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La guerra è comune a tutti gli esseri, è la madre di tutte le cose. Alcuni li fa dèi, gli altri li fa schiavi o uomini liberi.” - Eraclito

Papa Francesco si affanna a dire che la guerra “è sempre una sconfitta”. Certo sarebbe bizzarro che il Sommo Pontefice inneggiasse alla guerra anche se Cristo afferma “non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra, non sono venuto a mettervi pace, ma la spada” (Matteo, 10,34).

La guerra non è sempre una sconfitta. Lo è per i vinti, non per i vincitori. Se gli Alleati e i russi non avessero vinto la guerra oggi saremmo, a parte qualche eccezione, tutti nazisti e la parola “democrazia” una bestemmia in chiesa. Che poi i vincitori, a volte, riescano a comportarsi peggio dei vinti è un altro discorso.

La guerra ha funzioni positive, anche se è difficile riconoscerlo in quest’epoca di pacifismo, retorico, soprattutto occidentale. La guerra è la prova suprema, per gli Stati ma soprattutto per gli uomini. Ci dice chi veramente siamo. Leo Longanesi ricorda che in guerra impiegatucci cui non avresti dato un soldo si battevano con valore, mentre i gradassi del tempo di pace se la facevano sotto.

La guerra riduce tutto all’essenziale. Ci fa dimagrire in tutti i sensi. Quando si può morire da un giorno all’altro cambia la gerarchia dei valori, restano quelli essenziali mentre tutto l’orpello da cui siamo soffocati in tempo di pace finisce fra gli scarti. Una coppia non si mette a litigare se uno schiaccia il tubetto del dentifricio dall’alto e l’altra dal basso. Un amore va fino in fondo a se stesso in tempo di guerra. Inoltre la guerra ha, come il servizio militare, come il periodo universitario, la qualità del ‘tempo sospeso’: non devi far nulla solo aspettare che finisca.

La guerra attenua le differenze di classe, sociali ed economiche, si è più uguali, e soprattutto più solidali in guerra.

Ci sono guerre giuste? Secondo gli “Illuministi” le guerre ‘giuste’ sono quelle che si fanno per la libertà. Ma attenzione: afferma il generale Lazare Carnot, membro del Direttorio durante la Rivoluzione francese “la guerra è violenta di per sé. Bisogna condurla a oltranza o restarsene a casa. Il nostro scopo è lo sterminio, lo sterminio fino alle estreme conseguenze” e Saint-Just, il giovane ‘numero due’ di Robespierre, ribadisce “le guerre della libertà devono essere fatte con collera”. Sono le guerre ideologiche pressoché sconosciute in passato. Un’esemplare guerra ideologica è stata quella ai Talebani: non ci piacevano i loro costumi e siccome non ci piacevano abbiamo occupato l’Afghanistan per vent’anni, facendo alcune centinaia di migliaia di morti. E’ il totalitarismo della Democrazia.

Eppure nel 1975, a Helsinki, in un raro momento di saggezza, quasi tutti gli Stati del mondo firmarono un accordo che sanciva il “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, cioè ogni popolo ha il diritto di evoluire, e anche di non evoluire, secondo la propria storia, le proprie tradizioni, i propri costumi.

Un momento decisivo nella storia della guerra è stata l’introduzione delle armi da fuoco, cioè armi che colpiscono a distanza annullando il valore del guerriero. Esemplare in questo senso è il film di Ermanno Olmi “Il mestiere delle armi” (2001). I cavalieri, che nel Medioevo avevano il compito di difendere il territorio, si opposero a questo tipo di guerra considerandola ignobile. Ma naturalmente persero la partita.

Poi si è andati ben oltre il fucile. Oggi ci sono i droni che colpiscono a centinaia e a volte migliaia di chilometri di distanza.

Inoltre la guerra, che non viene nemmeno più dichiarata, preferendo chiamarla con altri nomi, “intervento umanitario”, “operazione di polizia internazionale”, “operazione di peacekeeping”, tanto ci si vergogna di farla (anche Putin ci ha copiato chiamando la sua aggressione all’Ucraina “operazione militare speciale”) ha perso ogni regola. Se il nemico non è più uno iustus hostis, prendendo dalla definizione di Schmitt, ma un criminale, se ne può fare carne di porco come abbiamo visto ad Abu Ghraib e tutt’oggi a Guantanamo. E’ stata legittimata la tortura, fisica e psicologica.

