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Per parte di madre, Zenaide Tobiasz, ebrea, io sono metà russo e più invecchio più mi sento russo, ma per nulla ebreo, anche se per le loro leggi raziali e razziste che non riconosco sarei tale, perché non ho lo spirito della vendetta che gli israeliani stanno esercitando a piene mani in Palestina per cui, come al tempo della Shoah, basta che un palestinese, uomo, donna, bambino, sia palestinese per essere, di fatto, condannato a morte.

Non disistimo gli italiani (a parte quelli di oggi corrotti fino al midollo) perché ne apprezzo quello che è considerato il loro principale difetto, la faciloneria, cioè il non andare mai fino in fondo alle cose. Ma è proprio questa faciloneria che ha fatto sì che il Fascismo sia stato il meno criminale dei totalitarismi del Novecento, stalinismo e nazismo. Certo non dimentico i crimini fascisti, dagli omicidi in Francia dei fratelli Rosselli a Matteotti alla crudele incarcerazione di Gramsci che però fu favorita dal bifido Togliatti che si oppose a uno scambio di prigionieri sapendo bene che se Gramsci fosse tornato in pista sarebbe stato il segretario del partito mettendo in seconda linea lo stesso Togliatti.

Fatte queste necessarie premesse posso ricordare un esempio personale. Mio padre, antifascista, fu manganellato una prima volta dai camerati pisani, ma fu una bastonatura lieve (lui era di Pisa) perché si conoscevano tutti e l’Italia è pur sempre un Paese di campanili. Ma quando arrivarono i fascisti fiorentini la cosa fu seria e mio padre decise quindi di emigrare a Parigi. Era un fuoriuscito e non poteva ovviamente lavorare per i giornali italiani. Anche se in genere il Fascismo preferiva relegare gli antifascisti in qualche esilio piuttosto blando, come fu quello di Curzio Malaparte a Lipari. A Parigi mio padre faceva letteralmente la fame, mia madre lo ricorda mentre rovistava in una pattumiera alla ricerca di qualche arancia marcia. Allora fu assunto, per iniziativa di Paolo Monelli, che era capo della redazione parigina del Corriere. Naturalmente non poteva firmare e della sua assunzione sapevano solo lo stesso Monelli e l’amministratore.

Gli anni di Parigi furono particolarmente felici per i miei genitori. Allora, in quella Parigi, tutti gli artisti, a parte Picabia e in un secondo tempo Picasso, una vera carogna che, in un interrogatorio di polizia fece finta di non riconoscere Guillaume Apollinaire che pur era stato il suo mentore, erano poveri e anche due intellettuali strapenati com’erano mio padre e la sua futura moglie Zenaide Tobiasz che fuggiva da un altro totalitarismo, quello stalinista, potevano frequentare quel mondo affascinante dove artisticamente si stava sperimentando di tutto, cubismo, dadaismo, puntinismo. E’ rimasto famoso il Boulevard des Italiens dove si radunava parecchia di quella gente.

Ma torniamo ai russi. Questo popolo immenso, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo, supremamente bugiardo, e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma che una cosa non ha: il cinismo roman andreottiano.

Non si possono capire i russi se non si legge, nei Demoni di Dostoevskij, la rabbrividente confessione del principe Stavrogin: “Ogni situazione estremamente vergognosa, oltremodo umiliante, ignobile, e, soprattutto, ridicola, in cui mi è accaduto di trovarmi nella mia vita, ha sempre suscitato in me, insieme a una collera smisurata, una voluttà incredibile”.  Ma tutta la vita di Stavrogin dice molto dell’animo russo. Sfidato a duello si rifiuta ostentatamente di mirare all’avversario, spara in aria, che diventa pazzo per la rabbia perché ritiene l’umiliazione insopportabile. Passando su un ponte viene avvicinato da un poveraccio che gli chiede pochi copechi, lui lo ignora e prosegue oltre ma ripassando su quel ponte e ritrovando il clochard gli lascia alcune migliaia di rubli.

Naturalmente la narrazione è di Fëdor Dostoevskij che incarna perfettamente l’animo russo. Scrittore d’appendice, quasi senza un soldo, sperpera i suoi quattrini in tutti i Casinò d’Europa.

