Nell’Udienza generale del 30 settembre Papa Francesco ha affermato che è importante trovare una cura per il Covid, ma ancora più importante è trovare una cura, ben più difficile, per “i grandi virus umani, sociali ed economici”. E ha aggiunto che dire “torniamo alla normalità non va, perché questa normalità era malata di ingiustizie, disuguaglianze e degrado ambientale”. In altre occasioni il Sommo Pontefice si era scagliato contro la frenesia del profitto, cioè in pratica contro l’economia com’è intesa nel mondo attuale e il devastante ingresso della tecnologia, in particolare quella digitale, nelle nostre vite. Discorsi coraggiosi perché Economia e Tecnologia sono i grandi ‘idola’ del mondo contemporaneo. Dopo il disastroso pontificato di Papa Wojtyla (crollo delle vocazioni, crisi del sacerdozio e degli ordini monacali) che troppo si era occupato di politica e aveva usato a manetta gli strumenti di comunicazione della Modernità (TV, jet, viaggi spettacolari, creazione di “eventi”, gesti pubblicitari, “papamobile", “papaboys”) finendo per identificarsi con essa, Francesco sembra voler ritornare, sia pur con qualche concessione al moderno, a quella che è la ragione in ditta della Chiesa e per la verità di qualsiasi confessione religiosa: la cura dell’uomo e delle sue esigenze non solo spirituali ma esistenziali. L’uomo non si identifica né con l’Economia né con la Tecnologia, cioè col Progresso. Su questa strada era stato preceduto dal più esile e fragile Ratzinger che quando era ancora cardinale aveva affermato: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia ad essere una minaccia per il genere umano”. In realtà quello di Ratzinger, in modo esplicito, e quello di Papa Francesco, in modo più sfumato, è un attacco al modello di sviluppo occidentale. Se si continua su questa strada non ci potrà essere alcuna riduzione delle disuguaglianze sociali perché è proprio questo modello che le ha ingigantite. E’ un dato di fatto che nel mondo che noi chiamiamo “sviluppato” le disuguaglianze sociali sono aumentate esponenzialmente. I ricchi sono diventati sempre più ricchi, in un modo che non esito a definire offensivo, e anche un poco più numerosi, ma contestualmente i poveri sono diventati molto più numerosi con la graduale scomparsa del ceto medio. L’Italia ne è un buon esempio. Nel contempo è anche aumentata di gran lunga la distanza fra i Paesi sviluppati e quelli del cosiddetto Terzo Mondo. E’ inutile e ipocrita che l’Onu e le sue agenzie si affannino a dichiarare che la miseria nel Terzo Mondo è diminuita. Ne fanno testo, scontata la percentuale di chi fugge dalle guerre, le migrazioni, migrazioni non emigrazioni, di chi cerca di arrivare al mondo opulento (“E sì che l’Italia sembrava un sogno/steso per lungo ad asciugare/Sembrava una donna fin troppo bella/che stesse lì per farsi amare/Sembrava a tutti fin troppo bello/Che stesse lì a farsi toccare/E noi cambiavamo molto in fretta/il nostro sogno in illusione/Incoraggiati dalla bellezza/vista per televisione/disorientati dalla miseria/ e da un po’ di televisione”, Pane e coraggio, Ivano Fossati). Né si potrà porre alcun argine al “degrado ambientale” già ampiamente in atto (secondo un appello firmato da un migliaio di scienziati su Le Monde il 20 febbraio siamo già vicinissimi all’ora “X”, cioè alla ventitreesima ora sulle ventiquattro di cui è costituita la giornata della nostra specie). Se si continua sulla filiera ossessiva produzione-consumo-produzione, dove ormai noi non produciamo più per consumare ma siamo arrivati al paradosso che consumiamo per poter produrre, non c’è via d’uscita, se non produrre di meno e consumare di meno, questa è la dura sentenza. Non è un caso che Papa Francesco abbia preso il nome dal fraticello di Assisi che predicava l’amore per la natura e la ricchezza della povertà (che si porta dietro molti altri valori a cominciare dalla solidarietà). E’ il pauperismo, temutissimo da Berlusconi e da tutti i Berlusconi della Terra, a cui il Covid potrebbe ricondurci dandoci una lezione emblematica e, paradossalmente, meritoria.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2020
Parlare di donne è diventato sempre più pericoloso. Sono esseri angelicati per definizione e a dirne male si incorre nella damnatio collettiva (a meno che non si tratti di Raggi e Appendino, ma qui si passa dall’esistenziale al politico che è un’altra cosa). Non dichiararsi “femministi” è già quasi un reato se non ancora penale, certamente sociale (avvertimento per le donne: gli uomini “femministi” sono nella vita concreta e reale i peggiori maschilisti, così come molto spesso le leader del femminismo sono a letto, dove si gioca una parte notevole del rapporto uomo donna, le più masochiste). Il fatto è che il rapporto fra generi, non sessi per carità, è letto in una chiave teorica che poco ha a che fare con la vita reale di tutti noi. L’attuale ‘narrazione’, termine osceno ma oggi molto in uso, vuole che le donne siano migliori degli uomini, maschi sopraffattori, violenti, sempre in agguato, da