In pratica con gli ordigni attuali non ci sono più combattenti, ci sono solo vittime designate, i civili, con qualche eccezione perché nella guerra russo-ucraina esiste ancora, anche se raro, il corpo a corpo, come nella regione di Kursk dove soldati ucraini si battono contro i soldati russi. Ma, in generale, il drone, cioè la tecnica, ha sostituito il combattente. E il combattente che non combatte perde ogni legittimità e la guerra la sua epica e anche la sua etica: se uno solo può colpire e l’altro solo subire si esce dall’ambito della guerra e si entra in quello dell’assassinio (come è avvenuto in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia). Inoltre basilari sono i computer e i collegamenti con i satelliti, il soldato, ma sarebbe meglio dire l’ex soldato, è diventato un ingegnere dell’assassinio.

Dal maschio, fuco transeunte, attratto dalla morte per sopperire alla sua impotenza procreativa, la guerra è sempre stata considerata “il gioco di tutti i giochi” perché lo sottrae all’apatia del quotidiano, al mal de vivre. Per le donne vale l’opposto. A loro, che danno la vita, sono sempre sembrate insensate queste carneficine. E sebbene ci siano state coraggiose donne combattenti (Giovanna D’arco o nella lotta partigiana che però non è esattamente una guerra ma piuttosto una guerrilla) io penso che le donne-soldato non siano una conquista, un’evoluzione ma piuttosto un’involuzione perché troppo contro natura.

Ma torniamo al “gioco di tutti i giochi”. Alberto Moravia, che pur era un pacifista, ha scritto “la Bomba (atomica) ci ripugna. Perché? Perché essa è la fine della guerra e noi vogliamo fare la guerra, la Bomba…ci priva di un gioco decisivo che noi giochiamo da milioni di anni”. Qual è il senso di questa affermazione? Che l’Atomica, ponendosi come distruzione planetaria, e quindi definitiva, annulla l’essere umano, ogni sua attività e quindi anche la guerra.

Hiroshima e Nagasaki sono state decisive nel formare questo pensiero. Cioè nessuno Stato, per quanto potente che fosse, poteva utilizzare l’Atomica perché si sarebbe contemporaneamente autodistrutto. Quindi l’Atomica serviva solo come deterrente perché nessuno avrebbe mai osato servirsene. Ma adesso, oplà, nell’eterno gioco fra difesa e offesa, si sono inventate le “atomiche tattiche” che avrebbero un raggio limitato. Come la scissione dell’atomo possa avere un limite, distruggendo anche chi le usa e ciò che gli sta intorno e anche lontano, perché le radiazioni non rispettano i confini, io non lo so. E pare che non lo sappiano nemmeno i Potenti della Terra che minacciano di utilizzarle.

20 Settembre 2024, Il Fatto Quotidiano

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Capita spesso quando passeggio che uno straniero mi chieda l’indicazione di una via. Io naturalmente gliela do, ma stupisco: come mai viene a chiederlo a un vecchio talpone, smarrito, come me? Il fatto è che sono l’unico nei dintorni ad avere le orecchie libere, gli altri le hanno occupate dagli smartphone oppure sono impegnati col tablet. Se voi andate nei locali trendy di Corso Como, a Milano, vedrete che ai tavolini ci sono soprattutto coppie, ma quasi non si parlano impegnati in telefonate che possono venire da tutto il mondo ma anche da qualche tavolo accanto. Anche a me sono capitate queste esperienze. Una volta avevo invitato a cena una mia amica, donna educatissima, che ci tiene molto a far fare la cacca ai cani nel posto loro riservato (perché queste bestie, così simili all’uomo per sottomissione, soccombismo, parassitismo hanno anche la pretesa di farla, robb de matt). Bene, per le due ore che durò la cena lei stette allo smartphone, anche in vocale per cui non capivo se parlava con me o con altri. Evidentemente non le interessavo granché, ma stando così le cose avrebbe potuto farmi risparmiare i 200 euri della cena.

