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La notizia cui i media hanno dato grande risalto in questi giorni, e che continua a tenere le prime pagine, è l’attacco iraniano a Israele. Ed è ovvio perché è la prima volta che Tehran attacca direttamente Israele sul suo territorio. Ma è altrettanto ovvio che l’attacco è stato di pura parata. Gli Ayatollah sapevano benissimo che i 170 droni e i 150 missili, balistici e da crociera, lanciati sul territorio israeliano non avevano nessuna possibilità di perforare i sistemi difensivi israeliani, come l’Iron Dome (“cupola di ferro”), che si sono sempre dimostrati impermeabili. Se avessero voluto veramente sfondare le difese israeliane gli iraniani avrebbero agito via terra con i gruppi di pasdaran. Credo anzi che paradossalmente gli Ayatollah temessero che un qualche loro missile o drone andasse a segno. Il vero obiettivo degli Ayatollah, dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco con l’uccisione di cinque o sei capi pasdaran, era rivolto più che all’esterno all’interno: dimostrare al popolo iraniano che il regime non rimaneva inerte davanti a un attacco dei nemici di sempre. E in effetti nella notte fra venerdì e sabato a Tehran il popolo iraniano, che nei momenti difficili si ricompatta, è sceso in piazza, dimenticando divisioni politiche e di genere, per festeggiare quella che in realtà era una sconfitta, perché gli israeliani hanno dimostrato ancora una volta la loro invulnerabilità nei cieli e l’impossibilità di Tehran di perforare, almeno via aerea, le difese israeliane.

Pari e patta dunque? Così è sembrato dalle parole pronunciate dall’ambasciatore iraniano all’Onu, Amir Saed Iravani. Anche se pari e patta non è affatto, perché gli iraniani lasciano sul campo, oltre alla distruzione del loro consolato a Damasco,  l’uccisione di cinque o sei alti dirigenti.

Ora dipende da Israele. Vorrà accontentarsi della vittoria di fatto, non avendo lasciato sul campo, a differenza degli avversari, nemmeno un ferito o un muro sbrecciato? O vorrà mettere in atto una controrisposta all’offensiva, di fatto puramente simbolica, del regime di Tehran, innescando così un circolo vizioso che manderebbe al diapason le tensioni in Medio Oriente, cosa di cui nessuno sente il bisogno, a partire dagli Stati Uniti che hanno già annunciato che, in caso di una controffensiva di Tel Aviv, non vi prenderebbero parte né in senso difensivo né tantomeno offensivo?

L’interesse di Tehran è di mantenere la propria posizione di media potenza nell’area, cosa che non ha nulla a che vedere con le ambizioni della Jihad islamica che non solo vuole spazzar via Israele dalla carta geografica ma combatte l’intero mondo degli “infedeli”, si tratti dell’Europa o della Russia o di qualsiasi altro Paese che non segua i loro dettami, i dettami della sharia (gli Stati Uniti, come ho cercato di chiarire in un precedente articolo, sono per ora immuni perché troppo lontani dalle basi europee o africane della Jihad).

Aver messo con troppa disinvoltura, e da anni, dalla caduta dello scià, Tehran nell’Asse del Male ha già provocato contraccolpi negativi. L’Iran aveva firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e accettato le ispezioni dell’Aia che fino a non molto tempo fa avevano certificato che nelle loro strutture nucleari gli iraniani avevano arricchito l’uranio solo del 4/6 percento, cioè per usi civili e medici. Adesso l’arricchimento dell’uranio iraniano è arrivato al 70 percento, vicinissimo alla possibilità di farsi un’Atomica, per la quale è necessario un arricchimento del 90 percento. Ed è ovvio, anche se abbastanza spaventoso, che sia così, perché di fronte a un Paese, Israele, che ha la Bomba, la sola possibilità di difesa è avere un altrettale deterrente nucleare. Eppure l’Iran, fin dai tempi della rivoluzione khomeinista, è stato sommerso da sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati reggicoda, compresa l’Italia che pur aveva, attraverso l’Eni, ottimi rapporti commerciali con il paese degli Ayatollah.

