Quanto avvenuto a Roma alla stazione Termini è comico, esilarante e nello stesso tempo preoccupante. Ma non perché la polizia non ha intercettato l’uomo, qualsiasi pulotto con un po’ di esperienza sa distinguere un’arma giocattolo (che, benché a forma di mitra, era minuscola) da una vera ed è inoltre del tutto evidente che chi ha cattive intenzioni non gira con un mitra a tracolla visibile a tutti ma lo tiene nascosto nello zaino o sotto il giubbotto. Preoccupante è il panico collettivo che si è immediatamente creato fra i viaggiatori col rischio, questo sì reale, di farsi male magari calpestandosi l’un l’altro nel fuggi fuggi generale, panico che l’intervento massiccio delle forze dell’ordine, teste di cuoio comprese, ha contribuito ad alimentare.
In Europa le massime autorità non fanno che dichiarare “non abbiamo paura, non ci faremo intimidire, difenderemo i nostri valori” ma poiché valori non ne abbiamo più, a cominciare dal coraggio, e siamo totalmente svirilizzati basta un nulla, un niente per smascherare la nostra fifa blu. Mi chiedo cosa succederebbe in Italia il giorno che si presentasse un Isis in carne ed ossa. Con questa paura che ci portiamo addosso l’Isis non ha più nemmeno bisogno di fare attentati, gli basta annunciarli o anche contare semplicemente su qualche grottesco equivoco come quello cui abbiamo assistito alla stazione Termini. Tutto ciò mi ricorda una canzone di qualche anno fa de ‘I Giganti’ il cui refrain era “Non abbiamo paura della Bomba”. Ma bastò che un burlone gettasse un petardo sul palcoscenico perché i Giganti se la dessero a gambe e con loro tutto il pubblico fin lì plaudente.
Finirà per pagare il tipo che voleva regalare l’arma giocattolo a suo figlio e che ora è indagato per “procurato allarme”. Ma che colpa ne ha lui se siamo diventati un popolo di conigli?
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2016
Difendo i ‘furbetti del cartellino’. Intanto nel decreto legge le misure punitive non sono graduate e rischiano di dar luogo a sperequazioni e a iniquità sostanziali. Un conto è se io sono un assenteista cronico, ed è giusto quindi che sia sanzionato, altro è se, ‘una tantum’, bigio un giorno di lavoro o, eludendo il controllo del dirigente, esco un’ora per prendere una boccata d’aria e un caffè sfuggendo alle mefitiche macchinette aziendali. In questi casi essere sospeso dal lavoro entro 48 ore e avviato in termini molto rapidi a una procedura di licenziamento che mi butterà sulla strada mi pare un provvedimento eccessivo e sproporzionato. Provvedimenti del genere possono essere presi, forse, in Germania o in Svizzera. Non in Italia dove, per fare solo un esempio fra i tantissimi, l’onorevole Giancarlo Galan condannato in via definitiva nel luglio del 2015 per corruzione, scontata ai comodi arresti domiciliari, continua a prendere una cospicua parte dello stipendio parlamentare (5 mila euro) conserva il vitalizio e la sua posizione di presidente della commissione Cultura alla Camera nonostante sia un’assenteista, benché forzato, dato che non può partecipare ad alcuna riunione.
Ma è l’intero sistema del ‘cartellino’ a essere psicologicamente sbagliato. Perché sottintende una totale sfiducia nel lavoratore che si ripagherà ricorrendo a ogni sorta di gherminella per far fessa l’azienda che così poco considerandolo lo umilia. Ho lavorato due anni alla Pirelli e so quel che mi dico (andavo alle raccolte dell’Avis, che l’azienda organizzava di frequente, non per spirito di volontariato ma perché un mezzo litro di sangue dava diritto, oltre che a un bicchiere di vino e a una fetta di panettone, a un agognato pomeriggio di libertà). Ho fatto il liceo classico al Berchet di Milano. In quarta e quinta ginnasio noi somari copiavamo a manetta le versioni di latino dai compagni più bravi e non c’era insegnante, per quanto cerbero, che riuscisse a scoprirci. In prima liceo venne uno straordinario professore, si chiamava Lazzaro, che oltre a saper comunicare il suo sapere conosceva bene la psicologia dei ragazzi e, più in generale, degli uomini. Dettava la versione di latino e poi usciva di classe. Nessuno copiò più perché il suo modo di fare ci toglieva il piacere della trasgressione e ci faceva capire quanto sciocco e autolesionista fosse il nostro comportamento.