tenere a debita distanza. Ma la sopravalutazione della donna, nel momento stesso in cui la esalta, comprime la funzione primaria che madre natura, che non fa né teoria né sociologia ma sta ai fatti, le assegna: quella di madre. La scrittrice britannica J. K. Rowling che ha osato affermare che “la donna esiste in natura” è stata aggredita da omosessuali, lesbiche, trans, travesta, queste ex minoranze che sono diventate arrogante maggioranza, e accusata di omofobia. Ma, almeno per il momento, i figli non nascono dal culo anche se a giudicare dal numero di stronzi che c’è in giro si potrebbe avere qualche dubbio. Il ridimensionamento della donna come madre ha delle pesanti ricadute e conseguenze. L’Italia è il Paese che, dopo il Giappone, ha il più basso tasso di fertilità per donna: 1,3 (anche se questo problema riguarda tutto il mondo occidentale, nei Paesi Mediorientali il tasso è mediamente 2,5, in quelli dell’Africa Subsahariana è del 5). La prima conseguenza è un invecchiamento progressivo della popolazione, e una società vecchia, oltre a rendere cupo e triste il contesto in cui viviamo, è un segno sicuro di decadenza. Continuando di questo passo l’Occidente è destinato a scomparire. Inoltre i vecchi che si vorrebbero salvare a tutti i costi dallo sfoltimento naturale che è il compito di una epidemia, fanno da tappo ai giovani e al loro futuro su cui si spende tanta retorica, falsa e ipocrita come tutte le retoriche.
Noi non viviamo più –è cosa arcinota- in un mondo reale ma virtuale, che non è solo quello dei social ma della Tv, dei programmi che un tempo avremmo definito “spazzatura”, tipo X Factor o Amici per dire solo di alcuni, che sfornano a raffica personaggi del tutto inconsistenti che un giorno appaiono e quello dopo scompaiono. La vita reale, concreta, è scomparsa dai nostri orizzonti. Noi giornalisti (quorum ego) ci dedichiamo alle opinioni, facciamo sottilissime e intelligentissime analisi sociologiche e psicologiche, ma raramente raccontiamo la vita. Il reportage di racconto, che era la cifra che distingueva l’Europeo degli anni Settanta, è quasi sparito. Possiamo ritrovarlo quando muore qualche vecchissima star, tipo Juliette Gréco, di cui si ripercorre l’intensa esistenza. Ma a Montparnos, a Montmartre, c’era la vita, col suo sangue e la sua merda, il virtuale non aveva ancora fatto la sua devastante irruzione.
Non scriverò quindi più di donne e nemmeno del politico e del giuridico che mi escono dalle orecchie e dagli occhi. Scriverò di sport. Meglio: di ciclismo. Due domeniche fa si è corso il Campionato mondiale di ciclismo su strada che, nell’arco dell’anno, era uno di quegli appuntamenti fissi e immancabili come la finale di Coppa dei Campioni, quella di Wimbledon, il Tour e il Grand Prix d’Amerique (ippica, scomparsa in Italia ma ancora presente in Francia). Il ciclismo è stato uno sport popolarissimo da noi, anche i più giovani, sia pur di rimbalzo, hanno sentito parlare dell’epopea di Coppi e Bartali, del famoso passaggio della borraccia fra i due rivali. Si racconta che il giorno dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, in un clima tesissimo (era in pieno atto lo scontro fra il cosiddetto “mondo libero” e l’Unione Sovietica) una vittoria di Bartali in una tappa del Tour scongiurò la guerra civile. Storia? Leggenda? A noi piace ricordarla così, la fantasia è sempre più eccitante della realtà. Scrive Karl Kraus: “La scopata è un surrogato della masturbazione”.
Dunque domenica si correva il Campionato del mondo di ciclismo su strada, in Italia, sul circuito di Imola. La Rai non l’ha trasmessa, Sky che ha il semi monopolio di quasi tutti gli eventi sportivi non l’ha nominata né prima né dopo la corsa (per inciso: vittoria esaltante, per distacco, del francese Julian Alaphilippe) preferendogli nei suoi lunghi report sportivi addirittura il biliardo, peraltro anch’esso scomparso dalla nostra vita quotidiana. La Gazzetta dello Sport ha relegato il Mondiale a pagina 42. Eppure la bicicletta, questo strumento meraviglioso fondato sul principio della leva, senza alcun supporto meccanico e quindi sulla sola forza delle gambe e sulla capacità di soffrire, è stata in passato un autentico mezzo di trasporto collettivo. Le bici avevano la targa, come oggi le automobili. Servivano in genere agli operai per raggiungere la fabbrica e a volte si trattava di fare trenta o quaranta chilometri spesso con salite difficili. Oggi la bicicletta come mezzo di trasporto è ritornata in auge, cosa buonissima, ma solo in città. Nessuno di questi ciclisti della domenica potrebbe affrontare il Ghisallo come pretende invece il ciclismo agonistico. E io interpreto la semi scomparsa del ciclismo su strada, con la sua fatica estrema, il suo sudore, il suo coraggio, a favore di un calcio sempre più azzimato e diventato da scontro fisico, metafora della guerra, un gioco da educande narcisistiche, come uno dei tanti, sia pur minori, segni per dirla con Oswald Spengler (“la scimmia astuta di Nietzsche” secondo Thomas Mann), del “tramonto dell’Occidente”.
