Perché Fini mi piace così tanto? Interrogativo al quale ho sempre dato la risposta più ovvia – e qui, forse, sta il tributo più importante al Fini giornalista -: per quello che scrive. Per la sua capacità di non essere mai banale, frutto anche della scelta di raccontare storie, più che perdersi nella politica politicante. E per quell'anticonformismo che lo ha reso l'unico vero intellettuale tra i giornalisti italiani. E la lettura di Una vita ci consegna un Massimo Fini in grandissima forma, forte di tutto il suo antimodernismo -straordinarie le pagine nelle quali canta la nostalgia per la Milano della sua giovinezza – e della vis polemica che per decenni -per quanto fosse detestato tanto dalla sinistra, quanto dalla destra, altro grande merito – lo ha portato sulle prime pagine dei più importanti giornali italiani.
La storia di Massimo Fini è quindi anche uno straordinario spaccato del mondo dei media italiani: dire che i più grandi nomi del giornalismo italiano non ne escano benissimo – per quanto Fini non usi mai toni meno che rispettosi – è puro eufemismo. L'antimodernismo di Fini finisce per generare anche il nostro. L'impressione, infatti, è che il giornalismo italiano nel quale Massimo Fini ha comunque potuto vivere la sua straordinaria carriera, non esista più. Intellettuali del suo livello, nel mondo delle notizie twitta e fuggi, forse non ce ne sono più. Ma sono venute meno anche le condizioni perché questi possano esprimersi come è stato possibile a Fini.
Maurizio Di Giangiacomo
Alto Adige, 20 aprile 2015
«Ho vissuto un'esistenza mediocre in una società mediocre», scrive il settantunenne Massimo Fini. Ma in verità questa biografia trasuda una vita tutt'altro che banale: da cui emergono, con ogni evidenza, i tre volti dell'autore.
Innanzitutto, il giornalista. Titolare nel 1985-95 di una seguitissima rubrica sull'«Europeo», Fini non si è mai identificato con quella o altre testate, cambiandole a iosa, dall'«Indipendente» di Feltri al «Fatto Quotidiano». Come mai questa lunga infedeltà? Forse perché egli rappresenta un unicum, come aveva intuito Montanelli. La sua penna, infatti, non è assimilabile né al soporifero «cerchiobottismo», e neppure al modello del «libero servo», brillantemente incarnato da Giuliano Ferrara. Ma Fini non è nemmeno un giornalista «anglosassone», restando un osservatore impressionista, a suo modo sempre partecipe. Forse è, semplicemente, un uomo solo, non di destra né di sinistra, in grado di lanciare stilettate a tutto campo.
Lo confermano, qui, i suoi affreschi senza perifrasi: i reduci sessantottini, consumati dal tarlo del carrierismo compulsivo; gli intellettuali antifascisti, i più conformisti di tutti; i piccoli e grandi nomi della carta stampata (incluso il suo amico Giorgio Bocca, immortalato in un ritratto tanto affettuoso quanto spietato); Don Giussani («su Dio brancolava nel buio quanto me»); il cupio dissolvi affaristico del glorioso Psi: un partito verso il quale Fini ha sempre mostrato un occhio sensibilissimo, forse perché esordì nel '70 proprio come cronista dell'«Avanti», quando era ancora un quotidiano perbene. Ma Fini non ha soltanto previsto, con largo anticipo, Tangentopoli e la furia popolare nel '92 contro la casta partitocratica. Ha vaticinato pure l'avvento del berlusconismo, come testimonia una sua straordinaria inchiesta uscita nel lontano '83 su Milano Due, cittadella dorata che inglobava in nuce tutti gli ingredienti della «nuova» Repubblica sorta nel '94.
Il secondo volto assunto da Fini è quello del «pensatore» antimoderno. Dal suo vecchio classico del 1985, La Ragione aveva Torto (un libro di culto, tutt'altro che campato in aria per essere stato scritto da uno storico dilettante), sino ai più recenti titoli sul «vizio oscuro dell'Occidente» prigioniero del proprio ombelico, passando per il Manuale contro la donna a favore della femmina e per un pugno di biografie «irregolari» (Nerone, Catilina, Nietzsche e Il Mullah Omar), il nostro autore è stato in grado di elaborare una «visione del mondo» d'indubbia originalità. Non occorre abbracciarla in toto per riconoscerne il sapore «against the current» (come Isaiah Berlin etichettava i pensatori illuministi, di cui ammirava la paradossale lungimiranza). Ad esempio, non solo quando smaschera il flop colossale delle guerre «preventive» e «umanitarie», ma anche quando rievoca la sua odissea sanitaria, affetto da glaucoma, tra medici gelidi e scostanti. Quest'incapacità della medicina tecnologica di parlare al paziente spiega moltissimo il successo, ahimè, dei «santi guaritori» alla Di Bella e Vannoni.
