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“Essere onesti è già un bell’handicap” ha scritto nei giorni scorsi Marco Travaglio su questo giornale (2.11). Sarebbe confortante dirgli che ha torto come ha torto di aver puntato buona parte del suo giornale sulla difesa della legalità che è già qualcosa di meno profondo dell’onestà. Purtroppo non è così.

Nell’Italia povera degli anni Cinquanta, pur essendo usciti da una guerra persa nel peggiore dei modi e da un’atroce guerra civile, l’onestà era un valore per tutti. Lo era per la borghesia imprenditrice perché dava valore, lo era per il mondo contadino (oggi scomparso insieme all’onestà, gli operai agricoli si sono ridotti ad un milione) dove violare la stretta di mano voleva dire essere esclusi dalla comunità. Lo era per il proletariato in genere comunista. Il “figiciotto” doveva essere onesto in due sensi, onesto nell’accezione normale del termine ma onesto anche rispetto alla morale del Partito. Naturalmente il poveretto nulla sapeva dei lager sovietici che gli erano stati nascosti dalla classe dirigente del Pci, Togliatti in testa, anche se i crimini di Stalin erano già stati denunciati negli anni Trenta da André Gide all’epoca delle famigerate purghe che fecero fuori tutta la classe dirigente della Rivoluzione d’ottobre (Bucharin, Zinov’ev, Kamenev e naturalmente Trockij) e nell’immediato dopoguerra da Albert Camus che si procurò così il perenne odio dei comunisti. Il “figiciotto” doveva essere il primo della classe per dare il buon esempio, doveva fare una vita consona alle regole del Partito, la ragazza doveva essere rigorosamente una compagna, il vino un barbera o un cancarone, il pasto modesto. Io ne ho conosciuti parecchi di questi “figiciotti” e li ho sempre rispettati, come loro rispettavano me.

Quei valori che sia la borghesia sia il mondo contadino sia il proletariato rispettavano erano in realtà ottocenteschi e anche più in là perché corrispondono alla dignitas latina, onestà, lealtà, protezione dei più deboli magistralmente interpretata da Lucio Sergio Catilina (“Mi sono assunto, com’è mio costume, la causa generale dei disgraziati”).

Ma torniamo all’Italia degli anni Cinquanta. In fondo non sono trascorsi molti anni, ma quei valori rimasti validi fino al miracolo economico e anche un poco oltre si sono sciolti come neve al sole.  

Perché essere onesti è un handicap? Perché la persona onesta è d’intralcio a qualsiasi gherminella, chiamiamola così, e può diventare pericolosa se queste gherminelle le denunciasse. Negli ultimi anni dell’Unione Sovietica quelli dei Brežnev e degli Andropov, Suslov teneva in mano tutto il Partito perché non aveva dace più o meno nascoste né si abbandonava ai costosi libertinaggi degli altri membri del Pcus. E quando venne in Italia per il IX Congresso del Pci tutti i dirigenti comunisti, mi raccontò Davide Laiolo, furono presi dal terrore.

In Italia per le illegalità non mancano le sanzioni, che valgono però per qualche poveraccio che, ridotto alla fame, ha rubato per un paio di volte qualche mela (reato continuato) mentre i pezzi grossi e anche un po’ meno grossi se la cavano sempre.

La realtà è che in Italia più che la sanzione penale manca quella sociale. Ho rievocato più volte la storia di Luigi Bisignani. Costui, oltre a esser stato pescato con le mani sul tagliere della P2, fu condannato nel 1993 per reati contro la Pubblica amministrazione. Ora si penserebbe che un tipo così non avrebbe più potuto metter piede nella PA nemmeno come bidello. Invece lo troviamo bel bello, pochi anni dopo, come consigliere di Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, poi condannato (la cosiddetta ‘seconda Tangentopoli’). Ma non basta, Bisignani è ancora attivo oggi, implicato nelle più losche macchinazioni (la P4).

Matteo Renzi disse all’amico fraterno Enrico Letta “stai sereno” e dopo poche settimane gli soffiò il posto di Capo del governo. Io ho una cultura da bar e uno che si comportasse così in quel bar non ci metterebbe più piede, invece Renzi è ancora all’onor del mondo e col suo partitino, Iv, che ha percentuali da albumina, è in grado di condizionare la politica italiana.