Non c’è niente di più umiliante del ‘cartellino’ perché ti fa capire, in modo tangibile, che sei solo uno ‘schiavo salariato’ mentre intorno a te prilla un’opulenza sfacciata acquisita a volte in modo legale ma più spesso, soprattutto nella classe dirigente, illegale. Scrive bene Nietzsche: “una società che postula l’uguaglianza avendo bisogno di una moltitudine di schiavi salariati ha perso la testa”. Così infatti si innescano meccanismi di frustrazione e rancore che, oltre a farci viver male, possono diventare pericolosi.
Nella società preindustriale non esistevano cartellini di sorta. Era formata al 90 per cento da contadini e artigiani. Il contadino lavorava sul suo, viveva del suo e quindi autoregolava i propri ritmi di lavoro. Lo stesso valeva per l’artigiano. In quanto a quel 10 per cento, e anche meno, di nobili fainéant oltre ad avere alcuni obblighi (difendere il territorio e amministrare giustizia nel proprio feudo) partecipavano a un altro campionato e quindi il meccanismo della frustrazione e dell’invidia su cui si regge la nostra società spingendoci a raggiungere un’impossibile uguaglianza non scattava. Non è colpa mia se non sono nato Re. Non è colpa mia se non sono nato nobile.
E’ avvilente per un impiegato, per un operaio, per la cassiera di un supermarket, per un ragazzo o una ragazza dei call center sapere, o comunque intuire, di essere un paria, un ciandala, all’ultimo o al penultimo posto della scala delle caste, funzionale a quello che un tempo si chiamava ‘il sistema’.
Ribellati ‘popolo dei cartellini’, pubblici o privati. Distruggi quelle carte, quei timbri, quelle macchinette che certificano, in modo simbolico quanto concreto, la tua servitù. Insorgi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2016
Sabato è stato firmato a Vienna l’accordo che pone fine all’embargo e alle sanzioni a l’Iran in cambio della definitiva desistenza di Teheran a farsi la Bomba. Era ora.
Ufficialmente le sanzioni e l’embargo all’Iran erano state sancite dall’Onu nel 2007, ma in realtà erano in vigore, almeno da parte degli Usa e dei loro principali alleati, dall’epoca della Rivoluzione komeinista del ’79 che aveva cacciato lo Scià di Persia Reza Palhavi. Chi era lo Scià? Nonostante ci fosse ammannito quasi quotidianamente dai rotocalchi occidentali insieme a Soraya (‘la principessa triste’) e in seguito a Farah Diba, era un dittatore spietato, la prigione di Evin era zeppa di mullah, comunisti e curdi (i curdi ci sono ancora) e la sua polizia segreta, la Savak, era la più famigerata del Medio Oriente, il che è tutto dire. Rappresentava una sottile striscia di borghesia ricchissima che in quegli anni si poteva vedere a Londra, a Parigi, a New York. Il resto era povertà. Naturalmente era un protetto degli americani che gli avevano anche fornito la tecnologia per costruirsi l’Atomica. E’ dall’avvento di Khomeini che l’Iran entrò per l’Occidente, con la Corea del Nord e l’Iraq di Saddam, nell’‘Asse del Male’. In quanto ai comunisti furono protagonisti di un equivoco grottesco. Poiché in attesa dell’arrivo di Khomeini in esilio a Parigi da dieci anni il governo provvisorio era stato assunto da un moderato, Bakhtiar, i comunisti fermi alle logiche della Rivoluzione d’Ottobre fecero l’equazione: Bakhtiar = Kerenskij, Khomeini = Lenin. Khomeini provvide subito a smentirli definendo Urss e Usa “i due Grandi Satana” (“il piccolo Satana” era Saddam che l’Ayatollah chiamava, giustamente, “l’impresario del crimine”). Qual era il programma di Khomeini? Un modello di sviluppo islamico che non fosse né capitalista né marxista e conservasse le tradizioni di quel Paese. Concetto che ribadirà poco prima di morire in una straordinaria lettera a Gorbaciov dove gli dice sostanzialmente: ora che state abbandonando il marxismo non fate l’errore di farvi attrarre dai verdi prati del capitalismo (questa lettera, insieme a un’altra, altrettanto straordinaria, indirizzata a Papa Wojtyla, in Italia è rimasta praticamente clandestina e potete trovarla solo nelle Edizioni del Veltro).
