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L’Inter esce sicuramente a testa alta dalla finale di Champions. Ma ha perso un’occasione irripetibile. La squadra del City non è quasi scesa in campo, schiacciata dal pronostico che la dava come ultra favorita, dalla ‘paura di vincere’. In più aveva perso dal 36 del primo tempo Kevin De Bruyne, che era stato l’autore dell’unica giocata, per entrambe le parti, del primo tempo: un dritto per dritto per Haaland che però ha ciccato a dimostrazione che i veri centroavanti non sono quelli grandi e grossi ma si chiamano Robert Lewandowski o Ruud van Nistelrooij, assassini d’area di rigore, ma che sanno aprire il gioco e anche quando possono tirare passano il pallone al compagno meglio piazzato. Van Nistelrooij era stato compagno del giovanissimo Cristiano Ronaldo al Manchester United. Quando lo vedeva meglio piazzato (ricordo uno straordinario ‘scavino’ che mette Cristiano solo davanti alla porta) gli passava il pallone, Cristiano mai. Una volta Ruud, che pur è un uomo mite, stufo, gli tirò un cazzotto in faccia dicendogli: “E adesso vai a piangere dal tuo papà portoghese”. Da allora, forse, Ronaldo capì che il calcio è un gioco di squadra. C’è voluto comunque del tempo. Al Madrid Benzema era adibito al suo servizio e non segnava mai. Fu ancora Van Nisterooij a salvarlo. Rientrato dopo un lungo infortunio, alla prima occasione utile passò la palla a Benzema che segnò, poi segnò lui stesso ma vidi che non esultava. “Si è rotto“ disse mio figlio Matteo che guardava la partita insieme a me. E fu la fine della carriera di Van Nistelrooji. Ruud non è stato molto fortunato (come De Bruyne che si è rotto proprio in due finali di Champions) ma resta pur sempre nel rapporto gol partite giocate in Champions 60 gol in 77 partite, media 0.77, dietro solo gli inarrivabili Messi e Ronaldo e Lewandowski che lo ha da poco superato. E si sa che i gol che contano sono quelli segnati in Champions.

Un indementito Fabio Capello che commentava in studio la partita per Sky, a conferma che questo network è in picchiata da quando dal 2018 lo dirige Giuseppe De Bellis (in un interminabile speciale per la morte di Berlusconi i suoi giornalisti sono riusciti a non intervistare nemmeno un avversario del ex Cavaliere) ha detto la bestemmia delle bestemmie e cioè che l’uscita di De Bruyne aveva favorito il City. Ora De Bruyne è, al momento, il miglior giocatore del mondo, specialista in assist e Capello può aver detto quella sciocchezza solo perché contaminato dall’ambiente Sky.

Incredibile la serie di passaggi, anche semplici, sbagliati dai giocatori di entrambe le squadre. Delle millanta partite che ho visto in vita mia City Inter è stata la più brutta, anche se di grandissima importanza dal punto di vista emotivo.

Lukaku ha sbagliato un gol a porta praticamente vuota tirando sul portiere. Possibile che Inzaghi, che è un bravissimo allenatore, non si ricordasse dei tre gol sbagliati da Lukaku davanti alla porta in una partita del Belgio (per sfortuna del Belgio è di nazionalità belga, anche se la sua famiglia è congolese) in una partita dei recenti mondiali?

Il City era schierato in modo scombiccherato. Stones, probabilmente il migliore, faceva l’uomo davanti alla difesa, il centrocampista, l’attaccante ma così toglieva spazio a Rodri che non si è visto per tutta la partita tranne che per il gol (è legge di Eupalla che segni il peggiore) costruita da un’azione Akanji-Bernardo Silva. Insomma il City ha prevalso per la sua difesa e non per il suo, di solito formidabile, centrocampo. L’Inter di Inzaghi era schierata più razionalmente, ci metteva un maggiore ardore, ma con Lukaku centroavanti alla fine la paghi.

Inzaghi nel secondo tempo ha fatto, forse un po’ in ritardo, delle sostituzioni coraggiose: Mkhitaryan, Bellanova, D’Ambrosio.

