Il sovrano del Marocco Mohammed VI ha imboscato 7,9 milioni di dollari nella banca inglese Hsbc, basata a Ginevra. Possono sembrare pochi rispetto ai 73 di Briatore, ma non lo sono per un Paese come il Marocco, che non deve trovarsi in buone acque viste le migrazioni e le migliaia di marocchini che, insofferenti di una vita diventata quasi occidentale, vanno a ingrossare le file dello jihadismo.
Mi pare poco probabile che il padre di Mohammed VI, Hassan II, che ha regnato dal 1961 al 1999, abbia portato dei quattrini all'estero per precostituirsi una riserva nel caso di una rivolta della popolazione. Quando andai in Marocco nel 1973 il Paese era assolutamente tranquillo. Hassan II aveva compiuto un mezzo miracolo: aveva moderatamente modernizzato il Paese senza però perderne le tradizioni e il senso di comunità. Aveva puntato soprattutto sulla medicina e sulla scuola. Durante quel viaggio mia moglie ebbe un serio incidente vaginale. Il giovane medico marocchino lo risolse. Lei mi disse: «Non aveva affatto l'atteggiamento losco e morboso di molti ginecologi italiani». Fuori Marrakech, verso l'ora del mezzogiorno, si vedevano improvvisamente spuntare dalla sabbia del deserto bambini con le cartelle e i giornali erano pieni di dibattiti sull'educazione scolastica.
Il capitalismo non era ancora entrato in Marocco. Fra i poveri e quelli un po' meno poveri non faceva differenza. Sulla piazza Jamaa el Fna, con sullo sfondo la splendida Koutoubia, ognuno stendeva il suo tappeto offrendo la propria mercanzia. Ne vidi uno, minimo, con uno slip usato e alcuni chiodi. Ma la vita sulla piazza era la stessa per tutti. Ad una certa ora del pomeriggio arrivavano saltimbanchi, acrobati, mangiafuoco che si guadagnavano da vivere così. Non era uno spettacolo per turisti, i tour operator erano di là da venire. Ad un certo punto apparvero, tenendosi a braccetto, cinque ciechi avvolti in lunghi caftani. Mi sembrò di entrare nel dipinto di Bruegel 'La parabola dei ciechi'. Ma anche i ciechi erano perfettamente integrati nella comunità e non parevano soffrire della loro infermità.
Era una sorta di Medioevo arabo, addolcito, senza le cupezze talebane. C'era un'atmosfera da 'Mille e una notte'. Un pomeriggio, uscendo da Marrakech, vedemmo una grande villa. Con la macchina ci avvicinammo al cancello. Arrivò una nana con i calzoni a sbuffo. Le feci cenno che ci sarebbe piaciuto entrare. Sparì. Stavo per girare il culo quando il cancello come per incanto si aprì. Percorremmo chilometri di aranceti, di limoneti, di laghetti. Lontano si sentiva un rumoreggiar di zoccoli. Sotto una palma trovammo tre operai che si stavano riposando. Uno parlava francese. «Di chi è questa villa?». «Ma come, non lo sai? E' la reggia estiva di Hassan II». «E questo galoppo?». «E' la cavalleria berbera che si allena».
Poiché mia moglie contratta fino all'estenuazione -e questo agli arabi piace molto, intorno a infinite tazze di tè- facemmo amicizia con una famiglia che aveva un negozietto nel souk al coperto. Ci invitarono a mangiare il cous cous a casa loro. Avevavo quattro figli, il più grande di 18 anni, l'ultimo, Alì, riccioluto, carinissimo, tre (se penso che nella prima guerra del Golfo ne abbiamo ammazzati 32 mila di questi bambini mi viene il voltastomaco).
Ma il tarlo occidentale si era già insinuato. Il più grande voleva a tutti i costi andare a lavorare in Francia, alla Renault. Avevo un bel cercare di fargli capire che la sua felicità era lì, nella sua bella famiglia, nella sua terra magica. «Comunque -gli dissi- se vai a Parigi e passi per Milano vieni a trovarci». Arrivò l'anno dopo. Stette con noi una settimana. Poi partì. E sono questi emigrati di seconda e terza generazione che, compreso di che lacrime e di che sangue grondi il sogno occidentale, hanno scatenato la rivolta delle banlieue. E i più audaci o insofferenti si sono arruolati nell'Isis.
