0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il primo numero di Repubblica è del 14 gennaio 1976. Ma io entrai al giornale, nella redazione milanese, tre mesi prima nella fase di preparazione e dei numeri 'zero' che è la più stressante. Venivo dall'Europeo di Tommaso Giglio dove mi trovavo benissimo (Giglio avrebbe detto “con le qualità di Fini qui all'Europeo ho visto entrare solo Bocca e la Fallaci”, ma lo disse, la carogna -tutti i direttori, più o meno lo sono- solo dopo che me ne ero già andato) ma mi attraeva l'impresa nuova come in seguito mi avrebbero attratto l'Indipendente di Feltri e Il Fatto quotidiano. E poi c'era Eugenio Scalfari che era già un nume del giornalismo italiano. Un bellissimo uomo, affascinante, suadente, insinuante e sinuoso come una baiadera. Facevo parte del gruppo dei giovani talenti, o presunti tali, che 'la Grande Eugène' aveva ramazzato dagli altri giornali per fare il suo. Ed effettivamente di talenti ce n'erano, come Leonardo Coen, un nevrotico da paura che si mangiava i fogli di carta su cui batteva -allora si lavorava ancora con la Lettera 32- e forse li inghiottiva anche, ma bravissimo o il più pacato Giovannino Cerruti che poi andrà alla Stampa. Inoltre fra me e Bocca, strappato a suon di quattrini al Giorno, era nata una istintiva simpatia.

Mi ricordo che Scalfari per compattare la redazione milanese organizzò una cena a casa di Giorgio Bocca dove erano presenti altri prestigiosi giornalisti come Pirani e un intellettuale dell'Avanguardia – il 'Gruppo 63' odiatissimo da Pasolini- di cui ora non ricordo il nome perché sto scrivendo a braccio, che girava su una Ferrari rosso fiammante. Andai a quella cena col cuore in tumulto: chissà che cosa avrei sentito da quelle bocche. Invece parlò per quasi tutta la sera Silvia Giacomoni, la moglie di Bocca. Io di sottecchi guardavo Giorgio e mi dicevo: ma perché non zittisce la rompicazzi (Silvia mi perdoni, in seguito saremmo divenuti amici)? Salvò la situazione un giornalista fiorentino, Manlio Mariani, che la interruppe con una sfilza di battute e di aneddoti come sanno fare i toscani.

Una prima perplessità mi venne quando una domenica mattina tutta la redazione milanese si trovò a Linate per andare a partecipare a Roma a una riunione di tutto il giornale. Il capo della redazione milanese, Gianni Locatelli, pretese di andare a messa nella chiesuola dell'aeroporto facendoci quasi perdere l'aereo. Ma come, la Repubblica non era 'un giornale laico, che più laico non si può'?

Conobbi così i colleghi della redazione romana. Durante la riunione Scalfari disse, fra le altre cose, che io ero praticamente un'inviato (era il ruolo che avevo avuto all'Europeo) anche se ero stato assunto come redattore. Avevo quindi la strada spianata. Ma in quell'ambiente radical chic mi trovavo terribilmente a disagio, finché sono stato giovane ero abituato a frequentare i mondi borderline, le bettole e, la notte, “a giocare, fare a botte, sciocchezze e altre schifezze” come canta Alessandro Mannarino.

Per la Repubblica scrissi sui primi due numeri, un articolo sulla Statale l'altro era un'intervista a Guido Crepax, per cui ricevetti altrettanti telegrammi di congratulazione di Scalfari che conservo gelosamente. Poi decisi di filarmela. Ho sempre fatto così, cerco di andarmene dopo aver fatto fino in fondo il mio dovere. Come col disastroso Nuovo Europeo di Mario Pirani che nel suo primo numero porta in copertina una mia intervista a Toni Negri in galera (allora non era così facile, non bastava mettersi d'accordo con un onorevole, bisognava proprio fare entrare clandestinamente le domande scritte in carcere – fu determinante l'aiuto che mi diede l'avvocato Giuliano Spazzali). Dissi a Gianni Locatelli della mia decisione. Gianni, che è una bravissima persona, arrossì visibilmente: “Non ti sono simpatico?”. “No, non è questo”. Poi presi l'aereo per Roma e mi presentai da Scalfari. Lui non fu severo, disse solo: “E ora cosa pensi di fare, vivere di rendita?”. “Non lo so” risposi. Ma poiché è un calabrese rancoroso quella cosa non me l'ha mai perdonata e se fosse stato per la Repubblica e l'Espresso io in questo Paese, culturalmente, non sarei mai esistito anche quando divenni un giornalista noto e uno scrittore.

Ma a Repubblica non ho nulla da rimproverare. Non erano loro a essere sbagliati -come la storia dimostrerà- ero io a essere sbagliato per loro.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il caso di Quarto è grottesco. Ammettiamo pure che il sindaco Rosa Capuozzo che pure allo ‘stato’ come avrebbe detto il buon Di Pietro non è indagata (ha però subìto una perquisizione e qui rivolgo una domanda ai giuristi: si può essere oggetto di una perquisizione anche se non si è indagati? Se la risposta è sì entriamo diritto e difilato in uno Stato di polizia) sia responsabile di non aver denunciato alla magistratura dei ricatti che gli sarebbero stati fatti dall’ex consigliere comunale Giovanni De Robbio già espulso dai Cinque Stelle per una trafficata storia di un minimo abuso edilizio che la stessa Capuozzo tentò di sanare con un condono, ma fuori tempo. Il caso Quarto è grottesco per un’altra ragione. Quarto è una cittadina di quarantamila abitanti e chi ha soffiato sul fuoco di questo caso montandolo a dismisura non è Santa Maria Goretti ma, con l’appoggio di quasi tutti i media, il Pd che è totalmente implicato, penalmente, nel malaffare di ‘Roma Capitale’ che oltre a essere capitale ha qualche abitante in più di Quarto e proprio qualche giorno fa un suo esponente di spicco, Daniele Ozzimo, ex assessore alla Casa dei Dem, è stato condannato a 2 anni e 2 mesi di reclusione per un’accertata collusione con la mafia. Condannato quindi, non indagato o in sospetto di poterlo essere. Qui siamo fuori anche dal detto fiorentino “cencio dice male di straccio”. Perché ‘cencio’, alias il Pd, è infinitamente più sporco, in termini quantitativi e qualitativi, di ‘straccio’ vale a dire il sindaco grillino di Quarto Rosa Capuozzo. E’ nota la tecnica dei politici italiani che quando sono coinvolti in un grosso scandalo ne vanno a enfatizzare uno modestissimo per nascondere il primo.