Non bisogna mettere un avversario con le spalle al muro, perché allora diventa molto probabile che sferri, per dirla in termini pugilistici, il “colpo della domenica”. L’Iran, anche se a noi quel regime non piace, è un Paese responsabile, che certo non punta a una catastrofe mondiale, la Jihad no. Bisogna anche vedere, in prospettiva storica, da dove e perché è partita la rivoluzione di Khomeini nel 1979. Con lo scià l’Iran era un Paese dove esisteva una striscia sottilissima di grandi ricchezze perlopiù ereditarie, di cui si poteva avere contezza a Londra o a Parigi, dove le bellissime figlie di quella classe dirigente erano mandate a studiare. Tutto il resto era povertà. Una povertà economica, non culturale, perché gli iraniani, eredi della Grande Persia (bisogna anche tener conto che l’Iran non è un Paese arabo), sono tendenzialmente colti. Quando mi trovavo a Tehran negli anni della guerra Iraq-Iran (e non Iran-Iraq come si dice abitualmente, perché l’aggressore fu Saddam Hussein, e anche il linguaggio conta) i miei amici conoscevano non solo i nostri grandi, da Dante in su e in giù, ma anche i nostri autori del momento, da Calvino a Eco, mentre noi della cultura persiana conosciamo, quando va bene, solo Omar Khayyam. La rivoluzione khomeinista, secondo me, ha lavorato bene, creando un ceto medio, economicamente forte, che non accetta più le regole di una legge, la sharia, dettata a Maometto quattordici secoli fa. Di qui la rivolta, attualmente in corso, dei giovani e soprattutto delle donne contro il regime di Khamenei. Se vogliamo che la dirigenza politica e religiosa iraniana si intestardisca su posizioni divenute eticamente insostenibili non dobbiamo far altro che comportarci con l’aggressività di Israele.

Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2024

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È passato al Senato un disegno di legge che tende a rendere più difficile l’acquisizione di smartphone, Pc e tablet da parte della Magistratura. Sappiamo bene che è dall’epoca di Mani Pulite, quando i magistrati di Milano richiamarono la classe dirigente, politici e imprenditori, al rispetto di quelle leggi che noi tutti, cittadini comuni, siamo chiamati a osservare, che è in atto una controffensiva d’ispirazione berlusconiana per limitare il più possibile il potere di indagine che la legge attribuisce ai magistrati del Pubblico ministero (per i reati da strada, commessi in genere dai poveracci, vale un altro Codice, quello della Santanché: “In galera subito e gettare via le chiavi”).

Ma non vogliamo fare qui un cattolico processo alle intenzioni, dato che la materia è troppo importante: si tratta di trovare il modo di contemperare diritti e interessi fra loro contrastanti: diritto alla presunzione di innocenza, garantito dalla Costituzione in modo esplicito (art. 27 Cost.), il diritto alla privacy, che non è garantito dalla Costituzione in forma diretta ma attraverso l’interpretazione dell’art. 2, l’interesse (non quindi un diritto) del cittadino ad essere informato, l’interesse, e quindi anche qui non un diritto, ad informare cosa che riguarda in particolare la categoria dei giornalisti.

Il Codice Rocco aveva trovato la soluzione: l’istruttoria è segreta, il dibattimento è pubblico. Cioè nella fase preliminare dell’indagine, quando Pm e polizia giudiziaria brancolano ancora nel buio, si può dare sì notizia degli atti istruttori ma non del loro contenuto. Per fare un esempio, si può dare notizia di una perquisizione ma non dei suoi risultati. Il contenuto dei risultati dell’indagine preliminare viene vagliato dal Gip, un giudice giudicante, e quindi al dibattimento arrivano solo i materiali ritenuti utili al processo, tenendo fuori tutto il resto, cioè persone che con quel processo non c’entrano nulla.

Va da sé che un sistema come questo prevede la correttezza di tutte le parti in causa. Il Pm non può spifferare al giornalista “amico” il contenuto delle sue indagini. Nel periodo in cui facevo cronaca giudiziaria per l’Avanti! di Milano ho conosciuto molto bene Emilio Alessandrini, che verrà poi assassinato nel 1979 da un commando di Prima Linea. Fra noi si era creato un rapporto amichevole. Durante gli intervalli delle udienze ci fermavamo spesso a parlare in quel bar che sta affianco del Palazzo di giustizia di Milano, e mai Alessandrini mi dette qualche informazione sui processi che seguiva né tantomeno su quelli dei suoi colleghi. Ma Alessandrini apparteneva a una categoria di magistrati scomparsa da tempo, quelli che parlavano solo “per atti e documenti”.

C’è poi il problema degli avvocati difensori che hanno il diritto di avere il contenuto degli atti istruttori. Dipende, ma sarebbe meglio dire dipenderebbe, dalla correttezza di questi avvocati non spifferare il contenuto di questi atti al giornalista “amico”.

C’è poi la questione dell’’avviso di garanzia’. Fu introdotto a metà degli anni Novanta per una lodevole iniziativa della sinistra, cioè il cittadino doveva essere informato che era stata aperta un’indagine su di lui. Ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Perché oggi se ricevi un avviso di garanzia sei massacrato dal tritacarne massmediatico. Nel 1993 Claudio Martelli, improvvidamente ministro della Giustizia, fu costretto a dimettersi dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per il crac dell’Ambrosiano.

