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Appena diventato Presidente operativo ed operante del Brasile il primo gennaio del 2023 scalzando Bolsonaro Lula ha messo subito le mani avanti: “non daremo armi all’Ucraina”. Perciò è stato immediatamente bandito dalla comunità Internazionale e considerato un appestato. Quando nei media e fra i politici si parla di “comunità internazionale” riferendosi così a tutto il mondo, ci si dimentica che di questa comunità fanno parte anche la Russia, l’India, la Cina e gran parte del mondo sudamericano e non solo gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea.

Dopo una breve visita di parata a New York (l’‘amico americano’ va comunque tenuto buono benché, in realtà, sia nemico non solo del Brasile diretto da Lula ma di tutti i paesi che sotto la guida del venezuelano Chávez hanno intrapreso la via del cosiddetto “socialismo bolivariano”)  Lula ha aggravato la propria posizione agli occhi della “comunità internazionale”, come viene comunemente intesa, andando a far visita una decina di giorni fa a Xi Jinping mentre il ministro degli Esteri russo Lavrov andava contemporaneamente a Brasilia. Fra i progetti cino-brasiliani c’è quello che gli scambi tra i due paesi avvengano in moneta cinese (yuan) e non in dollari, insieme a molti altri tutti ostili agli Stati Uniti. Il concetto di “comunità internazionale” sembra significare, lessicalmente, il mondo intero, così lo si intende quando si scrive o si dice “la comunità internazionale condanna”, “la comunità internazionale approva” e così via, dimenticando che di questa supposta “comunità internazionale” non fanno parte la Russia, l’India, la Cina e buona parte della grande realtà sudamericana. Ne fanno parte Stati Uniti, Canada, Unione Europea, punto e basta.

Gli europei, con gli Stati Uniti, sono troppo concentrati su sé stessi e non vedono le realtà di altre culture e di altri popoli che non sono inseriti nel “totalitarismo democratico” e non si rendono conto che modificazioni in questo mondo “altro” possono avere ed hanno un impatto, esso sì, globale. Prendiamo la posizione di Lula sulla foresta amazzonica, almeno di quella foresta amazzonica che fa parte del Brasile, e quella di Bolsonaro. Bolsonaro aveva disboscato circa un terzo di questa foresta a favore dei garimpeiros e delle grandi fazenda. Questa dovrebbe essere una questione, anzi un dramma, che riguarda tutti i paesi del mondo perché la foresta amazzonica è un polmone indispensabile oltre ad essere un crogiuolo di biodiversità sia nell’universo umano che animale che vegetale. Nelle intenzioni di Lula c’è di dare uno stop a questo disboscamento e di ingaggiare battaglia contro i garimpeiros anche se questo provoca poi ulteriori problemi perché i garimpeiros non sono tutti dei delinquenti e hanno anch’essi il diritto di vivere. Se si ignora l’Amazzonia è poi inutile fare grandi progetti di “transizione ecologica” che per ora si limita alle truffe del “green” e del “bio”, brand concettuali di cui si sono subito appropriati gli imprenditori internazionali, cioè i veri inquinatori.

Lula si inserisce nel grande progetto del “socialismo bolivariano”(dal venezuelano Simon Bolivar che ai primi del Ottocento aveva immaginato una “Grande Colombia” che unisse tutti, o gran parte, i paesi latinoamericani).  A questo progetto aderiscono attualmente Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Cuba mentre simpatizzano l’Argentina, Colombia, Perù, Messico. Ovviamente, Brasile e Argentina, per le loro dimensioni devono essere più cauti nei confronti dell’ “amico americano”, mentre, per esempio, in Nicaragua gli ambasciatori Yankee, gli odiati gringos, vengono cacciati a pedate nel sedere.