Cosa ha fatto invece il genio Guardiola? Niente. A parte la sostituzione obbligata di De Bruyne con Foden, inconsistente, non ha sostituito l’inguardabile Grealish con Mahrez. Alla fine stava per sostituire Akanji che, a parte uno svarione iniziale, era stato determinante nell’azione del gol. Akanji è un centrale (con Elvedi forma una coppia di tutto rispetto nella Svizzera) ma al momento dell’azione del gol si trovava all’altezza dell’aria di rigore dell’Inter. Guardiola è stato quindi salvato dal Caso. E la partita non l’ha vinta il City e non l’ha persa l’Inter, l’ha vinta il Caso e sarebbe dovuto spettare al Caso alzare la coppa, non a Gundogan, anche lui stranamente inconsistente, che è capitano per l’astio che Guardiola ha per Kevin De Bruyne che gli toglie la scena. Ma anche il Caso fa parte delle misteriose strategie di Eupalla. Non è contenibile nelle statistiche con cui c’hanno ammorbato durante la partita l’insopportabile Caressa e l’incolpevole Bergomi. Il Caso è astratto e, essendo per definizione impalpabile, domina le nostre vite, non solo nel calcio.

Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2023

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Ho ascoltato tardivamente lo ‘speciale’ che Minoli ha dedicato qualche giorno fa a Walter Tobagi, assassinato nel maggio di 43 anni fa dalla Brigata XXVIII Marzo.

Minoli non gode di buona stampa presso Il Fatto che non gli perdona, credo, di esser stato craxiano e forse, e ancor più, di essere sposato con Matilde, la figlia di Ettore Bernabei che è stato il miglior dirigente della Rai. Certo la sua era una conduzione ‘dirigista’ ma di alto livello, poi venne il “pluralismo”, col saccheggio della Rai ad opera dei partiti e le tv di Berlusconi a dimostrazione che la concorrenza non migliora il prodotto.  

Minoli ha quindi usufruito di corsie preferenziali, ma ciò non toglie che sia un ottimo giornalista, che fa inchieste non talk,come dimostra anche questo suo speciale su Tobagi che in alcuni passaggi è, oso dire, commovente.

Io ho attraversato con Tobagi quella stagione di sangue e di criminali idiozie. Quando arrivai all’Avanti Tobagi se n’era già andato all’Avvenire, per lui non era una incongruenza perché Walter era uno strano incrocio catto-socialista. Conobbi quindi Tobagi quando lavorava per l’Avvenire e poi in seguito quando entrò nel Corriere d’Informazione e quindi approdò come cronista e editorialista al Corriere. Ciò che ci univa è che eravamo diversissimi di carattere. Io ero inquieto, irrequieto, spavaldo, sbruffone. Walter era quieto, riflessivo, prudente. C’è una bella foto, dove non so in quale riunione, io indosso un maglione guatemalteco, tipo Tupamaros, e lui è impeccabile in giacca e cravatta.

Quante volte, la notte, mai sazi di chiacchiere salivo a casa sua a svaligiare il frigo per la disperazione di Stella, la moglie.

Con Tobagi eravamo uniti anche nell’attività sindacale.Nell’Associazione lombarda dominavano i giornalisti filo comunisti del Corriere, i Fiengo, i Pantucci, i Morganti. Noi, Tobagi, io e Ciccio Abruzzo, pensammo di costituire una corrente alternativa, “stampa democratica”. Due erano i nostri obiettivi. Ridare il sindacato ai giornalisti che facevano i giornalistisottraendolo ai professionisti del sindacato. L’altra era quella di togliere il potere ai giornalisti filo comunisti del Corriere.Preparammo una mozione che sfiduciava il presidente della Lombarda, Fioramonti, socialista anche lui ma alleato con i comunisti. La sera di quella sfiducia che prevedeva un’alleanza con i “fascisti” di Autonomia, Walter girava e rigirava la mozione tra le sue mani grassocce. Tentennava. Si rendeva conto che quell’atto implicava delle conseguenze, anche piuttosto gravi. Come minimo ci avrebbero dato dei “fascisti” come poi avvenne. Finché io, stufo, gli strappai il foglietto dalle mani e dissi: “presidente, c’è una mozione mia e di Tobagi”. E così Tobagi divenne presidente dell’Associazione lombarda e quindi nel suo doppio ruolo di editorialista del Corriere e di presidente della Lombarda era doppiamente esposto ai terroristi. Poco dopo in un covo di Prima Linea furono trovati i nomi di Tobagi, mio e di Ciccio. A Tobagi, il più esposto, fu proposta una scorta che rifiutò.

