La polemica che ha coinvolto il comandante di Marina Gregorio De Falco, candidato alle prossime elezioni per i 5Stelle, potrebbe essere definita lunare se non fosse terrestre, molto terrestre aderente non solo alla più avvilente campagna elettorale da quando è nata la Repubblica, ma anche, e peggio, a uno spirito del tempo, puritano, bacchettone, ipocrita.
Dunque, secondo voci provenienti dalla pattumiera del pettegolezzo preelettorale De Falco avrebbe malmenato la moglie nel corso di un litigio sorto a proposito della loro separazione e sarebbe perciò un candidato ‘indegno’. Non risulta che la donna abbia sporto denuncia. Si tratta quindi di un fatto squisitamente privato, familiare in cui nessuno ha diritto di mettere becco. “Fra moglie e marito non mettere il dito” dice un vecchio proverbio popolare, saggio come tutti i proverbi. E male, malissimo, ha fatto il candidato premier dei 5Stelle Di Maio ad annunciare che telefonerà alla moglie di De Falco per accertare la verità dei fatti. Non sono cazzi suoi. Ci mancava ancora che un leader politico si mettesse in cattedra, come un novello Santi Licheri, a sindacare sui rapporti fra marito e moglie (lo ha fatto anche Renzi).
Questa confusione fra ciò che è privato, e tale deve rimanere, e ciò che è pubblico offre il destro all’editorialista del Giornale Francesco Maria Del Vigo per sparare nel mucchio dei 5Stelle, mischiando cose che non stanno insieme, liti familiari e atti penalmente rilevanti, reati colposi e reati dolosi, candidati che hanno trattenuto quattrini in loro legittimo dominio e candidati inquisiti penalmente per essersi impossessati in modo truffaldino di denari dello Stato, cioè nostri (Forza Italia, il partito di riferimento del giornale berlusconiano, ne ha 22, il Pd 29). Faceva una certa specie, faceva pena, faceva ridere, leggere l’altro giorno a tutta pagina il titolo “Ora lo possiamo dire: Grillo è un evasore” su Il Giornale, il quotidiano di proprietà, di fatto, di Silvio Berlusconi, il più grande evasore ed elusore fiscale degli ultimi vent’anni e per questo condannato in via definitiva a quattro anni di detenzione e definito “delinquente naturale” (cioè uno che delinque anche quando non ne ha bisogno). Nel mio Dizionario del Ribelle ho risolto la voce Pudore con una sola parola: “scomparso”. E in questa spudoratezza, che è lo spirito di questi tempi, rientrano anche quelle “vergini dai candidi manti” che a vent’anni di distanza ricordano improvvisamente di essere state ‘molestate’ o vittime di “atti inappropriati” (che cosa significhi questa formula vorrei che qualcuno me lo spiegasse, non vorrei finire nelle sillane liste di proscrizione di ‘Metoo’ o di ‘Time-s Up’).
Se fossi stato nei panni dei 5Stelle Gregorio De Falco non l’avrei candidato. Ma per tutt’altri motivi. Per aver maramaldeggiato su Francesco Schettino intimandoli di risalire a bordo, sapendo benissimo che il comandante della Concordia era ormai fuori di testa e fuori gioco. Quello che avrebbe dovuto fare De Falco, invece di esibirsi da fenomeno davanti all’opinione pubblica, era di mandare un elicottero da Livorno (ci vogliono quindici minuti per arrivare all’Argentario) calando sulla Concordia un paio di ufficiali di Marina che prendessero in mano la situazione. E infatti lo pseudoeroe invece di essere promosso come si aspettava fu trasferito agli uffici amministrativi della Direzione marittima di Livorno. E al momento della tragedia davanti all’Isola del Giglio il comandante di una di queste grandi navi a proposito della muscolare esibizione di De Falco commentò: “In Marina c’è chi va per mare e chi sta più comodamente a terra”. Così come nella politica e nel giornalismo c’è “chi va per mare”, cioè cerca di seguire princìpi, logica, coerenza, magari sbagliando, e chi, avendo la coda di paglia e stando comodamente al coperto della propria spudoratezza, scrive articoli alla Francesco Maria Del Vigo.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2018
La tesi esposta da Massimo Fini in un articolo apparso sul FQ del 13 febbraio 2018 è contraddittoria, perché sostiene che una «democrazia liberale» deve riconoscere il diritto di esistenza, e dunque anche di espressione e di libera circolazione, anche ad «idee antidemocratiche», «purché, naturalmente, non cerchino di farsi valere con la violenza». Ciò implica logicamente che, se tali idee non si facessero valere con la violenza, ma si imponessero a maggioranza con metodo democratico, dovrebbero essere accolte e riconosciute come legittime ( in applicazione dell'Articolo 21 della Costituzione Italiana stessa). A danno del sistema, perché un regime antidemocratico non concederà al precedente regime democratico lo stesso diritto a esistere. Piero Calamandrei ha affermato che «nei regimi dove manca una legalità da difendere, può avvenire che il giurista "senta il dovere di deporre la toga per prendere le armi"». Ciò che Massimo Fini non vuole ammettere è che i principî di libertà, uguaglianza e fratellanza emersi dalle ceneri della Rivoluzione francese del 1789 non sono e non possono essere "universali". E nemmeno possono essere considerati ideali cui tendere come possibilità teorica, perché in realtà sono una impossibilità logica. Portati alle loro estreme conseguenze, tali principî mostrano il loro limite e la loro radicale illusorietà. La stessa di cui si alimentano i populismi emergenti, i quali pretendono di vedere realizzate per tutti promesse a priori impossibili da mantenere. E chi diffonde consapevolmente tali illusioni è responsabile del disordine politico attuale più di chi a tali illusioni ingenuamente crede.