Che cos’è il “socialismo bolivariano”? Facciamolo dire dalla deputata venezuelana Tania Díaz, che così si è espressa per la casa editrice italiana Mimesis: “Stiamo soppiantando il concetto di democrazia rappresentativa, in cui il popolo elegge rappresentanti che governino per lui, per sostituirlo con quello di democrazia partecipativa e protagonista, che in modo non trasferibile restituisce al popolo il potere di governare, di esercitare la sovranità e lo rende padrone del proprio destino”.  Inoltre, “il socialismo bolivariano” si propone di limitare, se non di eliminare, le grandi differenze sociali che caratterizzano il cosiddetto Occidente senza però negare apoditticamente la necessità dello Sviluppo. Vasto programma avrebbe detto cinicamente De Gaulle. Però noi crediamo che sarebbe bene che i cosiddetti occidentali invece di continuare a guardare ossessivamente il proprio ombelico dessero un’occhiata anche a quello che succede in “altri mondi”, che non sono metafisici o iperuranici, ma operano qui su quella Terra che dovrebbe essere di tutti.

 

Il Fatto Quotidiano, 26 Aprile 2023

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Sul Corriere Aldo Cazzullo che tiene giornalmente una interessante rubrica di posta, rispondendo a due lettori angosciati per il suicidio della giovane pallavolista Julia Ituma, che gli chiedevano di dare una risposta a questo suicidio, si è affannato a spiegare il fenomeno del suicidio in termini generali, ricorrendo, fra l’altro, insieme ad altre ipotesi più intime, alla “rivoluzione digitale”.

A Cazzullo sembra sfuggire che l’esponenziale aumento dei suicidi nel mondo occidentale ha radici ben più antiche della “rivoluzione digitale”, che è un fenomeno degli ultimi vent’anni. Radici che affondano nel terreno del modello di vita che ci siamo creati  dopo l’avvento della Rivoluzione industriale e che l’Illuminismo ha razionalizzato nell’ideologia liberista e marxista. Cazzullo non può accettare, pur da riformista moderato qual è, di dover rispondere alla indecente domanda se “si stava meglio quando si stava peggio” intendendo qui come peggio il mondo pre industriale e pre illuminista.

Si potrebbero tirare in ballo per affermare le ragioni del peggio sul meglio, i fattori che erano patrimonio della società, in prevalenza contadina e artigiana, che ha immediatamente preceduto la Rivoluzione industriale:  l’identità, la minore solitudine, l’armonia, i forti sentimenti, la bellezza del paesaggio, l’illusione della fede. Mi si è sempre obiettato che questi fattori o valori non sono definibili e quindi qualsiasi raffronto con la società moderna che, al contrario, produce beni fisici e quindi quantificabili non è possibile e comunque è un esercizio ozioso. Ma non è così. Ci sono almeno due fattori, oserei dire quantistici, o  comunque statistici, per poter affermare che il peggio era meglio del meglio: i suicidi, appunto, e le malattie mentali. Secondo studi condotti, su una base di quattrocentomila persone, nella Londra del ventennio fra il 1640 ed il 1660, la percentuale dei suicidi fu di 2,5 su centomila abitanti. Naturalmente la base presa in esame è troppo ristretta e circoscritta per poter fare una statistica generale dei livelli dei suicidi nell’Europa pre industriale. Peraltro è molto probabile che il dato londinese di 2,5 pecchi per eccesso e non per difetto perché non è riferito ad una realtà rurale quale era, per i quattro quinti, quella della società pre industriale, ma ad una città come Londra che all’epoca, con più di 500 mila abitanti, aveva già le dimensioni di una metropoli moderna ed è noto, dai classici studi di Durkheim (il suicidio, 1970) che fra i più importanti fattori che determinano il livello dei suicidi c’è l’urbanizzazione, fenomeno peculiare della civiltà industriale. 

