabilità è il prossimo obbiettivo del nostro imperialismo, e anche la Corea del Nord che osa, nientemeno, essere comunista. Il Papa infatti dice un’altra cosa che è un corollario dell’attacco alla ‘cultura superiore’: “unità non significa un’uniformità asfissiante che nasce dal predominio del più forte”. E’ un attacco diretto e senza remore alla globalizzazione e al modello di sviluppo occidentale che, come dice Francesco, sta asfissiando tutti i popoli del mondo, compreso il nostro.
Ma il Papa dice anche una terza cosa che si collega alle prime due: “non c’è sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra”. Non è un discorso puramente ecologico, e in questo senso quasi banale, ma riguarda il ritorno alla terra, all’agricoltura, dove risiede il nostro futuro semmai, continuando di questo passo, avremo ancora un futuro. Perché è dalla terra che noi traiamo il cibo, non dal cemento, non dal carbone, non dal petrolio, non dall’industria, non dalla finanza.
Questo profondo discorso di Papa Francesco è stato praticamente ignorato o messo sottordine da tutti i giornali, compreso, ahinoi, il nostro. Disturberebbe il manovratore. Il titolo di testa del Corriere della Sera di ieri è centrato su questa fondamentale questione: “Primarie 5 Stelle, liti e ricorsi”. Del discorso del Papa parla sì, e in termini corretti (è l’unico a farlo) ma solo a pagina 13 per la firma di Gian Guido Vecchi. La Repubblica, il più laido dei giornali che si dicono laici, lo fa a pagina 15 ma soffermandosi solo sugli aspetti pietistici del discorso papale. Solo Avvenire coglie la polpa del discorso del Pontefice a Temuco, titolando: “Non c’è una cultura superiore all’altra”.
E così in questa Italia degradata e provinciale, anche giornalisticamente (probabilmente il discorso di Francesco avrebbe avuto un diverso rilievo se avesse parlato dalle logge Vaticane) a noi che ci definiamo degli ‘onesti pagani’ per leggere qualcosa che abbia un senso, che dia una direzione sul nostro presente e sul nostro futuro, ci tocca comprare, d’ora in poi, Avvenire, Famiglia Cristiana e anche L’Osservatore Romano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2017
Dopo le recenti e ripetute violenze di baby gang formate da adolescenti, preadolescenti e quasi-bambini ai danni di persone indifese o in chiaro stato di inferiorità, Forza Italia ha proposto di abbassare l’età della ‘non punibilità’ da 14 a 12 anni. Sono d’accordo e andrei anche più in là: la porterei a 10. Oggi un bambino di dieci anni non è un bambino della stessa età di altri tempi. Grazie, o a causa, dei nuovi media ha una maggiore consapevolezza. Anche se, a contrario, proprio questi nuovi media, che i bambini usano compulsivamente, possono contribuire a fargli travisare la realtà. Comunque non c’è età in cui non si possa comprendere che mandare a fuoco un clochard dopo essersi divertiti per mesi a molestarlo e a irriderlo in ogni modo o aggredire un vecchio indifeso non è una ‘marachella’ ma un reato grave. Racconta un ufficiale di Polizia che si è occupato di uno dei casi in questione che questi ragazzini si sentono fortissimi quando agiscono in gruppo ma si sciolgono in lacrime quando si trovano da soli davanti a un magistrato che li interroga sia pur con tutte le dovute cautele del caso. Piccoli criminali e piccoli vigliacchi. Quando Vallanzasca, a dieci anni, insieme al fratellino di otto, aprì le gabbie di un circo per liberare tigri e leoni, sembrandogli quella prigionia intollerabile, davanti alle Autorità mantenne l’atteggiamento spavaldo di sempre. Rimase cioè se stesso. Preferisco.
Si dice, credo giustamente, in particolare da Marco Minniti, un ottimo ministro degli Interni, che questo fenomeno non può essere contenuto solo con la repressione, ma ci vuole l’educazione da parte della scuola e della famiglia. E qui il discorso non riguarda più i ragazzini ma gli adulti, cioè i genitori. Che autorità possono conservare i docenti se appena si permettono una nota di biasimo vengono aggrediti dai genitori per ‘lesa maestà’ del loro stronzissimo rampollo? Io penso che si debba abbandonare definitivamente il primo Spock, quello del permissivismo a oltranza, e tornare ai vecchi metodi. Tutta la mia generazione è stata allevata a cinghiate, nel senso letterale del termine: il padre si toglieva la cinghia dei pantaloni e te le suonava per ‘marachelle’ di gravità infinitamente inferiore a quelle che oggi ci vengono continuamente segnalate. Eppure non siamo cresciuti né delinquenti né disturbati. Quando divenimmo ventenni fummo protagonisti di una contestazione dolce, quella hippy, agli adulti che chiamavamo affettuosamente “i matusa”. I sessantottini, già figli del permissivismo, vezzeggiati e coccolati da piccoli e da grandi, abbracciarono invece una violenza vile e stupida. Per esempio picchiare l’’avversario’, o presunto tale, in trenta contro uno. Una cosa da far vomitare come fan vomitare i ragazzini che sbeffeggiano e magari uccidono un clochard o un vecchio.
E’ inquietante questa nuova gioventù. Per la maggioranza è formata da bravi ragazzi ma totalmente imbelli, tanto da subire ogni sorta di sopruso non solo dai coetanei più aggressivi ma dal mondo della politica. Dall’altra parte ci sono i piccoli delinquenti attivi sulla strada ma anche, e forse soprattutto, sul web.
E’ in atto una sorta di mutazione antropologica e sociale. Per noi, figli dell’immediato dopoguerra, era un punto d’onore difendere il più debole. E se qualcuno si fosse permesso di angariarlo o irriderlo avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte sacrosante. Certo anche noi ci davamo battaglia nei terrain vague che ci avevano lasciato graziosamente i bombardamenti angloamericani (parlo di Milano). Ma c’erano delle regole, inderogabili. Se un ‘avversario’ cadeva a terra non lo si poteva toccare finché non si fosse rialzato. Se si capiva che qualcuno si era fatto male sul serio “fermi tutti”. Una volta che il mio gruppo si trovò in otto contro sei, uno dei nostri passò dall’altra parte per pareggiare i conti. Non c’era una vera rivalità, ideologica o di classe (da ragazzini facevamo tutti, poveri o ricchi che fossimo di famiglia, la stessa vita). Avevamo solo bisogno di sfogare la nostra vitalità giovanile.
Oggi noi italiani, giovani o adulti che si sia, siamo o imbelli o violenti in modo vigliacco. Anche gli immigrati che tanto temiamo, o almeno una parte di essi, sono strafottenti e violenti ma almeno, nella maggioranza dei casi, dimostrano coraggio. E’ una delle ragioni, insieme a quella fondamentale della denatalità, per cui se non si dà rapidamente una mossa “la razza bianca”, termine usato dal candidato di centrodestra alla presidenza della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e su cui si è innestata una stupidissima quanto ipocrita polemica, è destinata a scomparire.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2018