Capitava alle volte in treno di avere la fortuna di trovarsi davanti una bella donna con le gambe accavallate e la gonna appena sopra il ginocchio. Si chiacchierava e le si faceva un po’ il filo, anche se nel caso particolare che ho in mente non ebbi il coraggio di scendere alla stessa stazione (“Alla compagna di viaggio…E magari sei l’unico a capirla e la fai scendere senza seguirla…A quella conosciuta appena non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più” Le passanti, De André, 1974). In treno potevano nascere flirt e chissà amori. Adesso lei non ti guarda neanche, attaccata allo smartphone, non sarà mica il caso di parlare con una persona in carne ed ossa? Con gli altri viaggiatori non è nemmeno il caso di attaccar bottone, stanno facendo la stessa cosa, per lo più impegnati in affari.

L’avvento del digitale ha cambiato profondamente, in fondo in pochissimi anni, le nostre vite, la socialità. I vecchi sono rimasti tagliati fuori. Ma la cosa nell’immediato futuro riguarda anche i giovani. Perché il mondo digitale cambia a una velocità supersonica. Negli Stati Uniti una persona di quarant’anni è già obsoleta.

Che cosa ne sarà di queste generazioni che non leggono e non scrivono a mano? Il contatto con la carta e la calligrafia sono fondamentali sia per chi scrive che per chi legge. Una cosa è leggere una mail, fredda per definizione, una cosa è leggere un manoscritto da cui puoi anche intuire la personalità di chi scrive (non a caso esiste una scienza che si chiama ‘grafologia’). Le università della California e di Ulma e di tante altre importanti città sono tutte giunte alla medesima conclusione: “scrivere a mano e leggere su carta sono pratiche insostituibili”. Bene ha fatto il ministro dell’Istruzione Valditara a riportare il diario a scuola e a proibire l’uso dei cellulari in classe, anche se usati a scopo didattico.

Secondo recenti studi “i disturbi dell’apprendimento degli studenti sono aumentati del 357 per cento e i casi di disgrafia del 163 per cento” dal Corriere della Sera (26.08). Inoltre l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Unesco, le Nazioni unite, la Commissione europea e anche la commissione Istruzione del Senato italiano hanno individuato nell’abuso degli smartphone la principale causa del crollo verticale delle capacità mentali dei giovani e della crescita esponenziale dei loro disturbi di ordine psicologico come depressione, ansia, aggressività, squilibri alimentari e tendenze suicidarie.

Bisognerebbe mettere mano senza por tempo in mezzo a questa gigantesca questione che finisce per destituire l’umano della sua umanità. Ma ci credo poco. Questa corsa veloce, sempre più veloce verso il Futuro, tempo che fra non molto diventerà inesistente, col pretesto di semplificarci la vita ce la sta rendendo insopportabile. E tutte le roboanti dichiarazioni di cui abbiamo cercato di dar conto son solo retorica.

18 Settembre 2024, Il Fatto Quotidiano

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In Gran Bretagna c’è una proposta di legge per vietare il fumo anche in ambienti all’aperto, in questo modo verrebbe anche stroncata un’usanza molto cara agli inglesi: una pinta di birra accompagnata dalla sigaretta alla fine di una giornata di lavoro. Gli “schiavi salariati” non sono più tali solo in azienda ma anche fuori.

A Milano ci aveva già provato il sindaco Sala: era proibito fumare nei parchi se c’era una donna incinta. Insomma avresti dovuto andare a tastare il ventre di tutte le donne per assicurarti che non fossero in fase di gravidanza. Ottima occasione di approccio anche se poi, per fortuna o per sfortuna, dipende dai punti di vista, non se ne fece niente.

Ci sono provvedimenti contro il gioco d’azzardo, contro l’alcool (a Cuneo l’amministrazione Pd ha vietato, in alcune zone della città, il consumo di alcool per tutta la giornata, forse era meglio che il Pd restasse il Pci che in queste cose era meno talebano). Siamo vicini, per ora solo come “moral suasion”, al raccomandare un’attività sessuale contenuta, perché poi se a qualcuno vengono disturbi cardiocircolatori il peso delle cure ricade sulla società (sempreché riesca a raggiungere le strutture pubbliche e non sia costretto a ricorrere alla sanità privata, ovviamente molto più costosa).

Tutti questi divieti sono controproducenti. Perché non c’è nulla che attiri di più di ciò che è vietato. Quando negli anni Settanta, dominati dal movimento studentesco, scopare da proibito, come era stato fino allora, divenne obbligatorio, ne passò la voglia.