Ma veniamo a tempi più recenti e a statistiche più controllabili ed estese. Nel 1851 i suicidi, nel mondo industrializzato, erano già 6,8 su centomila abitanti e divennero 19,4 su centomila nel 1975. C’è da notare che le regioni più ricche e industrializzate sono più ‘suicidarie’, per dir così, di quelle più povere e meno industrializzate. Un buon esempio è l’Italia, che comunque, e per fortuna, in generale è agli ultimi posti di questa sinistra classifica. Leggiamo i dati ISTAT del 2008 che sono gli ultimi forniti in questo campo: “Con riferimento ai valori medi dell’ultimo biennio di disponibilità del dato ISTAT di mortalità (2007-2008), tra le regioni del Nord i tassi più elevati di suicidio si sono registrati in Valle D’Aosta (11,0 per 100.000), in Piemonte (9,2 per 100.000) e nelle Province autonome di Bolzano e Trento (10,7 e 8,8 rispettivamente). Nell’Italia centrale valori piuttosto elevati sono stati registrati in Umbria (9,7 per 100.000) e nelle Marche (8,3 per 100.000). Tassi di suicidialità particolarmente contenuti (inferiori a 6,0 per 100.000 residenti) si sono invece registrati nel Lazio (5,0), in Campania (5,1), Puglia (5,5), Molise (5,9), Calabria (5,95)”. Comunque anche questi dati mediamente bassi ci dicono che il suicidio è in costante e continuo aumento. Prendiamo la Campania, regione dove ci si ammazza volentieri ma ci si suicida meno: nel 1975 i tassi di suicidio erano 2,1 per centomila abitanti ora sono al 5,1, triplicati. In Calabria si è passati da 2,6 a 5,95, triplicati anch’essi.  

Comunque se prendiamo per buona l’analisi londinese di metà del Seicento, i suicidi sono prima triplicati e quindi, stando ai dati disponibili di oggi, decuplicati. Prendiamo il Giappone, aveva un tasso di suicidi del 15,6 nel 1975, nel 1980 era salita a 18,5. Ora è del 23,8. Del resto se siete stati in Giappone avrete notato come nelle stazioni c’è un piccolo pertugio per permettere ai viaggiatori di scendere e poi un reticolato che prosegue per chilometri per impedire che qualcuno si butti sotto il treno, modalità preferita dagli attuali giapponesi al posto del rituale harakiri.

Sulle malattie mentali non abbiamo, per le società pre industriali, dati attendibili. Sappiamo che erano abbastanza frequenti le forme di demenza dovute a tare ereditarie, lo “scemo del villaggio” che godeva però di considerazione e rispetto ritenendosi che, in qualche suo misterioso modo, fosse in diretto contatto con Dio (era il modo sapiente con cui i nostri predecessori inglobavano il “diverso” senza bisogno di  Lgbtq+). Della stessa considerazione (rapporto diretto con Dio) godeva il mendico. C’è da notare che in Europa i mendichi erano l’1 percento della popolazione ed in linea di massima erano tali per loro scelta, insomma dei clochard consapevoli e desiderosi di rimanere tali. Nell’Italia odierna sono in condizione di povertà assoluta circa 5,6 milioni di individui (dati ISTAT). Ma qui ci addentriamo in un altro discorso che è quello delle immense, spudorate, vergognose, volgari disparità sociali nell’universo mondo (Bezos, Elon Musk). Ritorniamo al tema del suicidio e del contesto che lo favorisce, quello ignorato da Cazzullo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità, l’alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale, il fenomeno della droga, non più ristretto a intellettuali e scrittori (Mika Waltari per fare uno dei tantissimi esempi) o all’alta borghesia, è sotto gli occhi di tutti. Si può dire in termini generali che tutti noi basculiamo tra nevrosi e depressioni per trovare una persona sana, equilibrata bisogna andarla a cercare fra i popoli indigeni peraltro in via di estinzione come i rinoceronti. Negli Stati Uniti, 556 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel paese guida del mondo occidentale più di un abitante su due non regge la società in cui vive, non sta bene nella sua pelle. Questi sono dati del 1983, perché essendo cambiato il sistema sanitario statunitense non è possibile fare confronti, ma non c’è ragione di credere che l’abuso di psicofarmaci sia diminuito o non piuttosto aumentato visto l’orgia di violenza che ci viene pressoché ogni giorno da quel Paese.