È chiaro che tutto ciò che sto scrivendo è puramente teorico, anche se una voce in capitolo ho diritto di averla essendomi laureato in Giurisprudenza alla Statale di Milano (110 e lode) con una tesi proprio su “Libertà di stampa e segreto istruttorio”. Ma è lo spappolamento della cultura giuridica italiana a rendere inutili e financo oziose queste mie riflessioni.

È dopo Mani Pulite che si affacciarono due categorie mai previste da alcun codice: i “garantisti” e i “giustizialisti”. Il magistrato non può essere né “garantista” né “giustizialista”: deve solo e semplicemente applicare la legge vigente. Se sbaglia esiste la possibilità di una serie di ricorsi: il Riesame, l’Appello, la Cassazione e adesso anche la Corte europea dei diritti dell’uomo il cui ricorso però è inibito al comune mortale perché estremamente costoso.

La categoria garantisti/giustizialisti riguarda quindi i media. E naturalmente i media stanno dall’una o dall’altra parte a seconda della loro impostazione politica. Sono l’uno o l’altro “a targhe alterne”.

Si possono ovviamente criticare i singoli provvedimenti della Magistratura ma non si può revocare in dubbio la Magistratura in quanto tale, che secondo la classica distinzione di Montesquieu è, insieme al legislativo e all’esecutivo, uno dei tre ordini cardine di uno Stato democratico. O meglio lo si può anche fare ma allora ci si mette sul piano delle Brigate Rosse e di tutti quei movimenti, terroristi ma non sempre terroristi, che contestano lo Stato in quanto tale. Se ci si mette su questa linea allora bisogna coerentemente aprire tutte le carceri perché chiunque può essere stato vittima delle ingiustizie di uno Stato illegale.

C’è poi il nodo essenziale della Giustizia italiana. La “terzietà” dei giudici, la composizione del Csm, la divisione dei magistrati in correnti sono problemi anch’essi ma di minor peso. Il nodo essenziale è la lunghezza abnorme delle nostre procedure che si porta dietro il problema della carcerazione preventiva e della libertà di stampa. Io posso ben chiedere il silenzio ai giornali per un periodo limitato di tempo, ma se questo silenzio si deve protrarre per anni significa puramente e semplicemente mettere la mordacchia all’informazione.

Ma ancora più grave in quest’ottica è il dramma della carcerazione preventiva. Se, come avviene in Gran Bretagna, con un imputato detenuto le istruttorie sono brevi, rinunciando magari a individuare il colpevole, per l’imputato innocente, che sarà poi assolto nel processo, è un brutto incidente di percorso, attenuato dal fatto che poi la proclamazione della sua innocenza gli restituirà la reputazione. Ma se la carcerazione preventiva dura anni, come è avvenuto per Pietro Valpreda, in galera per quattro anni senza processo, o per Giuliano Naria, supposto terrorista che ha scontato nove anni di reclusione preventiva per poi essere assolto, è la distruzione di una vita, o per tanti altri casi ‘minori’, chiamiamoli così, di persone che non avevano l’impatto mediatico di un Valpreda o di un Naria, di cui nessuno si è mai occupato tranne, oso dirlo, chi scrive.

Faccio infine notare che gli ipergarantisti di oggi sono ideologicamente gli eredi degli iperforcaioli di ieri, che non spesero una riga per le ingiuste carcerazioni né di Valpreda né di Naria né di altri stracci.

“La legge è uguale per tutti” è scritto con solennità nelle aule dei Tribunali. Ma noi viviamo nella fattoria degli animali di Orwell dove “tutti gli animali sono uguali, ma ce ne sono alcuni più uguali degli altri”.

Il Fatto Quotidiano, 16 aprile 2024

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Fino alla Seconda Guerra Mondiale l’inviolabilità e l’imparzialità della Croce Rossa sono sempre state rispettate. Da tutti. Nazisti compresi. Nel linguaggio comune per sottolineare un atto particolarmente vile e odioso si diceva: “Sparare sulla Croce Rossa”. Capitava anche, in Italia, che il ricognitore inglese, volando su un piccolo paese che sarebbe stato bombardato di lì a poco e che mancava di contraerea, gettasse dei volantini che avvertivano dell’imminente bombardamento. È quanto è successo nel mio paese natale, Cremeno. Passa il piper inglese e getta questi volantini. Tutta la popolazione scappa nei boschi. C’era però una piccola caserma che era l’obiettivo. Le due sentinelle, ragazzi di vent’anni,  ritengono loro dovere rimanere al proprio posto. L’onore militare li induceva a questo comportamento, anche se alle volte mi chiedo che senso abbia avuto il sacrificio di quei ragazzi mentre Mussolini fuggiva travestito da soldato tedesco e il re e Badoglio avevano, carichi di suppellettili, abbandonato Roma ai tedeschi, che cercarono però di risparmiare almeno i luoghi sacri, religiosi e laici, della Capitale. E, parlando di una prospettiva allora futura, il leader socialista Bettino Craxi, già presidente del Consiglio, raggiunto da una condanna definitiva, scappa in Tunisia sotto la protezione del dittatore Ben Ali, e da quel posto sicuro infanga il suo Paese e le sue Istituzioni  e in definitiva infanga sé stesso perché di quel Paese era stato, appunto, presidente del Consiglio.