I russi sono sinceri anche quando sono insinceri. C’è un episodio emblematico. Trockij ha avuto una lieve indisposizione, Bucharin si precipita al capezzale di Trockij e chiamandolo batjushka, mio adorato batjushka – i diminutivi e i vezzeggiativi fanno parte del linguaggio russo – gli dice: “sono solo due le persone a cui io tengo, Lenin e te”. Uscendo di casa, Bucharin, tradisce subito il batjushka, il mio adorato batjushka per andare a denunciarlo da Stalin. Ma Trockij sottolinea in Ma Vie che Bucharin era assolutamente sincero nel momento in cui lo vezzeggiava.

Il russo è uno scialacquatore e un dilapidatore. Innanzitutto di se stesso. Non ha, non aveva, nessun concetto dell’investimento. Ogni occasione è migliore del denaro da spenderci. Questo lo ritrovo anche in me. Mentre la mia ex moglie ha tre case, io una sola e piuttosto sgangherata. Son russo.

Il periodo migliore, storicamente, è stato quello della Russia zarista. Per cui quando si dà a Putin dello Zar gli si fa solo un favore. L’oppressione era minima. In tanti anni di insurrezione furono fucilate solo dieci persone, purtroppo tra queste c’era anche il fratello di Lenin. Ma anche chi si opponeva era fatto di pasta diversa. Camus li chiama “i terroristi gentili”. Un pomeriggio uno di questi ‘terroristi’ doveva gettarsi fra gli zoccoli di una carrozza degli Zar. Ma vi rinunciò perché vide che sulla carrozza c’erano anche i figli.

I russi sono indolenti, indolentissimi, figuriamoci la servitù.  Ma i rapporti fra i padroni e i servi, all’epoca dell’aneddoto che sto per raccontare, non più “servi della gleba”, erano strettissimi. Una sera d’un inverno molto freddo, quando i lupi scendono verso le città per trovare qualcosa da mangiare, la carrozza, in cui c’era il fratellino di mia madre, di otto anni, guidata da un servo, fu assalita dal branco. Lui tagliò le redini di un cavallo e lo diede in pasto ai lupi ma la carrozza, ovviamente, in questo modo andava più piano. Allora tagliò le redini anche del secondo cavallo della troika ma la carrozza andava ancora più piano. Erano già in vista le torri antincendio di Saratov – non esisteva ancora un servizio antincendio – città sul Volga a qualche migliaio di chilometri da Irkutsk dove è nato Nureev (se avessi potuto fare un film il personaggio di Stavrogin l’avrei fatto fare Nureev, che è russissimo anche se ci tiene a sostenere che è tataro, perché poi è quasi la stessa cosa perché i tatari fan parte della storia russa) allora il servo si gettò in pasto ai lupi.

All’indolenza dei servi quando andava oltremisura, i padroni reagivano a colpi di knut. E’ ciò che faccio anch’io sia pur con mezzi diversi, con la mia domestica. Son russo.

6 Ottobre 2024, Il Fatto Quotidiano

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Mentre tutto il mondo si armava e si riarmava la Germania, il Paese più importante d’Europa per popolazione e soprattutto economia (“la locomotiva d’Europa”) disarmava, anche se ora sta recuperando. Uno studio del Kiel Institut für Weltwirtshaft ha calcolato che nel 1992 la Germania disponeva di 4000 carri armati, scesi a 2400 nel 2004 e ridotti a 339 nel 2021. Gli obici erano 300 e trent’anni dopo 120. I caccia erano 443 nel 2004 e nel 2021 erano 226. I veicoli da combattimento della fanteria sono passati da 2122 a 674. In compenso la Germania, come tutti gli altri Paesi europei sotto il giogo degli Usa, continua a dissanguarsi militarmente e economicamente a favore dell’Ucraina anche se recentemente il pur scialbo Cancelliere Scholz (nostalgia di Angela Merkel) ha manifestato qualche dubbio in proposito.