Ma il caso più clamoroso e devastante è quello di Silvio Berlusconi che ha dimostrato che col potere del denaro si può violare impunemente quasi tutto il Codice penale e aggiustare, a proprio comodo, anche quelle della Procedura penale. Con questo esempio che cosa può pensare il cittadino comune che per sua natura sarebbe normalmente onesto? Dirà: “ma devo proprio essere io il più cretino del bigoncio?”. E questo basta a spiegare l’enorme corruzione, l’enorme illegalità in cui vive attualmente la società del nostro Paese. Per dimostrare come i forti in politica si dan vicendevolmente la mano basterebbe il voto con cui l’intero parlamento italiano ha stabilito che Karima el Mahroug, la famosa Ruby Rubacuori, marocchina, era in realtà un’egiziana parente del presidente Mubarak. In quello stesso periodo Luigi Ferrarella, una sorta di Travaglio del Corriere, raccontava che in Germania un Ministro era stato costretto a dimettersi perché in anni lontani aveva lucrato su un mutuo. La corruzione corre per tutta l’Europa, ma evidentemente corre di più da noi. Certo noi non possiamo essere tedeschi o svizzeri ma una certa mediazione fra le leggi che altri Paesi rispettano e l’illegalità o, quantomeno fra ciò che legale non è, dovrebbe pur esistere. Vale qui il concetto espresso negli anni Ottanta dalla valletta Lory Del Santo, quando Mani Pulite, che sarà poi innocuizzata da Berlusconi e da tutti i berluscones della terra, era di là da venire: “La morale non esiste. L’unico principio è che il fine giustifica i mezzi e tutte le strade sono buone se portano là dove vuoi arrivare”. Nella sua onesta impudicizia la Del Santo aveva detto la verità.

Ma c’è anche un altro strumento, più sottile, per fregare le persone oneste: la furbizia. Vale a dire, è solo un esempio, far fare agli altri il lavoro che dovresti fare tu, attribuirsene i meriti se le cose van bene, scaricare tutto su di te se invece van male.

Scrivevo nel 1989, in una lettera a mio figlio Matteo allora undicenne: ci vuole una grande forza interiore per essere onesti e soprattutto per rimanerlo anche perché chi si comporta con onestà, lealtà (la dignitas di cui parlavo prima) “non ha nemmeno, a differenza d’un tempo, il rispetto del contesto sociale, ma gli tocca anzi subire la commiserazione, se non l’aperto disprezzo dei bari della vita”.

 

8 Novembre 2024, il Fatto Quotidiano

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Se vivessi negli Stati Uniti parteciperei alla scommessa di Elon Musk, quest’uomo geniale, che ha fatto i soldi e adesso si diverte, su chi vincerà le prossime elezioni. Io scommetterei su Trump. So che “The Donald è piuttosto volgarotto e in questo senso non piace neanche a parte dei repubblicani, Kamala Harris non sarà, magari, volgare, ma come vice di Biden (un altro che volgare non è ma è almeno tre anni che non si regge in piedi e non c’è con la testa) è sempre stata una figura sbiadita e non si vede perché dovrebbe cambiar colore solo perché adesso è candidata alla Presidenza degli States.

Ma la mia preferenza per Trump non è dovuta semplicemente al fatto che la controparte è debole. Storicamente i repubblicani sono sempre stati “isolazionisti”, prima che George W. Bush innalzasse la bandiera della “guerra preventiva” inanellando un periodo di guerre a ripetizione, in Afghanistan, in Iraq e, succedutogli il democratico Obama, in Siria e in Libia, tutte guerre che sono venute, regolarmente, in culo all’Europa e agli Stati europei. Si può sperare, con buoni motivi, che The Donald torni allo storico isolazionismo dei repubblicani, ciò che interessa a Trump è soprattutto l’America (“America First) quello che accade fuori molto meno. Trump quando è stato Presidente non ha fatto alcuna guerra, anche se può sembrare paradossale è un “pacifista”.

Ma la ragione principale per cui scommetto, sperando di vincere, su Trump è che porrà fine in breve tempo alla guerra russo-ucraina. Trump prima di essere un politico è stato un imprenditore, e continua essere anche un imprenditore, e conserva l’impianto mentale dell’imprenditore. Per questo decise il ritiro dei soldati americani dall’Afghanistan sembrandogli inconcepibile che gli Stati Uniti avessero buttato via diecimila miliardi di dollari per una guerra che, secondo lo stesso Pentagono, “non si poteva vincere” (il ritiro fu poi organizzato nel più ridicolo dei modi da Biden, una fuga indecorosa e scompigliata dove toccò ai Talebani mantenere un minimo di ordine e di decenza, in quanto all’Italia il primo a fuggire fu l’ambasciatore Vittorio Sandalli). Allo stesso modo Trump non ha nessuna intenzione di mandare quattrini e armi a Zelensky per un’altra guerra che, a detta dello stesso capo di Stato Maggiore Mark Milley, “nessuno può vincere”.