Ma lasciamo, per concludere, le fredde statistiche. Confrontiamo la stupenda Ninfa di Luca Cranach (1472-1553) esposta alla Nationalgalleriet di Oslo con l’Urlo di Munch (1893) esposto anch’esso alla Nationalgalleriet. Cranach aveva intuito le stesse cose che hanno intuito Munch o Kafka, ma mentre nella Ninfa, inquietudine, dubbio, sospetto si ricompongono in una superiore armonia estetica, etica e psicologica, nell’Urlo diventano angoscia allo stato puro, senza speranza.

 

Il Fatto Quotidiano, 22 Aprile 2023

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Walter Veltroni, sul Corriere della Sera (ma cos’ha fatto di male il giornale di via Solferino per averci un simile editorialista?) si esalta perché grazie ai vaccini contro il cancro e le malattie vascolari, vaccini peraltro ancora di là da venire, l’uomo potrà raddoppiare la durata della propria esistenza.

In termini assoluti la vita umana non è aumentata di un solo cent come testimonia Pierre Chaunu, uno dei più autorevoli storici della scuola degli Annales. Anche se il raffronto fra la vita media, o per meglio dire l’aspettativa di vita che, come vedremo, sono due cose ben diverse, non può essere fatta sugli assoluti, non posso risparmiare a Veltroni il bel racconto di John Locke (1632-1704) a proposito di una candida vecchia signora del suo tempo: “oggi ho incontrato una certa Alice George, una donna che dice di aver compiuto 108 anni a Ognissanti dello scorso anno. Ella vive nella parrocchia di St. Giles a Oxford ... è nata a Saltwiyche nel Worcestershire e da ragazza si chiamava Alice Guise. Suo padre morì a 83 anni, sua madre a 96 e la nonna materna a 111. Si è sposata a trent’anni e ha avuto quindici bambini, dieci maschi e cinque femmine, tutti battezzati, e ha avuto anche tre aborti. Tre dei suoi figli sono ancora in vita... cammina dritta appoggiandosi ad un bastone, e tuttavia l’ho vista chinarsi due volte senza cercare alcun appoggio, prendendo una volta una tazza e un’altra per raccogliere un guanto da terra. Ci sente benissimo. Dice che aveva sedici anni nel 1588 quando andò a Worcester per vedere la regina Elisabetta, arrivando però tardi di un’ora: e questo corrisponde con l’età che dichiara”.

I confronti fra l’epoca preindustriale e la nostra non vanno fatti sulla vita media ma sull’aspettativa di vita dell’adulto. In epoca preindustriale la vita media sconta l’alta mortalità natale e perinatale che lasciava in vita i più robusti. Ma è ugualmente inesatto dire che uomini e donne vivessero, quando andava bene, una trentina d’anni. Basta confrontare questo dato demonizzante con l’età in cui quella gente si sposava, a 28/29 gli uomini, a 24/25 le donne, cioè non avrebbero avuto nemmeno il tempo per allevare i primi figli (parliamo ovviamente della gente del popolo, i nobili si sposavano spesso giovanissimi, Giulietta e Romeo docent).

Diciamo che in termini di aspettativa di vita abbiamo guadagnato una dozzina d’anni (80,5 anni gli uomini, 84,8 le donne, dati Istat 2022) rispetto ai circa settanta dell’era preindustriale. Padre Dante fissa il “mezzo del cammin di nostra vita” a trentacinque anni il che significa che gli uomini del suo tempo pensavano fosse ragionevole morire a settant’anni, in accordo con il biblista “settanta sono gli anni della vita dell’uomo”. Ma bisogna vedere come si vivono questi anni che abbiamo sgraffignato alla Natura. Lasciamo anche qui perdere punte d’eccellenza, sappiamo benissimo che ci sono novantenni e addirittura centenari, come per fare un solo esempio il mio amico Gino Barile dell’omonima grappa, arzilli e alle volte persino gaudenti. Parliamo della gente normale che viaggia fra i settanta e gli ottanta e più. Che senso ha vivere con tre o quattro gravi patologie in una RSA (Berlusconi fa storia a sé non solo perché non vive in una RSA ma perché è dotato, bisogna pure ammetterlo, di una energia fisica e mentale eccezionale)?.

