L’Italia è proprio un bizzarro Paese, si sveglia un giorno e scopre che non facciamo più bambini. Lo scoprono i media lo scoprono i politici, così adesso, di punto in bianco, sono stati creati gli “stati generali della natalità” che non si capisce bene cosa voglian dire.
Il problema, vitale è il caso di dirlo, della denatalità, che riguarda non solo l’Italia ma l’intero mondo occidentale, è vecchio di almeno mezzo secolo, dai tempi del dopo baby boom. Durante gli anni 1960-1964 era attestato intorno a un rassicurante 2.64 o 2.70 figli per donna. Nel 1980 era già precipitato a 1.68, nel 1990 a 1.36, oggi è del 1.24, record mondiale. Per ottenere il pareggio demografico bisognerebbe avere un tasso del 2 e sgoccioli (sgoccioli perché, per quanto ci sembri un’inverecondia, c’è anche qualcuno che muore).
In Afghanistan il tasso di natalità è del 4.75, in Nigeria del 5.31. Si obietterà che quelli fanno figli ma poi i figli muoiono. Non è così. Il tasso di mortalità in Afghanistan, anche a causa della guerra ventennale che gli occidentali gli hanno scaricato addosso, è del 13.2, in Nigeria del 9.6, in Italia del 10.7. Afghanistan e Nigeria sono compresi tra i dieci paesi più poveri del mondo. Non è quindi vero che sia la povertà ad impedire di fare figli. Casomai è vero il contrario, è la ricchezza visto che tutti i paesi occidentali hanno un tasso di natalità inferiore a 2. Negli Stati Uniti, il paese economicamente più ricco del mondo, almeno per il momento, è del 1.64.
In occidente le coppie riluttano a fare figli perché vogliono assicurar loro un futuro: educazione e lavoro innanzitutto ma anche, finché sono piccoli alcuni optional (lezioni di piano, lezioni di tennis, smartphone, playstation, etc.). Per la verità per l’educazione dovrebbe bastare la scuola se fosse gratuita e pubblica (come a Cuba, tanto per fare un esempio) ma così non è. E quindi sono comprensibili le preoccupazioni dei non-genitori. Mancano poi gli asili nido anche se non si capisce se mancano in modo strutturale o perché sono inutili visto che non facciamo più bambini.
Ma tutto questo non basta a spiegare il tracollo della natalità, da 2.70 degli anni sessanta al 1.24 di oggi. C’è il problema, fra i giovani, del rapporto fra i sessi sempre più difficile. Il maschio ha sempre avuto una dannata, anche se inconfessata, paura della donna intuendone la superiorità antropologica. Lo scrittore D.H Lawrence finissimo conoscitore e studioso dei rapporto tra i sessi (L’amante di Lady Chatterley per tutti) scrive ne La verga di Aronne: “Quasi tutti gli uomini, nel momento stesso in cui impongono i loro egoistici diritti di maschi padroni, tacitamente accettano il fatto della superiorità della donna come apportatrice di vita. Tacitamente credono nel culto di ciò che è femminile. E per quanto possano reagire contro questa credenza, detestando le loro donne…in ribellione contro questo grande dogma ignominioso della sacra superiorità della donna, pure non fanno ancor sempre che profanare il dio della loro vera fede”.
Ancor più oggi gli uomini sono intimoriti dalla sempre più accentuata aggressività della donna. Già in inferiorità per essere dalla parte della domanda (per motivi antropologici e culturali che sarebbe troppo lungo spiegare qui) gli uomini si trovano davanti una donna che invece di mascherarsi dietro il pudore, per finto che fosse, si offre (il che, sia detto di passata, castra anche l’antico, eterno e affascinante gioco della seduzione). L’omosessualità c’è sempre stata, ma il suo esponenziale aumento è dovuto proprio a questo, è in gran parte una omosessualità di ritorno non di natura. Meglio stare fra maschi senza l’obbligo di soddisfarle a tutti i costi.
Ma per l’ammontante denatalità ci sono anche motivi più profondi. Io credo sia stato un errore della razionalità moderna scardinare la famiglia, non intendo qui la famiglia benedetta da Dio e insufflata dal suo vicario in terra, il prete, ma una convivenza stabile tra persone di sesso diverso senza gli impegni del matrimonio e quindi con una maggiore libertà di azione. Giorgia Meloni, nel suo incontro con il Papa, ha espresso un pensiero che condivido appieno: “vogliamo che non sia più scandaloso dire che siamo nati tutti da un uomo e una donna”.