Io scommetto quindi che The Donald vincerà la corsa alla Presidenza. A meno che non lo facciano fuori prima, non politicamente ma fisicamente. C’è già stato un attentato in piena regola in cui The Donald ci ha rimesso solo un lobo e due tentativi sventati dalle forze di sicurezza. Negli Stati Uniti, Paese di punta della democrazia occidentale, questi giochetti sono piuttosto frequenti, come ricordano gli assassinii di Abramo Lincoln e John Fitzgerald Kennedy.

 

5 Novembre 2024, il Fatto Quotidiano

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Dopo il bagno di sangue del lockdown il Teatro sembra in leggera ripresa, se prima del Covid gli spettatori erano 15 milioni e durante il Covid 4,2 milioni ora sono arrivati a 4,9 milioni (dati Siae, 2022). Ciò non toglie che il Teatro sia in crisi almeno da quando fu sostituito nell’intrattenimento dalla televisione. Inoltre lo stanziamento del Mic, Ministero della Cultura, attraverso il Fondo unico per lo spettacolo è veramente di poca cosa (420 milioni circa) e comprende spettacoli di ogni genere: cinema, concerti, teatro di prosa e teatro lirico oltre al cosiddetto “teatro viandante” cioè le vecchie e care “compagnie di giro” che si esibivano soprattutto nei piccoli centri dove i giovani attori facevano gavetta e gli anziani che non avevano avuto successo potevano guadagnarsi la pagnotta.

Oltre la concorrenza devastante della televisione il Teatro è in crisi anche per altri motivi. Mancano i testi. Nel suo ottimismo Pamela Villoresi, forse la più nota certamente la più brava delle attrici del nostro Teatro, mi portò a vedere tre spettacoli al Piccolo. Uno era di un autore tedesco e non si capiva niente, non per la lingua perché gli attori recitavano ovviamente in italiano ma perché la trama era inconsistente, altri erano rimasugli del Piccolo anche perché Strehler, come tutte le primedonne, non ha allevato allievi all’altezza. Forse a far davvero Teatro sono oggi alcuni cantautori come Guccini con Don Chisciotte o De André con il Re fa rullare i tamburi.

E quindi ci si rifugia nel repertorio di sempre, la tragedia greca particolarmente suggestiva quando è rappresentata nei teatri greci di Sicilia, Siracusa, Taormina, Tindari (attualmente, non a caso, chiuso al pubblico) o nelle commedie di Goldoni o nelle commedie, o piuttosto tragedie, di Shakespeare (Be or not to be, that is the question).

Io rimango comunque fiducioso nel futuro del Teatro. Dalle origini il Teatro è stata la più importante cinghia di trasmissione della cultura che univa ricchi e poveri, aristocratici e gente comune. La sola differenza è che i primi andavano in platea, i più importanti proprio sotto il palco, i secondi in loggione.

In tv lo spettacolo è seriale si rivolge allo stesso pubblico generalista, inoltre se parliamo dell’oggi il prodotto fa venire il latte alle ginocchia. Diverso il discorso per la tv di Ettore Bernabei, democristiano, che nel periodo della sua Direzione si permise di dare un’infinità di spettacoli teatrali, di concerti di musica classica e sinfonica e la sera proponeva miniserie italiane ma anche estere come Il mulino del Po di Bacchelli e i Demoni con la formidabile interpretazione di Luigi Vannucchi nella parte del principe Stavrogin. Osò anche dare, in prima serata, il Settimo sigillo di Bergman che la mia segretaria alla Pirelli interpretò come un “noir”, ci stava.  Ma quelli erano altri tempi, i tempi di Bernabei appunto e, sul piano più politico ma anche culturale, di Giulio Andreotti che nel dopoguerra riuscì, con la sua strepitosa capacità di dribbling, alla Messi, a far passare il cinema del neorealismo dove i registi, da Visconti a Rosi, erano tutti comunisti.