Ma torniamo allo speranzoso Veltroni, vivremo 160 anni: un incubo. Ha detto lo psicanalista Cesare Musatti, a novant’anni e quindi al di sopra di ogni sospetto: “un mondo prevalentemente abitato da vecchi mi farebbe orrore”.

C’è poi il modo indecoroso in cui oggi quasi sempre si muore ( si veda l’ampia antologia The Dying Patient, americana, 1980): il morente, intubato, irto d’aghi, monitorizzato, computerizzato, è un oggetto, una povera cosa umiliata la cui agonia può essere prolungata oltre ogni limite di decenza, per mesi a volte per anni. Insomma siamo in balia dei medici, che possono essere anche dei bravi guaglioni, ma soprattutto della medicina tecnologica che è la vera padrona della nostra morte.  In passato non era così. Scrive Ariés (Storia della morte in Occidente, 1978): “L’uomo è stato per millenni il padrone assoluto della sua morte e delle circostanze della sua morte. Oggi non lo è più. Prima di tutto era inteso, come cosa normale, che l’uomo sapeva di star per morire, sia che se ne accorgesse da solo, sia che bisognasse avvertirlo. Per i nostri vecchi autori era naturale che l’uomo sentisse la morte vicina. Di rado la morte era improvvisa e … molto temuta (oggi la morte improvvisa per eccellenza è l’infarto, malattia tipica della modernità quasi sconosciuta in passato), non solo perché non dava il tempo di pentirsi, ma perché privava l’uomo della sua morte. La morte, dunque, era quasi sempre preannunciata”. Non solo il morente non doveva essere privato della sua morte, la presiedeva: “La parte principale toccava al morente stesso. Egli presiedeva , senza mai incespicare, perché sapeva come comportarsi, tante volte era stato testimone di simili scene. Chiamava ad uno ad uno i suoi parenti, i suoi familiari, i suoi domestici fino ai più umili. Diceva loro addio, chiedeva perdono, dava loro la benedizione. Investito di autorità sovrana, soprattutto nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, all’avvicinarsi della morte impartiva ordini, faceva raccomandazioni (oggi in virtù della legittima non puoi nemmeno diseredare il figlio stronzo). L’uomo del Medioevo e del Rinascimento teneva a partecipare alla propria morte, perché vedeva in essa un momento eccezionale in cui la sua individualità riceveva la forma definitiva. Non era padrone della propria vita che nella misura in cui era padrone della propria morte. La sua morte apparteneva a lui ed a lui solo”. Insomma la morte, o meglio il modo del morire, dava il senso di un’intera vita. I Romani lo avevano ben presente, la morte supremamente degna era quella in battaglia o per suicidio. Una morte violenta dunque. Perché i calciatori del Torino periti a Superga o Ayrton Senna ci restano così impressi? Perché la morte violenta, soprattutto se giovane, li ha resi immortali. Non nel senso però che piace a Veltroni che vaneggia di una vita “senza data di scadenza”. Veltroni non si accorge che una vita immortale sarebbe, alla fine, la morte dell’umanità, perché riempiti tutti i buchi della terra e anche del sottoterra come nella mitica Agarthi non ci sarebbe più lo spazio fisico per fare nuovi figli, ammesso che con qualche altra diavoleria tecnologica una donna possa concepire a 160 anni.

Infine consiglieremmo a Walter Veltroni di leggere, prima di avventurarsi in argomenti tanto complessi che non sono alla sua portata, Ariés, Chaunu, Russel, Cipolla, Laslett, Reinhard, gli Annales e, perché no, La ragione aveva torto?.

 

Il Fatto Quotidiano, 19 Aprile 2023