Nel settembre del 1980 Saddam ritenendo che l’Iran fosse indebolito lo aggredì. Per 5 anni gli Stati occidentali, l’Urss e tutti i venditori di morte si limitarono a fornire di armi entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma nel 1985 le truppe iraniane, sorprendentemente perché quelle di Saddam erano molto meglio equipaggiate, si trovavano davanti a Bassora e stavano per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam, la creazione di uno Stato curdo nel nord dell’Iraq e l’annessione dell’Iraq sciita all’Iran (fatto naturale perché si tratta, dal punto di vista antropologico, culturale e religioso della stessa gente). Ma tutto ciò non poteva piacere alle grandi potenze che cominciarono a rimpinzare di armi Saddam, comprese quelle di ‘distruzione di massa’ in funzione anti-iraniana e anti-curda. Naturalmente l’intervento contro l’Iran a favore di Saddam fu mascherato con ‘ragioni umanitarie’ (“non si può permettere che le orde iraniane entrino a Bassora, sarebbe un massacro” –le truppe degli altri sono sempre ‘orde’ solo le nostre sono eserciti). Così, grazie all’’intervento umanitario’, la guerra Iraq-Iran che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti terminò solo 4 anni dopo con un bilancio di un milione e mezzo di vittime. Se non ci fosse stato quel sciagurato intervento anti-iraniano forse la situazione nell’area si sarebbe stabilizzata in modo naturale. Invece che cosa fa una rana con sopra la groppa un grattacielo di armi? Le rovescia dove gli capita. E fu l’aggressione dell’Iraq al Kuwait. Da qui la prima guerra del Golfo del 1990. La filiera che ne è seguita la conosciamo.
Negli anni ‘90 l’Iran, che nel frattempo aveva firmato il Trattato di non proliferazione, aveva ripreso un programma nucleare a scopo, a suo dire, di uso civile e medico. Per la verità le ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, non avevano mai accertato nelle centraline dell’Iran un arricchimento dell’uranio superiore al 20% che è esattamente quanto serve e quanto basta per l’uso civile del nucleare (per costruire l’Atomica l’arricchimento deve essere del 90%). Ma agli Usa non bastava, sospettavano che gli iraniani avessero delle centrali segrete. E nel 2007, quando in Iran al governo c’era l’ex sindaco di Teheran ed ex pasdaran Ahmadinejad, convinsero l’Onu a decretare embargo e sanzioni internazionali.
Come mai gli americani hanno cambiato improvvisamente il loro atteggiamento nei confronti dell’Iran? Le rassicurazioni di Teheran sono in verità poca cosa sul piano concreto. La situazione non è diversa da quella del 2007. Per questo cambiamento dobbiamo ringraziare l’Isis. I diffamati pasdaran sono oggi, insieme ai peshmerga curdi, gli unici a poter contrastare sul terreno (e non con droni e cacciabombardieri) i guerriglieri del Califfato.
Anche se ci sono voluti quarant’anni tutto è bene ciò che finisce bene. Oggi c’è una maggior sicurezza internazionale e, con la fine dell’embargo, la possibilità di notevoli affari, in entrata e in uscita, con l’Iran dove ora esiste un ceto medio voglioso di consumi (il che vuol dire anche che la Rivoluzione komeinista ha diffuso un relativo benessere). Quest’accordo soddisfa tutti tranne (Arabia Saudita a parte) Israele. Il premier Netanyahu ha dichiarato: “Si apre una nuova e pericolosa epoca: l’Iran non ha rinunciato alle sue ambizioni nucleari”. Eppure Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e la Bomba, com’è noto, ce l’ha da tempo. Dice: se non ha firmato il Trattato non ha nemmeno alcun obbligo di rispettarlo. Ma nemmeno la Corea del Nord ha firmato il Trattato eppure è soggetta a un embargo e a sanzioni durissime. Ma nessuno si è mai sognato d’imporre le stesse misure a Israele.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2016