Tutti i paesi che hanno un’alta natalità hanno accettato che la funzione antropologica primaria della donna è quella di fare figli. Con questo non voglio qui dire che le donne non abbiano diritto di lavorare e di esprimere i loro talenti ma se per un lavoro infelice da segretarietta in qualche azienda di scannatori devono rinunciare a fare figli il gioco non vale la candela. Per questo oltre ad aver denunciato fra i primi circa una trentina di anni fa il dramma della denatalità (non ho aspettato il demografo Massimo Livi Bacci, Corsera 13 maggio) avevo proposto un salario per le casalinghe in modo che le donne non fossero costrette, come avviene ora, a fare un doppio lavoro.
L’antropologia, cioè la Natura, non sbaglia un conto, i conti li stiamo sbagliando noi. In Medioriente il tasso di natalità è mediamente del 2.5, nell’Africa subsahariana è mediamente del 6, e sulle nostre coste vediamo arrivare molte donne incinte e moltissimi bambini. Quindi per una ragione fisica l’impotente etnia occidentale (impotentia coeundi, impotentia generandi, con il paradosso che poi ritenendo comunque, ad onta del clima generale, che un figlio faccia status symbol andiamo a rapinare i bambini al Congo o affittiamo uteri a destra e a manca) è destinata a scomparire, insieme a tutti i popoli, compreso quello cinese, che hanno adottato il nostro paranoico modello di sviluppo. Cosa che, visto l’andazzo che hanno preso le cose, credo non sia un male.
Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2023
“Abbronzate tutte chiazze /Pelli rosse, un po' paonazze / Son le ragazze che prendono il sol / Ma ce n'è una che prende la luna / Tintarella di luna / Tintarella color latte / Tutta notte sopra il tetto / Sopra il tetto come i gatti / E se c'è la luna piena / Tu diventi candida”. Questa canzone, tutt’ora famosa, è del 1960. Mina aveva vent’anni. Per chi abbia voglia di risentirla, soprattutto nel tono più che nelle parole, oltre che la forza della giovinezza si avverte una sorta di spensieratezza e di candore. Se prendiamo un’altra famosa canzone, di Battisti questa volta, Il tempo di morire, 1970, che insieme all’intera opera di Battisti ha fatto da sottofondo alla vita di molte generazioni, il tono è completamente cambiato, quella spensieratezza e quel candore non ci sono più. Eppure sono passati solo dieci anni.
Nei primissimi anni sessanta eravamo ancora molto ingenui. Non dico che credevamo a Babbo Natale (i bambini si) però pensavamo che il Natale avesse qualcosa a che fare se non con la religione almeno con la spiritualità. Nel 1958 viene eletto al soglio pontificio Papa Roncalli, il “Papa buono”, originario di un paesino della Bergamasca, Sotto il Monte, che parlava agli uomini e alle donne più che fare sottili distinzioni teologiche come avrebbero fatto i suoi successori, Montini, Ratzinger, Bergoglio o addirittura sfacciatamente politica come Karol Wojtyla, un papa che è andato vicino a distruggere quel poco che restava della Chiesa cattolica. Era quella ancora un’Italia ampiamente contadina dove la campagna si inframmezzava alle grandi città.
Eravamo ingenui, credevamo agli Stati Uniti, al sogno americano (“Ti sogno California, un giorno io verrò”, Dik Dik, 1966) pensavamo che gli americani fossero venuti a liberarci da una dittatura certamente feroce e sanguinaria, soprattutto sul coté nazista, e non a mettere un cappello sull’Europa e sostituendola con un’altra dittatura, meno appariscente, ma forse più invasiva, quella “dittatura del consumo” di cui avrebbe parlato nei primi anni Settanta Pier Paolo Pasolini. Pensavamo sinceramente che John Fitzgerald Kennedy (1963) fosse stato ucciso da Oswald e Oswald da Ruby, un tenutario di case chiuse, per riscattare, disse lui, l’onore yankee e pensavamo che tutto ciò fosse lineare. Pensavamo che Sonny Liston “l’Orso” fosse stato battuto regolarmente da Cassius Clay e non per imposizione delle federazioni pugilistiche, WBA and company, che avevano interesse a creare un idolo con una faccia un po’ più presentabile (nel primo incontro Sonny andò al tappeto alla seconda ripresa, sghignazzando, e nel secondo, alla settima ripresa, si slogò una spalla, incidente mai avvenuto in tutta la storia del pugilato mondiale).