A che cosa si deve questo disarmo pressoché unilaterale? Probabilmente al complesso di colpa, incoraggiato dagli Stati Uniti e dai Paesi europei al loro laccio, per lo sterminio degli ebrei durante il periodo del nazionalsocialismo. Anche se Hitler (mi auguro che non sia un reato il solo nominarlo) aveva qualche legittima preoccupazione per il potere finanziario che la comunità ebraica aveva assunto in Germania. Questa preoccupazione l’aveva anche il celebre filologo ebreo Cesare Segre che scrivendo a un amico affermava, in sostanza, che questo potere finanziario era gravido di pericolose conseguenze. Ciò naturalmente non giustifica lo sterminio degli ebrei, consumatosi negli anni della seconda guerra mondiale e diventato sempre più feroce quando si capì che la fine del Terzo Reich era imminente. Non giustifica che un bambino ebreo, come qualsiasi altro ebreo, fosse mandato a morire nei lager di Auschwitz, Mauthausen e Dachau.

Peraltro, anche se oggi sembra singolare dirlo, la Germania nazionalsocialista non era particolarmente aggressiva, non più di altri Paesi europei. Hitler (mi auguro che non sia un reato il solo nominarlo) voleva riprendersi ciò che era culturalmente tedesco in Europa, l’Austria, la Cecoslovacchia e al suo interno i Sudeti di cultura tedesca cioè la Boemia, la Moravia e la Slesia dove vivevano più di tre milioni di tedeschi, insomma, venendo al presente, più o meno quello che ha fatto Putin riprendendosi la Crimea che all’ottanta percento è russa o russofona perché insieme al quaranta percento di russi propriamente detti è abitata da tatari che fan parte della storia russa.

La Germania, sia quella che precede il nazional socialismo, sia quella nazista, non è mai stata, a differenza della Gran Bretagna, della Francia e della stessa Italia, colonialista (Hitler era furibondo con Mussolini per le sue avventure in Africa, che, sia detto di passata, favorivano solo gli Alleati e Hitler fu costretto a mandare dei rinforzi sotto il comando di Rommel, uno dei più grandi generali tedeschi che poi tenterà un colpo di Stato ritenendo che il razzismo di Hitler e dei suoi disonorasse l’esercito tedesco di ispirazione sveva e prussiana. C’è anche da dire che a El Alamein gli italiani si batterono valorosamente meritandosi l’elogio di Rommel). Fuori dai confini europei ha tentato l’avventura solo in Namibia che, oltre a essere, per la sua natura geografica uno dei paesi più affascinanti del mondo, oggi è quello meglio governato, con rigore tedesco appunto.

Il sostanziale anticolonialismo tedesco è proseguito anche nel dopoguerra. La Germania a differenza dell’Unione Sovietica non si è mai sentita antagonista degli Stati Uniti, solo diversa nei costumi, molto più profonda dal punto di vista del pensiero filosofico (da questo punto di vista gli ultimi due secoli sono stati dominati dal pensiero tedesco, Marx, Kant, Hegel, Schopenhauer, la scuola di Francoforte e soprattutto Nietzsche) nel Welfare e nel rigore etico che non va confuso col moralismo.

A parte l’Afghanistan non ha partecipato alle avventure predatorie degli americani in Serbia, in Iraq e soprattutto in Libia dove la defenestrazione del colonnello Mu’ammar Gheddafi, nei modi atroci che conosciamo e che farebbero orrore persino all’Isis, fu voluta soprattutto dai francesi e sciaguratamente, masochisticamente, dall’Italia di Berlusconi che con Gheddafi aveva strettissimi rapporti. In realtà la ragione profonda di quella guerra è che i francesi, sostenuti naturalmente dagli americani, volevano scalzare l’Italia nei rapporti con la Libia. Inoltre tutte le guerre volute dagli americani nell’ultimo quarto di secolo sono venute regolarmente in culo all’Europa.

Come si rimedia a questa situazione che condanna il Paese più importante d’Europa all’irrilevanza? Innanzitutto togliendo alla Germania l’anacronistico divieto di possedere l’Atomica. La Bomba ce l’hanno, oltre a Stati Uniti e Russia e Cina, Gran Bretagna, Francia, Corea del Nord, India, Pakistan e Israele che ci tiene a far sapere che ce l’ha ma non ha mai accettato le ispezioni dell’Aiea, Agenzia internazionale per l’energia atomica. Non ce l’ha invece l’Iran, sotto sanzione da quando Khomeyni scalzò la Scià di Persia, un burattino degli Stati Uniti. L’Iran ha sempre accettato le ispezioni Aiea che hanno certificato che nelle sue centrali nucleari l’arricchimento dell’uranio impoverito necessario per costruirsi la Bomba non ha mai superato il cinque percento (per la Bomba occorre arrivare a un arricchimento del novanta percento). In Iran l’uranio non è usato a fini militari, ma civili e medici.

