Caro Massimo Fini, nella dedica sul tuo bellissimo libro che mi hai mandato, hai scritto, quasi fosse una colpa: «Questo è un libro intriso di nostalgia per i tempi andati, penso che un po' ne abbia anche tu...». Ma io dico, ma adesso, che c'hanno tutti contro la nostalgia? (forse perché i nostalgici sono stati per tanto tempo i fascisti e i monarchici e ne è rimasto il marchio? Boh...).
Io sono «futurista» e nostalgico e ho una purissima nostalgia di quando leggevo per gustare un giornalista «fuori ordinanza» e per tentare di essere «fuori ordinanza» pure io con i miei clarinetti e le mie stronzate.
La mia «nostalgia» per le tue cose non sarà ancora più forte perché non puoi più scrivere. Questo solamente NON succederà.
Perché tu sei «fuori ordinanza»!
Renzo Arbore
Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2015
Entrò in classe, la Terza C, una mattina di novembre ad anno scolastico già iniziato, ragazzino spettinato, disordinato, ma quasi austero, come i liceali di quel tempo, ribelli in giacca e cravatta. Lo riconobbi subito mentre ancora esitava, in piedi, intimidito, cercando con lo sguardo dove andare a sedersi. Non so se l’avete mai provato, ma poche esperienze come quella di essere aggregato, tu solo e in ritardo, a una comunità o classe di tuoi coetanei già affiatati, trasmettono, con l’imbarazzo di sentirsi diversi ed esaminati, un senso di indifesa estraneità. “Trovati un posto, sbrigati – intimò il prof d’italiano al nuovo alunno – stiamo facendo lezione!”. Poiché lo conoscevo e lì ero un principino, mi alzai, spinsi i libri e le mie cose sul banco verso la parete e gli indicai la sedia a fianco accanto all’altro banco. Mi raggiunse e mi diede la mano sospirando, ”Almeno uno lo conosco”.
A dodici, tredici anni, avevamo giocato insieme a calcio, all’oratorio dei padri salesiani, quelle partite che cominciavano in trenta e più giocatori divisi in due squadre che via via si assottigliavano fino a che i superstiti non venivano reclamati dal prete o da genitori spazientiti. Invece i resistenti a oltranza ricominciavano coi palleggi e, quando non li interrompeva il pallone sgonfiato o il sacrestano, continuavano oltre il tramonto, veri stakanovisti, a fare tiri in porta anche senza portiere.
Lui abitava lì vicino – la “casa dei giornalisti”- come gli altri ragazzini con cui arrivava e se ne andava. Facevano gruppo scambiandosi e commentando la Gazzetta dello sport, e giornali con le firme o le vignette dei loro padri e, con i ragazzi di altre classi sociali, ostentavano un’insopportabile arietta di superiorità. Poi scoprii che anche tra di loro le promesse di amicizia sacra e indissolubile si alternavano a scatti di rivalità, liti infantili, gelosie adolescenziali. Non ho mai avuto voglia di frequentarli, nessuno, salvo Massimo, a partire dal giorno in cui lo vidi prendere le difese di un piccoletto pestato da uno del suo gruppo, il più grosso.
Andammo a casa sua e la cosa che più mi colpì e gli invidiai fu che, figlio unico e orfano di padre, quando la mamma era assente aveva tutta la casa a disposizione. Su un tavolo teneva fissata una tela o tovaglia e, sopra, sparsi o impilati, era pieno di “tollini” (tappi di bottiglia) sul cui fondo incerato aveva incollato etichette di giocatori di tutte le squadre. Una play station fatta a mano, preistorica, artigianale anticipazione delle play station digitali e virtuali, su cui giocano oggi con i loro amici i nostri figli e nipoti. Era mezzo secolo fa, a Milano, oratorio dei Salesiani, Liceo Classico Carducci, casa dei giornalisti.
Mezzo secolo dopo Massimo Fini ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo più semplice immaginabile, “Una vita” (Marsilio, 2015). Leggendola mi sono accorto che del mio compagno di banco, dell’amico con cui ho fraternizzato e duellato per tanti anni, correndo ciascuno la sua gara, ciclicamente incrociando – destino o carattere che sia – l’uno la strada dell’altro, insomma, della sua vita, io, in realtà, ho sempre saputo troppo poco.
Bisogna dire subito che l’autore mantiene la promessa: dentro il suo libro c’è vita, molta vita, anzi, più vite. Più vite perché più esperienze intense e incisive l’hanno ingaggiato e assorbito su più fronti per poi essere riaperte e sezionate, come su un tavolo anatomico ed esibite sul banco, umana troppo umana mercanzia. Più vite scandite così dalle proprie personali date fatali come dalle epoche che abbiamo attraversato, quelle indispensabili a occupare mezzo secolo. Ma più vite anche in un altro senso.
Più vite da vivere contemporaneamente è molto più complicato che più vite vissute successivamente.