I campi politici erano divisi in modo netto, da un parte il cosiddetto “mondo libero” dall’altra il totalitarismo sovietico, ignorando che tutto era stato già deciso a Yalta da Roosevelt, Churchill e Stalin. Al comunismo sovietico i proletari ci credevano veramente ignorando che i loro leader, Togliatti in testa, sapevano benissimo che cosa fosse il “socialismo reale”. La lotta era dura, ma a parte qualche episodio (Scelba), a suo modo leale. Come fatto di rottura c’era il rock ma come canta Guccini “non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni” (l’Avvelenata), il sessantotto con la sua ributtante ipocrisia era di là da venire.
Era insomma, quella, un’Italia semplice, dai gusti semplici. Era un’Italia innocente, era un’Italia “candida”.
Eravamo quasi tutti poveri, una Cinquecento ci bastava, era quasi un lusso, ma eravamo solidali. Ci si aiutava a vicenda. Si sa che i ricchi sono tirchi, altrimenti non sarebbero ricchi, e la tirchieria patologica è quasi sempre, per non dir sempre, il segno di una avarizia di sé. E in quell’Italia nessuno si sarebbe permesso di violentare una ragazza nel centro di una città fra l’indifferenza generale. Eravamo ingenui sì, ma vitali.
Cosa c’è fra la canzone di Mina, che abbiamo preso come esempio, e ciò che è successo dopo? C’è il boom economico (1960-1964). Dopo l’industrializzazione che c’aveva permesso di ricostruire il Paese, questo sì, almeno all’inizio, grazie agli americani, era arrivata la finanziarizzazione. Seguo con interesse la rubrica Sky Economia dove intervengono i più noti ed autorevoli esperti, una vera banda di mascalzoni in genere con doppi cognomi. "Fra Federal Reserve, Bce, Fondo Monetario Internazionale, indici di borsa, derivati di derivati, hedges, knock-out, futures, bitcoin, scommesse su scommesse di scommesse non ci capisco nulla tranne che sono io, il risparmiatore, il fesso istituzionale, santo subito, del gran gioco del denaro che come tutti sanno è un’entità astratta, inesistente ma c’è chi su questa inesistenza fa fortune colossali.
La corruzione dilaga dappertutto, non solo in Italia. Non ti puoi mai fidare di chi ti sta davanti, chiunque egli sia, mentre la pubblicità ti bombarda proponendoti assicurazioni su assicurazioni e assicurazioni sulle assicurazioni.
Negli anni cinquanta l’onestà era un valore per tutti, per la borghesia imprenditoriale se non altro perché dava credito (oggi è oggetto di discredito, di commiserazione se non di aperta derisione e un impaccio da eliminare), lo era per il mondo contadino dove violare la stretta di mano significava essere emarginati dalla comunità, lo era per l’ambiente proletario che aveva una sua etica, diversa da quella borghese, ma pur sempre un’etica.
In Una vita scrivo: “nel 1960 entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il Cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza”.
Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2023
Sul Fatto del 4 maggio lo storico Gianni Oliva ci offre una interessante versione, la trentaduesima per sua stessa ammissione, sulla fine di Benito Mussolini a Dongo. L’articolo è centrato soprattutto sui regolamenti di conti dei partigiani fra chi doveva assumersi la responsabilità della fucilazione del Duce e di Claretta Petacci e su chi si sarebbe appropriato dell’oro, molto presunto, che la carovana dei fascisti in fuga si sarebbe portato dietro (il cosiddetto “oro di Dongo”). Miserie.