A teatro lo spettacolo è sempre diverso perché diverso è il pubblico. Il pubblico della prima di Bologna non è quello della seconda né della pur vicinissima Modena per non parlare del pubblico glaciale di Torino. A Torino, al Colosseo, col mio Cyrano, avemmo un’esperienza esaltante. Durante il primo atto il pubblico si era dimostrato molto freddo. I ragazzi nell’intervallo sacramentavano, ma poi riuscimmo a scaldare anche quel pubblico.

Anche la compagnia non è sempre nella stessa forma. Gli attori sono dei fachiri, recitano in qualsiasi condizione fisica. Mi ricordo di Pamela Villoresi che, ospite a casa mia, al mattino non aveva la voce e la sera doveva recitare un monologo. Ma, con opportuni accorgimenti, aerosol soprattutto, quando fu il momento del dunque passò superbamente la prova. Recitano anche quando hanno la febbre a 39. E’ capitato anche a me al Celebrazioni di Bologna. Ero febbricitante e nei camerini c’erano spifferi tremendi. Benché del tutto novizio di quel mestiere quando salii in palcoscenico (che, come ho già scritto, con la sua superficie in legno ti dà di per se stesso energia) riuscii a cavarmela bene. In un’altra occasione, sempre nel Cyrano, si ruppe una lampada e le schegge di vetro volarono dappertutto. Nell’intervallo il Direttore di scena mi avvertì: “guarda ho cercato di spazzare tutto il possibile, ma qualche scheggia è sicuramente rimasta”. E infatti l’atto successivo io misi puntualmente il piede su una di queste schegge, ma portai a termine la recita come se nulla fosse. Allora mi dissi che ero diventato un vero attore. Anche se un attore non sono mai stato, sono poco duttile, e non per nulla nel Cyrano che era una sorta di sintesi del cosiddetto “Fini pensiero” io recitavo me stesso.

Ma le cose più divertenti a teatro il pubblico non le può vedere perché fanno parte del backstage, dietro le quinte. Le ragazze fino a dieci minuti prima dell’alzarsi del sipario pareva che se ne infischiassero. Poi erano crisi di nervi, crisi di pianto, “devo fare la cacca” e cose del genere. Noi avevamo due soli attori professionisti, molto bravi, Ettore Distasio, che sarebbe andato benissimo per il teatro francese e Matteo Reza Azchirvani, di origine iraniana, utilissimo in uno sketch dove doveva fingere di farsi saltare in aria come un Isis. Dietro le quinte Distaso e Azvhirvani tramavano contro il regista ritenendolo sempre colpevole di qualche nefandezza ai loro danni. Azchirvani era insopportabile, riusciva a porre dei problemi cinque minuti prima che si alzasse il sipario. Mi ricordo che una volta il regista, Eduardo Fiorillo, un omone di novanta chili, tutto muscoli e nervi, per un pelo non lo accoppa sul posto.

Oggi, anche se me lo proponessero, non potrei più fare teatro (allora avevo sessant’anni): mi mancano le energie, anche se i veri attori come Giorgio Albertazzi, morto a 92 anni o Vittorio Gassman han recitato sino alla fine della loro vita. Ma qui parliamo di un’altra categoria. Dico i grandi attori di cinema ma anche di teatro a cui è d’obbligo aggiungere Ugo Tognazzi e, su un piano minore, Nino Manfredi. Oggi quei grandi attori, che han fatto la storia del teatro del cinema e, in sintesi, anche della cultura italiana del dopoguerra, non ci sono più mentre i giovani preferiscono al teatro il cinema molto più remunerativo.

Ma oltrepassiamo le Alpi e andiamo in Francia, dove, tra le altre cose, il Teatro è molto più finanziato che da noi. Laurent Terzieff, grande attore di cinema (Peccatori in blue-jeans, kapò, Il deserto dei tartari) preferì dedicare gli ultimi anni della sua vita esclusivamente al teatro. Ho visto a Parigi, in Rue d’Odessa, a l’ex Colombier una sua memorabile prestazione in Caligula dove interpreta la parte dell’Imperatore ritenuto pazzo, ma che pazzo non era affatto così come non era pazzo Nerone dannato “in seacula seaculorem”. Per non parlare di Sir Laurence Olivier (fu nominato ‘Baronetto’ dalla regina Elisabetta) il maestro di tutti gli altri che si esibì esclusivamente a Teatro.

A me resta la speranza, se la nobile signora non cala prima la sua falce, di vedere un’opera teatrale degna d’esser tale. “En attendant Godot”.

 

1° Novembre 2024, il Fatto Quotidiano