Massimo Fini
Lunedì, 5 ottobre 2020
Le femministe o postfemministe o veterofemministe, cioè tutto quel vasto mondo di donne che odiano le altre donne, non il maschio, perché concorrenti potenziali, sembrano aver perso ogni limite nel loro estremismo ideologico. Al grido sessantottino “è vietato vietare” stanno in realtà vietando tutto. Così Emily Bendell, imprenditrice dell’”intimo”, termine già di per sé orribile perché ipocrita, vuole portare in tribunale il mitico Garrick Club, una di quelle associazioni che escludono la presenza delle donne e fanno parte della tradizione degli inglesi (il Garrick esiste dal 1831, ma il più aristocratico di tutti il White’s affonda le sue radici alla fine del Seicento) che alle tradizioni sono particolarmente legati, non per nulla hanno una Regina amatissima che fa benissimo il suo mestiere e Wimbledon è rimasto l’unico torneo di tennis che si gioca ancora sull’erba.
Se io costituisco un club privato avrò pure il diritto di farci entrare o di non farci entrare chi mi pare e piace? Gli uomini, anche quando amano le donne, preferiscono la compagnia degli uomini. Quando usciamo più o meno di nascosto di casa le nostre mogli o compagne o fidanzate pensano che andiamo a tradirle con qualcuna, il che può anche essere per alcuni fanatici (stare con una donna è già complicato, figuriamoci con due), ma in genere cerchiamo di sfuggire al loro asfissiante controllo, andando giù al bar a giocare a scopone con gli amici, là dove i bar esistono ancora, oppure a bocce o a vedere una qualche partita di calcio, situazioni in cui tradizionalmente le donne non ci sono o se ci sono, com’è nel calcio pervertito di oggi, hanno una presenza marginale. L’ammissione della donna in un club per soli uomini vorrebbe dire l’irruzione dell’eterno gioco della seduzione cui a noi, già sollecitati da ogni parte, nella pubblicità, in tv, in strada, dalla figura femminile, piace almeno per un po’ sfuggire. Insomma: la fine della tranquillità. Inoltre poiché non fanno che lamentarsi delle nostre molestie sessuali, vere o molto più spesso presunte, minacciandoci ad ogni momento della galera o, quel che è peggio, della garrota mediatica, in un club di soli uomini sarebbero al sicuro per il lapalissiano motivo che non ci sono.
Le donne rischiano di rimanere vittime del puritanesimo di marca yankee che è stato introdotto in Europa dal #MeToo. Ma a chi mai può venir la voglia di corteggiarle se basta un’occhiata un po’ insistente o un popolano fischio di ammirazione (anche se di questi fischi con le due dita in bocca che fan parte pur essi della tradizione maschile –chi ha mai visto una donna fischiare in questo modo?- si sta ormai perdendo traccia, gli usava finché è stato allenatore Giovanni Trapattoni) per essere accusati di “molestia sessuale” con tutto ciò che ne consegue?
Le donne rischiano di essere vittime del loro stesso puritanesimo che è sessista nel momento stesso in cui predica il contrario. Agli inizi di settembre a una donna un po’ scollata è stato proibito di entrare, da parte di una funzionaria, al Museo d’Orsay in base al regolamento interno che recita: “Gli utenti devono conservare una tenuta decente e un comportamento conforme all’ordine pubblico e devono rispettare la tranquillità degli altri utenti”. E questo accade a Parigi, una capitale un tempo gioiosa, giocosa, trasgressiva, non solo all’epoca esistenzialista, di cui oggi si ricorda l’epopea per la morte di Juliette Gréco che ne fu l’icona musicale, ma ben prima, negli anni Trenta, quando il pittore Foujita entrava al Dôme o alla Coupole tenendo in spalla una gabbia con dentro una donna nuda. Non c’era nulla di perverso o pervertito, c’era solo una voglia di gioco che noi, intrappolati in lezioncine moralistiche, sembriamo aver perduto. Del resto qualche giorno prima dell’episodio del d’Orsay due bagnanti in topless erano state multate dalla Gendarmerie perché sulla spiaggia di Pèrpignan prendevano il sole a seno nudo. E in Italia, in modo altrettanto illegittimo e comunque moralistico, si multano i clienti delle prostitute ufficiali. Quelle non ufficiali fanno carriera in politica.
Massimo Fini
29 settembre 2020