Giorgio Sirtori
Non vedo che differenza ci sia fra un sistema democratico che impedisce il diffondersi di idee antidemocratiche (vedi la proposta Boldrini tipicamente ‘fascista’) e un sistema totalitario che impedisce il diffondersi di idee democratiche. Come scrive Flaubert ne L’educazione sentimentale nessun sistema di governo, democratico, totalitario, di diritto divino è legittimo perché si basa su una petizione di principio: l’autoconvinzione di essere l’unico legittimo. Tutti questi sistemi di governo, e altri che si potrebbero citare, non sono, come scrive Flaubert, che finzioni. Nessuna legalità è veramente tale. Faccio notare che la Democrazia nasce da una Rivoluzione violenta, quella francese, in seguito Napoleone si incaricherà di portare la ‘buona novella’ in Europa sulla punta delle baionette. Non vedo perché non possa avvenire il contrario. A meno che non si creda, come è insito in ogni storicismo, che la democrazia sia destinata a essere eterna e sanzioni quindi la fine della Storia.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2018
La vecchiaia cambia le abitudini, si sa. Andavo a letto tardissimo e mi alzavo a mezzogiorno. Adesso vado a letto sempre tardi, anche se un po’ meno, ma spesso mi alzo un pochino prima dell’alba. Mi siedo nel soggiorno e davanti alla finestra, sul grande viale della Liberazione che congiunge il nuovo quartiere-Manhattan con la Milano anni Cinquanta o fascista, vedo lunghe file di macchine i cui fari splendono nel buio del mattino che sta iniziando. Al volante c’è, in genere, una sola persona, uomini e, in misura minore, donne. I tram non sono zeppi come quando ero bambino, ma in ogni modo ci sono parecchi passeggeri, alcuni in piedi attaccati al corrimano. Il grosso viaggia sottoterra, in metropolitana. Altri stanno arrivando in treno dall’immenso hinterland e da quella che si chiama la ‘città metropolitana’. E’ tutta gente che va a lavoro.
Mi colpisce come, in soli due secoli e mezzo, ci siamo fatti ridurre a “schiavi salariati”. Nei ‘secoli bui’ l’uomo, contadino o artigiano che fosse, disponeva del suo tempo. Per essere più precisi: il suo tempo, i suoi tempi dipendevano dalle esigenze della vita, non erano dettati da un imprenditore e dalle regole stabilite dalla società. Noi oggi, senza nemmeno tanto accorgercene, siamo diventati delle merci in movimento, i cui tempi sono contingentati, regolati fino al più piccolo gesto. Non siamo più nemmeno uomini ma oggetti.