Questi divieti oltre che a incidere sulla libertà delle persone rilevano anche su quella di informazione. Se si è in tempo di guerra è proibito pubblicare informazioni che potrebbero essere utili al nemico. Ma noi, Italia, attualmente, al meno dal punto di vista formale, non siamo in guerra con nessuno. Stiamo applicando una censura di guerra in tempo di pace.

Quello del giornalista è un mestiere delicato perché noi andiamo a ficcare il naso nei fatti altrui, anche i più intimi (Sangiuliano e Maria Rosaria Boccia docent). La questione acquista una particolare rilevanza quando c’è un procedimento penale in corso. Si pubblicano atti istruttori, con le relative notizie sull’indagato, prima ancora che costui sia rinviato a giudizio. Nella delicata fase istruttoria, cioè delle prime indagini dove gli inquirenti ovviamente navigano ancora nel buio, possono essere coinvolte persone che risulteranno poi estranee all’inchiesta. Ma il tritacarne massmediatico ne fa ugualmente strame. Il codice di Alfredo Rocco aveva trovato il sistema per un ragionevole equilibrio fra la necessità delle indagini e il diritto, ma preferirei chiamarlo interesse, della popolazione a essere informata e il diritto, ma preferirei dire l’interesse, dei giornalisti a informare: l’istruttoria è segreta, il dibattimento è pubblico (nei regimi totalitari anche il dibattimento è segreto). Cioè, attraverso il vaglio del GIP, arrivano al dibattimento solo gli elementi che possono essere utili e necessari al processo.

Devo dire che c’è una degenerazione anche fra i magistrati. Un tempo il magistrato parlava solo “per atti e documenti”, non rilasciava interviste e anche nella vita privata doveva stare attento a chi frequentava. E questo modo di vivere la vita del magistrato è durato a lungo, fino a tempi relativamente recenti. Io ho avuto un buon rapporto, amichevole, con Emilio Alessandrini il magistrato che sarà poi assassinato dalle Brigate rosse. Ma mai Alessandrini mi parlò non dico delle istruttorie che aveva per le mani, ma nemmeno, e tantomeno, delle istruttorie di cui si occupavano i suoi colleghi. Adesso al cronista basta andare a leggere gli atti istruttori, che essendo, da regola e giustamente, in mano ai difensori, per sapere quello che un tempo costava la fatica della ricerca.

Quella del magistrato, come del medico, come di ogni soggetto che abbia incarichi istituzionali, non è una professione come tutte le altre. Se andate a rivedere i giornali dell’epoca di Mani Pulite, né Francesco Borrelli né Antonio Di Pietro né gli altri rilasciarono interviste. Poi, travolti dalla popolarità, cominciarono a farlo sia pur col contagocce. Personalizzare le inchieste è estremamente pericoloso, perché il magistrato, soprattutto il Pubblico ministero, può anche essere integerrimo e avere agito secondo, come si dice, “scienza e coscienza”, ma avrà pur sempre una moglie, una compagna, degli amici e, attraverso costoro, essere attaccato. Durante le inchieste di Mani Pulite non nominai mai né Borrelli né Di Pietro, rendendomi conto del rischio della personalizzazione delle inchieste. Parlavo solo dell‘”Ufficio del Pubblico ministero”, come recita il nostro Codice. Nella lascivia laudatoria in cui furono coinvolti i magistrati del Pool di Milano, almeno nella prima fase, (ma ci vollero appena due anni perché tutto si capovolgesse e i magistrati diventassero i veri colpevoli e i ladri le vittime, spesso giudici dei loro giudici, tra l’altro Berlusconi affermò, in terra di Spagna, che in Italia era in atto una guerra civile fra politica e Magistratura) Paolo Mieli totalmente immerso in questa lascivia pubblicò – poi cambierà opportunisticamente sponda – un editoriale sul Corriere della Sera intitolato “dieci domande a Tonino” come se ci avesse mangiato insieme a Montenero di Bisaccia.

Insomma, io credo che noi giornalisti dovremmo andare con mano più leggera quando pubblichiamo atti delle istruttorie.

“Vietato vietare” è un brocardo giusto e su questo abbiamo speso tutta la prima parte di questo articolo. Ma ci sono casi, in particolare nel sistema giudiziario, dove il divieto è più giusto, utile e opportuno, del contrario.

13 Settembre 2024, Il Fatto Quotidiano