Quando parla di sé e di chi o di cosa nel mondo gli è stato famigliare, quando racconta di suo figlio e di sua madre, di altre donne e uomini, di quale umanità l’abbia fatto amare e odiare e da cui si sia sentito amato, trascurato, abbandonato, è allora che Fini ci coinvolge e ci tocca dentro come una spina, come una canzone. Come quando parla della nostra Milano degli anni sessanta – i primi (non gli ultimi, i cosiddetti “formidabili” di Mario Capanna), anni aperti e luminosi, costruttivi e contrastati in una Milano tutta da camminare, da esplorare, da toccare con mano, da cantare. Come quando parla della casa di famiglia, del babbo importante e della madre severa, di molti insegnamenti e di poca affettività. Della casa in cui ha sempre abitato e continua ad abitare, Massimo fa brillare un divano rosso, che, per molti, intervistati o semplicemente incontrati, si fece lettino di psicanalista, confessionale senza liturgia di uno che ti fa parlare rivelandosi, lui, più dell’ospite di turno, debole e colpevole di delitti del cuore, dei sensi, dell’indole. Colpe e debolezze oneste, le sue, perché irresistibili, ancestrali, ataviche. Dunque perdonate in partenza, Le sue, ripeto, non certo le colpe degli altri. Che, dopo un po’ di tempo, su un giornale, magari le trovavi spiattellate senza tanti riguardi. Decisamente Massimo è meno complice di come sembra.
Tecnica proibita, e si capisce perché, agli addetti associati alle varie confessioni cristiane e alle varie scuole freudiane, junghiane, kleiniane e chi più ne ha più ne metta. Ma, infine, un terapeuta più afflitto del paziente e però capace di consolarlo non è cosa da poco, soprattutto non è cosa da scuole o accademie di dottori affiliati e disciplinati da norme, codici e statuti.
Questo si capisce leggendo questo libro, ma questo dice poco della cosa più importante di “Una vita”: la scrittura. La sua scrittura, restando incollata alla realtà, si fa qui disinibita, vorticosa, aggressiva e, come aderendo alla sua condotta, alla sua caccia grossa di sensazioni, di barriere da scavalcare e di ebbrezze autodistruttive, ti contagia di temerarietà, per farti salire sulla sua giostra.
La differenza tra Fini scrittore e Fini giornalista è che, mentre negli articoli di giornale il bersaglio è sempre qualcun altro, nel suo ultimo libro il bersaglio su cui si accanisce è se stesso. Per quanto sia bravo come giornalista, saggista, polemista e ritrattista solo qui, diventato scrittore, tocca corde che vibrando fanno male, male vero, solo ad ascoltarle. Come assistere a un harakiri senza poter far nulla.
Se nel giornalismo Massimo si è occupato di personaggi e storie varie in modo quasi sempre polemico, come saggista ha spostato la polemica sull’attualità stessa, sempre più spesso facendo ricorso al pozzo del passato e alle sue risorse contro i moderni, i loro pregiudizi e le loro contraddizioni tanto arroganti quanto inspiegate. Così è diventato uno scrittore reazionario, oscurantista, retrò pur sempre coerente con il giornalista assediato dal fastidio, dal fardello, dalla miserabile ipocrisia dei contemporanei.
Rassicuro: Massimo sa indirizzare benissimo la sua penna dove vuole e come infierisce su di se, così sa anche gratificarsi e complimentarsi per una vita condotta all’insegna dell’onestà, del disinteresse, dell’indipendenza dal potere e dai suoi uomini. Rivendicazione più che legittima da parte di chi è stato censurato, denunciato, licenziato pagando non so quante volte il prezzo della coerenza. La coerenza, ahinoi, è una virtù a se, una virtù che parla di noi stessi, ma non dice nulla della realtà. Infatti, si può essere coerenti anche nel vizio, nella colpa, nella pigrizia e nei delitti: solo per questo saremmo anche virtuosi?
Impudico, Massimo racconta di se e dei suoi sensi di maschio etero e omo, seduttore sedotto e, infine, deluso dalle sue conquiste femminili. Come intreccia prosa on the road e prosa colta, all’ombra di Rimbaud e di Celine, così, mentre aspira alle virtù borghesi dei benpensanti non rinnega il vizio di esistere, di voler esistere senza limiti, senza cedere mai né alla fede né alla dea ragione. Tantomeno alla politica per lui sinonimo di potere, anzi, degli uomini di potere dell’odiato occidente – quasi un equivalente dell”odiata nazione” del Jules Verne di “Ventimila leghe sotto i mari”. Contro di loro – i potenti, i contemporanei, i conformisti – è persino ovvio, Fini dà sempre ragione agli altri, a tutti gli altri, da Catilina a Nietzsche, dal Mullah Omar a Beppe Grillo.