La sera del 27 maggio ci trovavamo insieme, Tobagi ed io, ad un dibattito al Circolo della Stampa sul tema dal titolo molto attuale: “libertà di stampa e segreto istruttorio”. Poi, poiché abitavamo vicini e oltretutto a Walter non piaceva guidare, lo riaccompagnai  a casa come avevo fatto tante altre volte. Sono stato l’ultimo a veder vivo Tobagi a parte la moglie Stella. Mai sazi restammo per più di un’ora a chiacchierare davanti a casa sua. Walter mi disse che da un mese aveva rallentato le sue inchieste sul terrorismo. “Sai, non voglio morire per questi qua”, intendendo il direttore del Corriere, Franco Di Bella, e Gaspare Barbiellini Amidei. Cadeva una pioggerellina leggera. Pensai che eravamo davvero imprudentia restare immobili, bersagli fissi, davanti a casa sua, di notte. Ebbi l’impulso di voltarmi e di scrutare se c’era qualcuno. Ma non lo feci per non spaventarlo e non spaventarmi. L’ultima immagine che ho di lui è che armeggia con le chiavi davanti al bel portone di legno di via Solari 5. Poi andai a dormire.

Ero in uno dei miei periodi di disoccupazione. Mi svegliò la telefonata di un amico, Gianfranco Vené, che mi ringraziava per un piccolo favore. Aggiunse: ma con quel che è successo queste sono davvero piccole cose. “Che cos’è successo?” chiesi, stupito. “Ma come non lo sai? Hanno ucciso Walter”. Uscì e mi precipitai verso la casa di Tobagi e qui vidi una delle scene più inguardabili. I giornalisti che più gli erano stati avversi lacrimavano come fontane mostrando le occhiaie rosse di pianto. Ma il peggio avvenne ai funerali, in pompa magna, barocchi, con Rolls Royce, così contrari alla pudicizia di Walter. Oriana Fallaci, che non aveva mai visto Tobagi in vita sua, si stringeva al braccio di Tassandin per sottrarre al morto la parte di protagonista. Quindi venne l’insopportabile retorica del “cronista buono”. Tobagi era un buon cronista che è cosa diversa, aveva anche lui i suoi bravi artigli e all’Avvenire era chiamato il “viperotto” in contrapposizione a Corrado Incerti, la “mangusta”.

Al Corriere si era sempre respirato un clima di odio verso Tobagie, in Rizzoli, verso di me. Nacque la tesi –sposata anche da Minoli-  che Barbone e Morandini avevano coperto i mandanti che andavano cercati fra i giornalisti pseudo-comunisti del Corriere. Tesi insostenibile. Innanzitutto in linea logica perché in regime di legislazione premiale Barbone e Morandini avevano tutto l’interesse a denunciare dei mandanti, se ci fossero stati. In secondo luogo è vero che al Corriere c’era quel clima d’odio verso Tobagi, ma i Fiengo and Company erano delle tali amebe che mai si sarebbero implicati in un omicidio.

Fu soprattutto Craxi a cavalcare questa tesi. L’anno seguente la morte di Tobagi mi trovavo al Circolo della Stampa per onorare la memoria di Walter. Incrociai sulla stretta porta di uscita Craxi che mi disse: “sbagli a scrivere quello che scrivi”. “No, sei tu che sbagli”. Scendemmo nel cortile del Circolo e continuammo a parlare della morte di Tobagi e dei possibili mandanti. La piccola folla di seguaci di Craxi se ne stava a rispettosa distanza. Chiesi a Bettino che cosa avesse in mano. Una fumosissima confidenza delgenerale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Insomma fuffa. Quando lasciai Bettino accadde una cosa curiosa. Socialisti che non mi salutavano da anni mi si fecero incontro con attuzzi e moine, nella loro mente di servi pensavano che fossi tornato nelle grazie del Capo.  