Ma nemmeno l’atteggiamento dei Cinque Stelle in questa vicenda mi ha convinto. Anzi mi ha inquietato in particolare una dichiarazione di Luigi Di Maio per giustificare la richiesta di dimissioni della Capuozzo. Questa: “Il Movimento ha un garante che è Grillo. A decidere come sempre sono coloro che certificano le liste. Sono scelte relative ai comuni e a casi singoli. Solo che quando si dà il simbolo nessuno si chiede chi lo abbia deciso. Quando lo si toglie, nessuno lo ricorda”. Qui si entra in una logica che oserei definire staliniana, parlo proprio di Iosif Vissarionovic Dzugasvili che eliminò tutti i principali protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre da Trotsky a Zinoviev, a Kamenev, a Bucharin, col pretesto che facevano “oggettivamente il gioco del nemico”. Siamo su dimensioni storiche incommensurabili, perché la Capuozzo non è Trotsky (sul cui “onore di rivoluzionario” oltretutto, come scrisse lui stesso nel suo testamento, non c’era macchia alcuna) ma la logica espressa in questi giorni da Grillo, Casaleggio, Di Maio e altre frange del movimento grillino mi sembra la stessa. Non è il caso di scomodare la frase, spesso citata a capocchia e male, del vecchio e saggio Pietro Nenni: “Anche il più puro dei puri trova alla fine uno più puro di lui che lo epura”. Basta ricordare una vecchia canzone, mi pare di Carosone, che si intitolava “E la barca tornò sola”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2016

0
0
0
s2sdefault
powered by social2s

Il test sulla Bomba H, una sorta di potenziamento dell’Atomica diciamo così normale, effettuato dalla Corea del Nord, ha suscitato, come hanno enfatizzato ieri tutti i media, una condanna unanime, di Ban Ki-moon, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la consueta minaccia di ulteriori sanzioni economiche per “violazione del diritto internazionale”. Con tutta probabilità questo test è solo una burletta propagandistica come sembrano pensare anche gli Stati Uniti che hanno sollevato forti dubbi sulla sua validità.

Ma facciamo il caso che non sia una burletta. La Corea del Nord, con Israele, India, Pakistan, non ha firmato il ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP). Di che “violazione del diritto internazionale” si sarebbe quindi resa responsabile? Se uno non firma un trattato non lo può nemmeno violare. In realtà i veri proliferatori del nucleare atomico sono gli Stati Uniti che hanno sì ridotto le loro testate (averne 10.000 invece che 15.000 non cambia niente visto che basta un centinaio di questi ordigni per distruggere l’intero pianeta) ma hanno fornito la tecnologia necessaria a circa 35 paesi fra cui Francia, Gran Bretagna, Canada, Israele, India, Australia, Algeria, Corea del Sud e persino all’arcinemico Iran (business ‘non olet’). In genere i firmatari del TNP lo hanno rispettato non facendo nuove Bombe se già le avevano o non costruendole ex novo, per loro precisa volontà o perché impossibilitati a innescare un processo tecnologicamente così sofisticato (fra i paesi a cui gli Usa hanno fornito la tecnologia c’è la Repubblica del Congo, figuriamoci). L’Iran è uno di quei paesi che non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione ma lo ha anche rispettato accettando le ispezioni dell’AIEA che non hanno mai rilevato nelle centrali nucleari che Teheran ha costruito ad usi civili e medici un arricchimento dell’uranio superiore al 20% (per arrivare alla Bomba l’arricchimento deve essere del 90%) eppure per trent’anni ha subìto pesantissime sanzioni economiche dalla cosiddetta ‘Comunità internazionale’, cioè dagli Stati Uniti, e ne è uscito solo di recente perché i pasdaran iraniani servono all’Occidente, così come i peshmerga curdi, per combattere l’Isis senza rischiare la propria pelle.

Dice: ma Kim Jong-un è un dittatore, “pazzo e imprevedibile”. A parte il fatto che l’Atomica, come è noto, ha solo un valore di deterrenza e nessuno per quanto ‘imprevedibile’ sarebbe così pazzo da gettarla perché il suo paese e lui-meme sarebbe immediatamente spazzato via da una tempesta nucleare (e anche i dittatori, anzi soprattutto loro, ci tengono alla propria pelle) secondo Ian Bremmer, presidente del centro studi Eurasia Group, Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin. Ma quando un mese fa l’autocrate russo invece di far test nucleari (non ne ha bisogno, anche lui di Bombe ne ha circa 10.000) minacciò, sia pur in modo ambiguo, di usare l’Atomica in Medio Oriente contro l’Isis, la cosa passò quasi sotto silenzio. Invece per la burletta di Kim Jong-un si è scatenato il finimondo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2016