Fa specie in questa ricostruzione che non sia nemmeno citato l’autentico protagonista della cattura di Mussolini e dei gerarchi al suo seguito, vale a dire il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle, in arte “Pedro”. Nella ricostruzione c’è un palese errore perché si attribuisce a “Bill”, Urbano Lazzari, il ruolo di vicecommissario politico del piccolo gruppo di partigiani, sette in tutto, che catturarono Mussolini e gli altri. Il comandante di quel piccolo gruppo era “Pedro” e fu lui che prese la decisione, audacissima, di fermare la colonna di trecento tedeschi, comandati da Fritz Birzer, che erano in ritirata, una ritirata ordinata come furono sempre quelle dei tedeschi durante gli ultimi sgoccioli della seconda guerra mondiale e quindi armati di tutto punto. A questa colonna si erano aggregati Mussolini e gli altri gerarchi. Bill ebbe il compito di perlustrare l’autoblindo su cui si era nascosto il Duce mascherato da soldato tedesco. Bill individuò un uomo che di tedesco non aveva nulla. Insospettito si avvicinò. In un estremo tentativo di coprire il Duce i soldati che gli erano attorno dissero: “camerata ubriaco” ma quando sollevò l’elmetto del “camerata ubriaco” Bill che era di origine contadine esclamò: ”Madonna, el crapùn!”. Bill portò all’accampamento di Pedro Mussolini e gli altri gerarchi catturati che, insieme a Claretta Petacci, seguivano su una seconda macchina. Pedro trattò Mussolini e gli altri gerarchi catturati con la pietas che sempre si deve, o si dovrebbe, ai vinti. Da Milano arrivò un gruppo di partigiani che su ordine del CLN avevano l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri. La sera prima alla notizia della cattura di Mussolini si era tenuta una riunione del comando CLN milanese a cui parteciparono fra gli altri Italo Pietra, futuro direttore del Giorno e Paolo Murialdi che ho conosciuto bene perché da vecchio abitava nel mio stesso condominio. Nessuno, mi raccontò Murialdi, voleva prendersi la responsabilità di un’azione che somigliava più a quella del boia che ad un atto glorioso. Fu scelto quindi l’ultimo fico del bigonzo, il ragionier Audisio, in arte “colonello Valerio”.
Quando gli uomini di Valerio arrivarono sul posto ci fu un momento di sconcerto. In un primo tempo i partigiani di Pedro e Bill li presero per fascisti, perché non si erano mai visti partigiani con divise nuove di zecca, cioè gente che la montagna non l’aveva mai praticata. Valerio presentò le credenziali del CLN e si fece dare da Pedro i nomi dei gerarchi catturati, quelli colpevoli e quelli meno colpevoli. Audisio mise una crocetta sulle persone che intendeva fucilare. Quando arrivò alla Petacci mise la crocetta. “Ma come, vuoi fucilare anche la donna?” obiettò Pedro. “Sì”. “Allora io ritiro i miei uomini dalla piazza perché con questa faccenda non voglio avere nulla a che fare”.
Il resto lo raccontò lo stesso Audisio in tre articoli sull’Unità. Articoli indecenti perché Audisio si soffermava sadicamente sulle mutandine della Petacci che cercava frettolosamente di rivestirsi. “Tira via” (L’Unità resasi conto dell’indecenza non ripubblicò mai quegli articoli).
Pedro l’ho conosciuto molto bene perché era amico di mio padre Benso Fini (l’unica introduzione della sua vita l’ha fatta al libro Dongo: la fine di Mussolini in cui molti anni dopo i fatti, nel 1962, Pedro e Bill scrissero sulla loro vita da partigiani). In seguito ebbi con lui una frequentazione e fu molte volte ospite a casa mia insieme alla moglie, sorella del compositore Luciano Berio. Non amava farsi bello, riluttava a parlare dei suoi trascorsi partigiani, bisognava strapparglieli con le tenaglie.
Pier Luigi Bellini delle Stelle fu anche, come rappresentante dei pubblicisti, membro dell’Associazione Lombarda dei giornalisti alla fine degli anni Settanta, quando in quella Associazione dominavano i giornalisti comunisti del Corriere della Sera, i Fiengo e i Pantucci, sembrava che la Resistenza l’avessero fatta loro. Una volta mi spazientii e dissi: “Voi fate i fenomeni dell’antifascismo, ma qui c’è una persona che la Resistenza l’ha fatto per davvero” indicando Pier Luigi Bellini delle Stelle, che si schermì.
Pedro non strumentalizzò mai la sua partecipazione alla guerra partigiana, ingegnere fece un’onesta carriera all’Eni, il ragionier Audisio morì parlamentare della Repubblica fra le file del Pci.
Ebbene se devo riferirmi alla lotta partigiana io penso a quella di Pedro, non a quella di Valerio.
Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2023