E’ stato un lungo processo. Fra il XVII e il XVIII secolo si compie in Europa un capovolgimento di portata copernicana: si passa da un’epoca in cui l’economia è ancora subordinata alle esigenze della comunità umana a un’altra in cui le leggi economiche prendono liberamente il sopravvento ed è l’uomo a doversi piegare a esse. Le leggi economiche vengono considerate, né più né meno, come leggi di natura, ineluttabili, alle quali è inutile cercare di opporsi, che bisogna anzi assecondare per evitare guai peggiori di quelli che si vorrebbero evitare. Si impone, come afferma Dijksterhuis “la meccanizzazione della concezione dell’universo”. Si comincia, grazie anche al prepotente affermarsi del denaro (“la tecnica che unisce tutte le tecniche”, Simmel) a valutare l’esistente in termini matematici, contabili, quantitativi. La terra, prima inalienabile, e l’uomo, le sue energie, diventano merce. Prima della Rivoluzione industriale che porterà a compimento il primato assoluto dell’economia, l’uomo non era considerato una merce. Il signore, il maestro artigiano, il padrone della bottega non considerano i propri dipendenti una merce né essi si sentono tali. I rapporti sono talmente intrecciati, complessi e personali che il valore economico delle reciproche prestazioni ne rimane inglobato e non può essere enucleato. Il feudatario può considerare il servo casato addirittura una sua proprietà, ma sempre come persona, non come cosa, oggetto, merce. L’attività del dipendente è incorporata nella sua persona. E il lavoro non è una merce perché è impossibile staccarlo da chi lo fa e oggettivarlo.
Agli inizi dell’era industriale i tempi del lavoro, cioè dell’energia umana diventata merce, cominciano a essere conteggiati, contabilizzati, controllati fino al secondo, anche perché l’operaio deve adattarsi al ritmo della macchina. Si arriva al cronometraggio e all’analisi dei tempi. Nascono mestieri mostruosi: il cronometrista e l’aiutocronometrista che verificano i tempi di lavoro dei compagni. In seguito si inventeranno macchine non meno mostruose come il cronociclografo, un incrocio fra un orologio registratore ad altissima precisione e il cinema, che permette di studiare i tempi e i movimenti, anche minimi, del lavoratore mentre compie ogni singola operazione. La velocità del lavoro diventa un dogma (“il tempo è denaro”) bisogna abbattere i “tempi morti”. E’ il taylorismo.
Il braccialetto brevettato da Amazon non è che l’ultima estremizzazione del dogma della velocità. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, vuole monitorare i suoi lavoratori e le loro mani in ogni singolo movimento con un braccialetto da far indossare ai suoi dipendenti, in grado di emettere ultrasuoni o vibrare in caso di errore per rendere più veloce la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini. Del resto, braccialetto o no, esiste già un “passo Amazon” con obbiettivi di smistamento da due pacchi al minuto, tempi contingentati per andare in bagno e una catena di montaggio controllata dal primo all’ultimo minuto. Amazon non è che l’emblema di uno dei più devastanti totem della modernità: la velocità appunto. Tutto deve essere veloce, andare veloce, sempre più veloce, ancora più veloce. I vecchi se ne accorgono più facilmente perché non riescono a tenere il passo, sono inesorabilmente superati. Ma anche generazioni più giovani, sempre più giovani, arrancano.
Ma la velocità non è solo un problema individuale e sociale, è una questione che investe tutto il mondo occidentale e i Paesi che hanno adottato o stanno adottando il suo modello di sviluppo.
Dove ci porteranno il dogma, il mito, la pratica della velocità? Nel 1989 andai al Cern di Ginevra a intervistare Carlo Rubbia per l’Europeo. Che titolo abbia dato il settimanale a quell’intervista non me lo ricordo, riprendeva però quello che il direttore di Pagina, Aldo Canale, aveva dato alcuni anni prima a una mia inchiesta sulla pericolosità della Scienza tecnologicamente applicata: “Scienza amara”. Rubbia all’inizio era molto infastidito. Scienziato, positivista, illuminista gli sembrava inconcepibile, addirittura irriguardoso, che si ponessero dei dubbi sulla Scienza. Mi bollò come “apocalittico” e, dopo cinque minuti, voleva già liquidarmi. Finché io, a mia volta spazientito, gli dissi: “Professor Rubbia lei è un fisico e le pongo una domanda per la quale vorrei una risposta da fisico: non è che andando a questa velocità noi stiamo accorciando il nostro futuro?”. “Ah, ma lei è un filosofo” disse Rubbia che così cadde completamente nella mia considerazione. Però cambiò il suo atteggiamento. Disse: “Capisco la sua angoscia. Noi siamo su un treno che va a mille chilometri l’ora e che per sua coerenza interna deve aumentare continuamente la sua velocità. Ai comandi non c’è nessuno o se c’è si illude di averli sottocontrollo. E non sappiamo nemmeno se abbiamo superato ‘il punto di non ritorno’. Se cioè sia ormai troppo tardi per invertire la rotta e scongiurare l’inevitabile scontro con la montagna”.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2018