In seguito la polemica con Craxi divenne rovente, non solo per quella storia di Tobagi ma perché aveva finito per circondarsi di yesman e “nani e ballerine” come le definì compagno Formica, che gli avevano tolto quel contatto con la realtà e quell’istinto politico che era stata la sua forza. Dall’America Craxi mi definì un “giornalista ignobile che scrive cose ignobili”. Ma qui inizia un’altra storia che riguarda la decadenza di Bettino, i miei rapporti con la figlia Stefania, che vi racconterò un’altra volta.

Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2023

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“Le tasse sono un pizzo di Stato”. Questa affermazione se fatta da un comune cittadino integra il reato di vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni e delle Forze armate, delle Assemblee legislative, del Governo, della Corte Costituzionale, dell’Ordine giudiziario (art. 290 c.p). Questo vilipendio si porta dietro a cascata il vilipendio alla Nazione e alla bandiera. Tutti reati, per altro di derivazione fascista, da cui fu sommerso, a suo tempo, Umberto Bossi.

Ma qui non siamo in presenza di un comune cittadino ma della premier Giorgia Meloni che rappresenta la più alta carica dello Stato dopo quella del Presidente della Repubblica (nella fattispecie il traballante Mattarella, un ottantenne che sembra un Joe Biden italiano con idee ancor più confuse perché di recente, equivocando sulla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, ha anfanato di un inesistente “diritto alla felicità”). Meloni quindi non solo vilipende sé stessa ma si delegittima con le sue proprie mani (ma sarebbe meglio dire bocca). Quindi se quello che dice Meloni è vero, e non c’è motivo di dubitarne, noi viviamo in uno Stato criminale e mafioso. Mi spingerei a dire che Meloni vilipende anche la Mafia, che è un’organizzazione seria e che per lo meno non si maschera dietro lo Stato di diritto.

Se lo Stato italiano è criminale e mafioso è nostro diritto non solo non rispettarne le leggi ma anche ribellarsi allo Stato in quanto tale. Finora i cittadini italiani, come pecore da tosare, è il caso di dirlo, e asini al basto, hanno sopportato tutto anche perché è difficile ribellarsi ad uno Stato che, per quanto criminale e mafioso, conserva pur sempre il monopolio della violenza. Finora i cittadini italiani si sono ribellati solo nella forma pacifica dell’astensione, sempre in crescita: nelle recenti amministrative Brindisi è passata, come percentuale dei votanti, dal 60,7 del 2018 al 43,8 del 2023, Massa dal 62,5 al 51,3, Terni dal 59,4 al 43,3. Se l’astensione dovesse aumentare ulteriormente ci troveremmo di fronte ad una situazione di tipo kosovaro, del resto se uno Stato è criminale, Meloni docet, è lecito ribellarsi ad esso con la violenza. Si possono ipotizzare diverse soluzioni. 1) Non si pagano più le tasse, pardon “il pizzo”, e così crolla tutto il sistema. 2) Il cittadino esasperato prende autonomamente le armi e si sa che “terribile è l’ira del mansueto”. 3) Le Forze armate, delegittimate in uno Stato non più legittimo, prendono il potere con un colpo di Stato che un tempo avremmo chiamato “alla sudamericana” ma che oggi sarebbe ingiurioso nei confronti di quei Paesi. 4) Poiché gli italiani sembrano svuotati di ogni vitalità, a differenza dei cugini francesi, in genere così simili a noi, che qualche seria rivolta di piazza l’hanno fatta e stanno facendo (i gilets jaunes, le proteste contro l’aumento dell’età pensionabile) si potrebbe, extrema ratio, ingaggiare con una colletta la Wagner perché agisca al nostro servizio, come in Russia fa con Putin ma come fa in molti altri paesi. Certo ci costerebbe un po’, ma sempre meno delle tasse italiane.

Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2023