Ma che ci serve, dirà forse il lettore, una Germania nuclearmente armata quando c’è già la Nato? La Nato è uno strumento totalmente in mano agli americani, che vi mettono a capo una nullità qualsiasi come attualmente il norvegese Stoltenberg e in futuro, chissà, persino Mario Draghi che vi porterà la sua leggendaria “agenda”. La Nato, letteralmente North Atlantic Treaty Organization era nata come strumento esclusivamente difensivo, vedi l’art. 5 del Trattato, cioè se un paese Nato veniva attaccato gli altri avevano il dovere di correre in sua difesa. Ma negli ultimi decenni la Nato si è trasformata in uno strumento offensivo. Quasi tutte, per non dir tutte, le aggressioni americane sono state perpetrate contro Paesi che non minacciavano nessun paese Nato: la Serbia (1999), l’Afghanistan (2001), l’Iraq (2003), la Libia (2011).

In linea puramente teorica la Nato e l’Unione europea non avrebbero nessun dovere di intervenire a favore dell’Ucraina del gradasso Zelensky che della Nato non fa parte. Così come è molto difficile che possa entrare nell’Unione europea perché non ne ha i requisiti essenziali: Zelensky ha cancellato ogni opposizione, ha cancellato la libertà di stampa, ha cancellato insomma ogni elemento di democrazia. Putin non ha fatto di meglio. E inquieta, come nota sul Corriere Danilo Taino, che se la Russia avesse aggredito la Germania “il paese non sarebbe stato in grado di difendersi per più di qualche giorno”. Ma forse la Germania, che continua a dissanguarsi a favore dell’Ucraina, paese inesistente e mai esistito, perderebbe anche contro gli ucraini, anche se il popolo ucraino è pochissimo motivato visto che otto milioni se la sono filata, coraggiosamente, da quel Paese.

Bisogna ridare quindi alla Germania il posto che le spetta e non solo e non tanto perché, con Italia e Francia, è uno dei fondatori e precursori dell’Europa unita. “Deutschland über alles”, quindi. Per ora si consola col Bayern di Monaco.

1° Ottobre 2024, Il Fatto Quotidiano

 

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“La bocca mi baciò tutto tremante”, Dante, Inferno, V.

La bocca è la parte più desiderabile della donna. Perché racchiude in sé l’amor sacro e l’amor profano: il sentimento e la sensualità. Partecipa cioè di una doppia natura: da un lato infatti, come elemento del viso, fa parte della sfera intellettuale e spirituale della donna, dall’altro è un organo dei sensi. Per questa felice sintesi la bocca è la sede dell’amore inteso nella sua interezza e il bacio è il primo segno, ma già completo, del possesso. Una donna diventa la “tua” donna quanto ti dà il primo bacio. Se invece lei ti nega la sua bocca ti nega tutta se stessa. E se si concederà altrimenti sarà un corpo senz’anima quello che offrirà. Non è certamente un caso che le prostitute non bacino e non si lascino baciare. Perché la bocca coinvolge la sfera affettiva che è estranea al rapporto mercenario e anche a quello puramente sessuale. Tanto che quando i due sono impegnati nell’amplesso non si baciano più, la faccenda è diventata meramente fisiologica.

La bocca è “eros”, ma senza sesso. Anche per questo è così desiderabile e desiderata. Perché pur non essendo affatto platonica non ha le implicazioni, le complicazioni, i rischi, la crudezza del sesso. C’è nella bocca una delicatezza, un’ambiguità sconosciute ad altre parti del corpo femminile. La bocca è pura senza essere casta, non è innocente, anzi è tremendamente coinvolgente ma non porta le cose alle estreme conseguenze. Pur delibandolo conserva intatti il mistero, il fascino, le speranze, le sorprese, le illusioni dell’amore. E’ il suo sabato del villaggio.

La bocca si colloca in un singolare spazio intermedio fra eros e sesso. Non è puramente intellettuale come l’eros, non è solamente fisica come il sesso. Se l’erotismo parla alla mente e il sesso al corpo, è il cuore che parla attraverso la bocca.

Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, cioè dell’intelligenza o della stupidità, la bocca lo è della sensibilità (“bocca sensibile” si dice infatti di una bocca significativa). La bocca svela, più di ogni altra parte del corpo, i nostri sentimenti. Parla anche quando sta zitta (anzi soprattutto quando sta zitta, non c’è nulla di più atono di un chiacchierone) esprime l’amarezza, il dolore, la gioia, la sorpresa, la delusione, la noia, il disprezzo, l’ammirazione, il broncio, il turbamento, la malizia, in ogni loro possibile sfumatura. E’ davvero sorprendente quanti tasti possono toccare queste due semplici linee, le labbra, aiutate da quei bemolle o diesis che sono le pieghe che si formano ai loro lati.

Però non sono più molte oggi le donne che sanno esprimersi con la bocca. Per lo più la usano per parlare, il che naturalmente è un loro diritto, forse anche una conquista, ma ha come prezzo la perdita dell’antico gioco delle allusioni, delle cose non dette ma appena accennate, suggerite, intravedute. Inoltre poiché sono delle insopportabili chiacchierone, assatanate di gossip, al compagno o marito viene spesso quella che si chiama “la sordità relativa”.

La stessa cosa si può dire per il sorriso. Le donne di oggi non sorridono più. Non possono infatti essere considerati sorrisi, ma piuttosto un modo di mostrare i denti, quelli stereotipi, da foto di gruppo, esibiti oggi dalle donne quando vogliono presentarsi in maniera accattivante. Le show-girl e le miss ne sono il prototipo. Che si pensi che questo sorriso a bocca aperta, pubblicitario, falso, inespressivo, possa essere seducente è una delle tante manifestazioni dell’idiozia di una società che ha perso il gusto del mistero e del silenzio, che conosce solo il fracasso e applaude persino i suoi morti. Allo stadio gli arbitri fanno fatica a mantenere il classico “minuto di silenzio” quando si vuole commemorare qualcuno e qualche direttore di gara, prudentemente, lo ha ridotto da autorità a mezzo minuto perché c’è sempre un cretino, maschio, che sente il bisogno di dire una sua stronzata.

Le donne se non sorridono più in compenso ridono. E il riso è rumoroso, diretto, esplicito, quasi brutale, laddove il sorriso è silenzioso, sfumato, ambiguo, indefinibile, profondo, misterioso e quindi stuzzicante, quanto l’altro è dichiarato, sguaiato, sfacciato, superficiale e pertanto poco interessante. E’ curioso come le donne, da sempre maestre in queste cose, abbiano dimenticato il fascino del sorriso (il “desiato riso” di Dante e il “dolce riso” di Petrarca sono in realtà dei sorrisi). Il fatto che generazioni di uomini si siano affaticati sul sorriso della Gioconda, il sorriso per eccellenza appunto perché indefinibile, dovrebbe farle riflettere (Naturalmente, come in ogni vicenda umana, ci sono delle eccezioni. Alla Festa del Fatto due belle ragazze per proteggermi col loro ombrello dall’acquazzone si sono bagnate come pulcini. Avevano un bellissimo sorriso, quasi complice. Ah come ho rimpianto di avere l’età che ho, con quarant’anni di meno ci avrei provato, senza cavar un ragno dal buco naturalmente, ma avrei almeno potuto provarci. Questi, caro Marco, seduttor cortese, sono i tormenti non del giovane Werther ma di chi, sulla sponda opposta, non ha ancora raggiunto l’ambigua ‘pace dei sensi’, “porco uno, porco due, porco tre”, Gino Bramieri).

La bocca esprime, oltre ai sentimenti del momento, anche il carattere della donna: la dolcezza, la docilità, la capricciosità, la testardaggine, la durezza, l’aggressività, la sfrontatezza, la pignoleria. E’ perlomeno bizzarro che la cosmesi e addirittura la chirurgia tentino di modificare la bocca della donna. E’ come appiccicarle un carattere che non ha. A furia di ritocchi la bocca della donna moderna è diventata troppo perfettina,  standard, priva di personalità. Ed è troppo piena di denti, altrettanto perfetti e ben allineati. E’ una bocca che sembra fatta per mordere più che per baciare.

27 Settembre 2024, Il Fatto Quotidiano