Al nemico sconfitto che si era battuto bene si concedeva “l’onore delle armi”. Faceva differenza essere fucilati al petto invece che alla schiena.

Il comandante di un sommergibile, Salvatore Todaro, dopo aver affondato una nave belga salvò i naufraghi (questo episodio è stato recentemente rievocato nel film Comandante). Insomma esistevano ancora regole: non si infierisce sullo sconfitto (i processi di Norimberga e di Tokio scardineranno queste regole che, più che militari, sono etiche).

Nella Seconda Guerra Mondiale si cercava ancora di risparmiare i civili, nei limiti del possibile, perché con l’avvento dei bombardieri non era facile discernere. In Italia ci sono state tragiche e orrende eccezioni perpetrate dai reparti speciali dell’esercito tedesco, le SS, con le stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Civitella. Ma quello che le SS naziste fecero in singoli casi gli americani lo fecero, per così dire, in grande stile. Lasciamo pur perdere Hiroshima e Nagasaki, ma in suolo tedesco, per ammissione degli stessi comandi politici e militari Usa, l’ordine era di concentrarsi sui civili “per fiaccare la resistenza del popolo tedesco”.

Durante la Prima Guerra Mondiale l’uso di gas tossici, ad esempio l’iprite di cui fu vittima Curzio Malaparte anche se la pagherà molti anni dopo, fece strage di civili e militari, anche perché allora si combatteva sul terreno e non nell’aria con aerei, missili e droni. Le convenzioni di Ginevra che si susseguirono dopo la Prima Guerra Mondiale vietarono l’uso di queste armi. E tutti i Paesi belligeranti nella Seconda, Germania nazista compresa, si attennero a queste direttive. Oggi nella guerra russo-ucraina le due parti si accusano reciprocamente di far uso di armi chimiche. Del resto nella guerra alla Serbia del 1999, gli americani e la Nato, l’immacolata Nato secondo il suo attuale segretario Jens Stoltenberg, fecero uso di proiettili all’uranio impoverito. I militari italiani morti per l’esposizione a questi proiettili senza esserne stati colpiti furono 400 e più di 7000 quelli che si ammalarono. Non è stato fatto il conteggio per i serbi, ma si può immaginare che furono molti di più: i militari italiani erano avvertiti del pericolo, i bambini serbi, che giocavano con i proiettili sparsi per terra, no.

Nell’attuale guerra in Palestina, la Croce Rossa Internazionale e la Mezzaluna Rossa, che ne è una branca, praticamente non esistono più, non se ne sente mai parlare. Sono state sostituite da organismi dell’Onu e da Ong private come la World Central Kitchen che si occupano soprattutto, per dirla in gergo cristiano, di sfamare gli affamati. Ciò non impedisce a Israele di attaccare queste organizzazioni (“sparare sulla Croce Rossa”) tanto che recentemente un raid aereo israeliano ha ucciso sette operatori di World Central Kitchen. Gli ospedali di Gaza sono stati rasi al suolo, uccidendo degenti, infermieri e medici col pretesto che lì si sarebbero rifugiati presunti capi di Hamas, che peraltro non sono mai stati trovati.

Le Convenzioni di Ginevra hanno proibito le mine antiuomo perché sono quelle che più facilmente colpiscono gente che passa di lì e che non c’entra nulla. L’unico a rispettare questa regola umanitaria universale fu il mullah Omar che ne proibì l’uso, ed è bene ricordare che alcune aziende italiane sono fra le principali produttrici di queste armi.

Oggi assistiamo a guerre che hanno perso non solo l’etica ma anche l’epica della guerra. Sono combattute a suon di supermissili e droni e i civili ne sono le principali vittime. È difficile immaginare in queste guerre atti eroici come quelli di Durand de la Penne o, appunto, del comandante Todaro.

Facciamo un passo indietro, molto indietro. Nel Medioevo esisteva il diritto d’asilo, cioè un furfante, o presunto tale, poteva rifugiarsi in una chiesa e non venire quindi toccato. Era una misura di misericordia cristiana, specifica. Oggi di quel diritto d’asilo non c’è più bisogno, in Italia esiste in modo generalizzato, non per gli stracci da strada ma per le elite politiche e imprenditoriali che possono contare su un’impunità, di fatto, come ci informano le cronache quotidiane.

Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2024