Attenzione, però: il sentimnto del tempo di Fini riflette una nostalgia senza rimpianto. Detesta, a parole, la civiltà industriale, e tuttavia non idealizza l'ancien régime, «un mondo fatto di durezze, di sofferenze, di diseguaglianze, di fatiche spesso bestiali». Semplicemente, rigetta la retorica del progresso e la filosofia del «meglio che deve ancora arrivare». Ma, a differenza di un de Maistre, Fini disconosce ogni Tradizione, incluse le proprie radici ebraiche. Figlio di un'istraelista russa scampata alla Shoah, da lui tratteggiata come un'aguzzina vuota di amore filiale, l'anti-monoteista Fini resta troppo anarchico per accettare gli obblighi di una «identità» vissuta al pari di una gabbia.
Per ultimo, due parole sul volto più carnale e borderline di Fini, quello di un Charles Bukowski dei nostri giorni, fra sesso, alcol (la sua droga) e tavoli da poker. Qui, per la prima volta, il «perdente di successo» si mostra in tutta la sua fragilità autodistruttiva, non tacendo neppure i giovanili abboccamenti omosessuali, in una Milano senz'altro più popolare e calorosa di quella odierna. Sono pagine di rara bellezza e intensità, degne di un grande scrittore.
Resta un dubbio: Fini ha amato molte donne, gratificato e violato il proprio corpo, sofferto (al pari di Montanelli) il «male oscuro» della depressione, rinunciato a una vera famiglia (pur figliando), assaporato il piacere libertino della solitudine, disdegnato ogni legame comunitario e scarnificato l'arroganza del potere. Con un pedigree tanto occidentale, come si troverebbe nell'Afghanistan dell'amatissimo Mullah Omar, da lui incensato come campione di un «medioevo sostenibile» capace di resistere al maleficio dei popcorn, delle patatine fritte e dei centri fitness?
Raffaele Liucci
Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015
Gentile Redazione,
scrivo in merito alla notizia pubblicata su 'Il Fatto Quotidiano' di oggi, inerente la decisione di Massimo Fini di cessare la collaborazione al giornale. Perciò questa lettera è soprattutto indirizzata a lui.
La prego, sig. Fini, non smetta di farci sentire la sua voce. Sono una donna anziana e con una pensione così misera che non spenderei neanche un centesimo per comprare un giornale ingrassato da questo stato. La prima rubrica che leggo sempre il sabato è la sua e nel caso non la trovi ci resto male.
Le sue idee mi piacciono non perché sia sempre d'accordo con lei (questo non è un problema per me: io non vado molto d'accordo neanche con le mie), ma perché il suo punto di osservazione è spesso alternativo a quello di gran parte degli altri, quindi più stuzzicante. Inoltre le sue idee sono le sue proprie: in un mondo di inginocchiati che procedono a mo' di trenino, questo è già ammirevole.
E poi chi lo dice che bisogna essere sempre superinformati fino all'ultimo secondo? Credo che lei abbia letto l'intervista di Curzio Maltese a Montanelli su 'la Primavera di MicroMega' del 2001. Spesso Montanelli parlava del passato, in un punto parla del «povero Meridione del principio del secolo», ma è un discorso valido anche per questo secolo, e se le cose vanno avanti così, varrà anche per l'inizio del prossimo.
Che c'entra l'interiorità di Borges? Perché, l'interiorità lei non ce l'ha? Basta posare la mano sulle proprie cicatrici, su quelle della Milano che era la sua, e ancora più in là, sempre più in là (dipende dal masochismo di ciascuno) e l'interiorità viene subito fuori: non è mica un regalo degli dei ai poeti.
Se fossi in lei non comprerei giornali e non guarderei neanche i talk show. Basta passeggiare per strada, ascoltare ciò che la gente dice mentre passa, fermarsi in qualche locale; se si vuole fare un articolo controcorrente vien bene uguale. In più si fa movimento e ogni tanto si guarda il cielo, che magari fa bene agli occhi. Mi sembra che fu Hans Ruesch a dire che l'intelligenza, per quanto grande, ha i suoi limiti: solo l'imbecillità non ha confini. E allora perché confinarsi davanti al televisore, per studiarla?
Sig. Massimo Fini, io spero di leggerla ancora perché, se è vero che «il mondo, tutto il mondo ha bisogno di amicizia», è altrettanto vero che il mondo, tutto il mondo ha bisogno d'intelligenza. La prego di continuare a darci il suo contributo. Grazie.
Gioia C.
Carissima «donna anziana» se fossi il direttore del Fatto la ingaggerei immediatamente per sostituirmi. Da quello che scrive, da come lo scrive, dai riferimenti che fa credo che il giornale non ci perderebbe, anzi magari ci guadagnerebbe un poco. Soprattutto in saggezza. Un grazie di cuore per le sue splendide parole.
Massimo Fini