Massimo Fini
Il Gazzettino, 13 febbraio 2015
Cosa può dire del Paradiso un onesto pagano quale mi considero? Io non credo nel Paradiso. Credo nell'Inferno. In terra. L'uomo è l'unico essere del Creato ad essere lucidamente consapevole della propria fine. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto svanisce di colpo nel nulla, lo spaventoso Nulla. Penso che se ci fosse davvero Qualcuno che ha creato questa favoletta tragica sarebbe un sadico. E Baudelaire dice: «L'unica scusante di Dio è di non esistere». Credo che tutte le religioni siano nate dall'esigenza di rimuovere questa consapevolezza intollerabile della fine. Non c'è popolo e cultura nella Storia che non abbia un Dio, una religione, un culto o comunque un'idea del metafisico. Persino il buddismo trova il suo paradiso nel Nirvana, cioè nel totale annullamento dell'individuo e della sua coscienza. Ma anche un pensiero così apparentemente pessimista contiene in sè l'idea di un dopo, raggiunto attraverso la peregrinazione in vari stadi dell'umano. Anche i Romani che, a livello di elites colte, erano assolutamente pagani, avevano un'idea dell'immortalità che era data dalla Gloria che a differenza del successo, che riguarda il presente ed è, insieme al Dio quattrino, uno degli idola dell'età contemporanea, si proietta nel futuro. E certamente Dante o Beethoven vivono, a distanza di secoli, in noi che stiamo vivendo. Ma loro sono morti, irrimediabilmente, radicalmente morti e non possono sapere, dai sarcofaghi in cui sono custodite le loro ossa, che vivono ancora nella mente degli altri.
Per la verità, secondo il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso delle religioni, c'è un popolo che non ha né Iddii né culti: sono gli indigeni delle Isole Andemane, le cui origini sono antichissime. In tempi remotissimi avevano anche loro un dio, che si chiamava Peluga, ma essendosi accorti che se ne straffotteva bellamente di loro, lo hanno rimosso e completamente dimenticato. Ciò non gli ha impedito di vivere felici e contenti. Ma qui risaliamo all'infanzia dell'umanità. E non è un caso che tutti gli autori laici che mi hanno preceduto, a cominciare da Dario Fo, con quel suo splendido e poetico racconto (anch'io, pur avendo una ventina d'anni meno di lui, ho un magico ricordo di noi ragazzini che all'alba, quando rientravano i pescatori, reggevamo le loro reti, non sul lago, come Dario, ma sulle rive di qualche paesino della Liguria) quando pensano a un paradiso in terra si rifanno alla loro infanzia, in quel mondo sognante e fatato dove distanze, cose, uomini, tempo si dilatano a dimensioni oniriche e vaghe e tutto è immerso in un'atmosfera magica. Perché non abbiamo ancora una cognizione precisa del mondo, dei suoi confini, delle sue dimensioni, dei luoghi, delle cose, dei fatti, della loro successione, del rapporto fra spazio e tempo. E tutto ci appare incerto e incantato. Alle nostre spalle non ha fatto ancora la sua comparsa quel tremendo occhio -la consapevolezza- che ci guarda vivere. Viviamo e basta. Ed è forse proprio perché, nel mio caso, quell'occhio ha preso ad osservarmi fin dall'inizio, togliendomi l'innocenza, che volevo, disperatamente volevo, rimanere nell'inconsapevolezza dell'infanzia pur avendola in realtà già perduta. Perché una cosa è veramente magica solo quando non si sa che lo è. Eppure nonostante questa contraddizione e tensione estreme ho avuto un'infanzia e un'adolescenza felici (il mio personalissimo paradiso) anche se insidiate e rese inquiete dalla coscienza che sarebbero finite. Credo che in tutti i bambini ci sia, sia pur per qualche attimo subito dimenticato fra i giochi, ma ricorrente, questa inquietudine. Così almeno canta Marisa Sannia: «C'è una casa bianca che, che mai più io scorderò/mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù/Era tanto tempo fa/ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore/non volevo entrare in là/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremare/e non sanno che cos'è/Quella casa bianca che non vorrebbero lasciare è la loro gioventù che mai più ritornerà/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è/E' la bianca casa che mai più io scorderò/Mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù che mai più ritornerà/ritornerà».