Dopo la discesa agli inferi delle notti insonni e degli incontri burrascosi viene anche per lui l’ora di lusingarsi, collezionando interviste e ritratti a gente famosa, a very important people. Qui il libro si fa più glamour, più studiato e quindi freddo. Da non pochi di questi incontri professionali lo scrittore riemerge giornalista un po’ troppo soddisfatto di essere così coraggioso e ribelle, implacabile o magnanimo a suo gusto, registrando compiaciuto anche le adulazioni e tenendo stretta, per sé, l’ultima parola, il commento definitivo. Sono registri di giornalisti avvezzi a fare ‘carrellate’ di personaggi di cui dispensare bozzetti fatti in giornata, per l’obbligo di consegnare il pezzo, come disegnatori di piazza. Ma era cosa giusta e onesta che in “Una vita” non mancasse il Fini giornalista che immagino sia per alcuni anche il più conosciuto e che, certo, aiuterà il successo del libro di uno scrittore vero.
Massimo sta diventando del tutto cieco. Ha scritto desolato che non potrà più scrivere. Non è vero, si sbaglia: può imparare il linguaggio dei ciechi, può usare le tecnologie che trasformano la voce in scrittura e le applicazioni che consentono ai ciechi di correggere i propri testi. Non si deve avvilire perché non vede, tantomeno annullare. So che a nessuno basta mai, ma lui ha visto tantissimo, quasi tutto quel che un uomo ha da vedere. Ha bisogno di un po’ di tempo per ritrovarsi nello spaesamento, per sopportare la mancanza del senso perduto e per potenziare e affinare l’udito, il gusto, l’olfatto e il tatto. Ha certo bisogno di compagnia, di molte voci, magari di radio a cui parlare oltre che da ascoltare, insomma, ha bisogno del suo lavoro, dei suoi famigliari e dei suoi amici e anche dei suoi nemici, oggi molto più di prima. Questa può diventare una cosa bellissima: è possibile, dipende, se … “solitaire et solidaire”, come diceva di sé Albert Camus, ed io ho detto di Massimo – dipende se, solitari e solidali saremo anche noi, gli altri, gli amici e i suoi lettori.
Claudio Martelli
© Riproduzione riservata
www.daringtodo.com/lang/it/2015/03/23/le-molte-vite-di-massimo-fini-di-claudio-martelli
Il negazionismo è un reato che -come ogni reato di opinione- non dovrebbe esistere in democrazia. Una democrazia è tale infatti quando accetta anche le visioni che le paiono più aberranti. Questo è il prezzo che paga a se stessa. Altrimenti -sindacando su cosa si può oppure non si può dire- si trasformerebbe in una teocrazia laica.
Con il reato di negazionismo, oltretutto, si impedisce anche la ricerca storica. Lo studioso David Irving -reo di aver scritto un libro negazionista, anzi secondo me parzialmente negazionista- è stato arrestato nel 2005 in Austria e condannato a 3 anni di carcere (che poi conta relativamente se siano stati ammazzati 6 milioni di ebrei oppure 4, la gravità è nel fatto di essere uccisi in quanto ebrei, o palestinesi, o malgasci).
Invece il diritto di ricerca storica è una delle grandi conquiste dell'Illuminismo, oppure vogliamo tornare ai tempi del cardinale Bellarmino, che tappava la bocca a Galileo?
Tra l'altro già oggi il nostro codice è pieno di reati liberticidi -per esempio il vilipendio della bandiera, delle Forze armate e del capo dello Stato- che potevano pure essere compresi in periodo fascista, ma che in democrazia la contraddicono.
Per non dire poi della legge Mancino sull'istigazione all'odio razziale. L'odio è un sentimento, come la gelosia, e non può essere impedito. I peggiori regimi totalitari puniscono le azioni, le opinioni, ma non mi risulta che abbiano mai messo le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, me è ovvio se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. L'unico vero limite che può porre una vera democrazia è quello della violenza.
Si sostiene che la legge sul negazionismo colpisca «atti lesivi della dignità umana». Io dico che o i principi vengono sostenuti integralmente oppure, anche con una sottilissima deroga e con le migliori intenzioni, si apre una breccia in cui sai dove cominci ma non dove vai a finire. Se quello è un «atto lesivo», allora non si potrà dire più nulla.
Tra l'altro il grande movimento di «opinione» a favore di una legge sul negazionismo e la tambureggiante campagna sulla Shoah, che dura da decenni, hanno finito sicuramente per rafforzare l'antisemitismo. E, al riguardo, lo storico americano ebreo Norman Gary Finkelstein ha scritto -con molto coraggio- L'industria dell'Olocausto.
Dobbiamo accettare anche la parola che ci fa orrore. La democrazia deve essere tollerante, e la tolleranza della democrazia non deve essere scambiata per debolezza. E' anzi la sua forza. Se una democrazia ritiene di avere valori così superiori tali da imporre veti alle opinioni, allora non è democrazia ma totalitarismo mascherato. Perché ha tanto indignato l'attacco a Charlie Hebdo? Perché è stato un attacco violento e intollerante contro un'opinione seppure per molti repellente. Vogliamo metterci sullo stesso piano?
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2015