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio, 2015
A fine marzo partirà su Sky la fiction «1992», in dieci puntate. L'oggetto è naturalmente Mani Pulite e la fiction inizia con l'arresto, il 19 febbraio 1992, di Mario Chiesa un parvenu socialista che il partito di Craxi aveva messo alla presidenza del Pio Albergo Trivulzio perché lucrasse anche sui vecchietti. Mani Pulite avrebbe potuto essere per la classe politica l'occasione per emendarsi, per prendere coscienza che la propria corruzione era diventata insostenibile, economicamente quanto moralmente. E forse anche per salvarsi. Invece Craxi, segretario dell'allora potentissimo Psi, definì Chiesa «un mariulo» facendo intendere che si trattava di un'occasionale mela marcia in un cesto di mele intonse. E quando il 3 luglio del 1992 Craxi fece il famoso discorso alla Camera chiamando in correità tutti i partiti, non solo era troppo tardi ma quel discorso, contrariamente a quanto quasi tutti hanno sostenuto scambiandolo per un atto di coraggio, era particolarmente vile perché il segretario del Psi lo fece quando era stato colto a sua volta con le mani sul tagliere. Quello che Craxi disse in luglio avrebbe dovuto dirlo nel febbraio del 1992. Allora avrebbe avuto un minimo di credibilità.
Il periodo 1992-94 fu per una parte esaltante e per l'altra penoso. Esaltante perché per la prima volta anche la classe dirigente era chiamata al rispetto di quelle leggi che tutti noi cittadini siamo tenuti a osservare. Penoso perché l'esercizio di paraculismo dei giornali che avevano sostenuto le nefandezze della Prima Repubblica raggiunse livelli acrobatici da sport estremi. Abbandonato rapidamente il vecchio idolo, Craxi, tutti si stesero come sogliole ai piedi di quello nuovo, Antonio Di Pietro, il leader del pool di Mani Pulite. Mi ricordo in particolare, per lussuria laudatoria, un editoriale di Paolo Mieli, direttore del Corriere, intitolato «Dieci domande a Tonino».
Ma durò poco. Passata la buriana i partiti si rimisero in pista con le seconde linee e i giornaloni, come li chiama Travaglio, tornarono a rigar dritto. In un paio di anni vedemmo con stupore rovesciare le carte in tavola: i colpevoli erano diventati i magistrati, le vittime i ladri e giudici dei loro giudici.
Berlusconi si inserì abilmente nella grande confusione. Prima cercò di cavalcare Mani Pulite offrendo a Di Pietro (definito in seguito «un uomo che mi fa orrore») il ministero della Difesa. Poi, indagato a sua volta, con una costante, capillare, tambureggiante campagna condotta dai suoi giornali, dalle sue Tv, private e pubbliche, e da 'lui meme', fece di tutto per delegittimare la Magistratura.
La lunga stagione berlusconiana ha questo di diverso: mentre nella Prima Repubblica i partiti rispettavano almeno la forma della legalità (sei ministri del governo Amato si dimisero per aver ricevuto un avviso di garanzia, cosa, a mio parere, anche eccessiva), dopo l'illegalità divenne sfacciata, spudorata, un titolo di merito.
Cito a titolo di puro esempio Luigi Bisignani. Piduista, in seguito condannato a due anni di carcere nell'ambito delle inchieste di Mani Pulite, radiato dall'Ordine dei giornalisti, divenne il principale consigliere dell'amministratore delegato delle Ferrovie, Lorenzo Necci, e poi di quello dell'Eni Paolo Scaroni. Oggi è un'opinionista molto richiesto dalle maggiori Tv. Nella sua parabola si riassume, in miniatura, la storia italiana degli ultimi trent'anni.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2015