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Non c’è solo il fascismo degli antifascisti, ma anche il razzismo degli antirazzisti. È ormai noto ciò che è successo  l’altroieri a Parigi durante la partita fra il borioso Paris Saint-Germain (conosciuto più che altro per aver acquistato dal Barcellona per 250 milioni di euro Neymar, uno pseudocampione che a Barca non serviva e poco di più ha fatto al Paris)e la squadra turca Basaksehir. Lo riassumiamo qui, in sintesi, per chi eventualmente non lo conoscesse. Si era attorno al quarto d’ora del primo tempo, un calciatore francese Kimpembe commette un fallo, dalla panchina turca si protesta chiedendo un’ammonizione, si agita in particolare Achille Webo, il vice dell’allenatore. Il “quarto uomo”, rumeno come tutta la quaterna arbitrale, che ha fra gli altri compiti quello di tenere a bada le panchine surriscaldate, si rivolge all’arbitro, il suo compatriota Hategan, per segnalargli il comportamento scorretto della panchina turca. L’arbitro chiede in rumeno chi sia il principale responsabile.  “È quel negru”, risponde il quarto uomo. Apriti cielo. Un panchinaro turco grida “Why say negro!”, “Why say negro!”, “Why say negro!”, il poveraccio cerca di spiegare che “negru” in rumeno non ha alcun connotato spregiativo. Inoltre la panchina del Basaksehir è occupata da una maggioranza di giocatori bianchi e quindi l’espressione del quarto uomo va valutata come se fra un gruppo di tricofanti avesse indicato l’unico calvo. Niente da fare. Ne nasce un parapiglia, i calciatori turchi seguiti da quelli del Paris lasciano lo stadio per protesta. Il caso diventa politico e internazionale, interviene anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che condanna “l’episodio di razzismo”. Fa a dir poco sorridere, o per meglio dire pena, che questi candidi gigli dei giocatori turchi, che in patria accettano che il loro premier sbatta in galera decine di migliaia di oppositori (senza badare al loro colore, in questo il noto tagliagole è equanime) si scandalizzino per un insulto che non c’è mai stato.

Le due squadre si sono ritirate dal terreno di gioco senza il consenso dell’arbitro. Un fatto inaudito nella storia del calcio mondiale a livello professionistico. Uno scherzetto del genere costò al grande Milan del pur potentissimo Berlusconi un anno di squalifica da tutte le competizioni Uefa. Altro che rifare la partita.

Il rapporto calcio/razzismo è di lunga data. Il buon Bruno Pizzul, l’ultimo nostro grande telecronista che sapeva dare pathos alle partite senza scomporsi a ogni gol o parata, fu massacrato perché durante una partita a proposito di un’ala di colore disse: “gioca bene quel negretto”. In realtà era un’espressione affettuosa in cui non c’era nulla di spregiativo.

Va bene, adesso tutti abbiamo imparato che si dice “persona di colore”. Però di fatto, nel libero Occidente, ormai non si può più dire nulla. Viene in mente uno sketch di Sordi dove l’Albertone nazionale sbeffeggiando il Duce gli fa dire: “Tutto si può dire e nulla si può fare”. Va capovolto: tutto si può fare, anche violare l’intero Codice penale, ma nulla si può più dire.

Per tornare al calcio questo gioco ha assunto dimensioni così enfiate, economiche e tecnologiche, che qualsiasi cosa anche la più innocente può essere strumentalizzata ideologicamente (se un giocatore dopo un tremendo pestone dà in una sacrosanta bestemmia, la tecno ne riprende il labiale). Qualche giorno fa una calciatrice spagnola si rifiutò di aderire al minuto di silenzio in onore di Maradona. In linea teorica un gesto giusto, coraggioso, perché Maradona, fuori dal campo, non era da portare ad esempio. Ma, secondo me, l’ideologia dovrebbe restare fuori dai terreni di gioco. Sul campo si gioca e basta, altrimenti si perde il senso stesso del gioco. Il calcio a differenza del rugby, della pallavolo, dell’hockey, s’è gonfiato come la rana di Esopo e, come l’intera nostra società, farà la stessa fine.

Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2020

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L’ultimo rapporto Censis ci dice, in sostanza, che nel periodo Covid i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi. In realtà il Covid non fa che evidenziare un fenomeno, quello del progressivo aumento delle disuguaglianze fra ceti ricchi e ceti poveri, che ha inizio praticamente col capitalismo (al punto in cui siamo arrivati siamo costretti a riutilizzare il linguaggio di Marx). In un documento della FAO che risale a metà degli anni Settanta si dice: “L’analisi storica dello sviluppo dimostra che l’accumulazione del capitale privato o statale, il passaggio dall’economia contadina all’economia industriale e urbana, ha avuto in un primo tempo come conseguenza un aumento delle disuguaglianze”. Del resto Alexis de Tocqueville che visse il passaggio dal mondo contadino a quello industriale nel saggio Il Pauperismo (1835), dopo un viaggio in Europa constata, con un certa meraviglia, che nei Paesi che hanno già imboccato la via dello sviluppo industriale, per esempio l’Inghilterra, ci sono più poveri che nei Paesi che quella strada non l’hanno ancora iniziata. Ma c’è molto da discutere sul fatto che solo “in un primo tempo”, come scriveva la FAO, il capitalismo industriale abbia prodotto un aumento delle disuguaglianze. Se nei Paesi europei si è potuto affermare per più di un secolo e mezzo un forte ceto medio, che faceva da cuscinetto fra i più ricchi e i più poveri, è perché erano da poco risuonate le sacre parole della Rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité che proprio la Francia, l’Inghilterra, il Belgio davano inizio al colonialismo sistematico. Cioè rapinavano le risorse dei Paesi terzomondisti. Questa pacchia ebbe fine col declinare del colonialismo dopo la seconda metà del Novecento. È in questo periodo che riemergono nei Paesi europei fortissime disuguaglianze di classe. Prendiamo l’Italia, che è poi il Paese che qui ci interessa. Ne La Ragione aveva Torto? (1985), che fotografa la situazione dell’Italia degli anni Ottanta, scrivevo: “Il decile più ricco, cioè il 10% che sta alla sommità della piramide sociale, ha il 29,9% del reddito complessivo rispetto al 2,4% del decile più povero, i ricchi cioè hanno un reddito che è 12,5 volte quello dei più poveri”. Ma il dato più sconcertante lo si ha se si mettono a raffronto le ricchezze invece dei redditi. Nell’Italia degli anni Ottanta il 6,7% delle famiglie deteneva il 42% della ricchezza totale e il 15,8% si spartiva il 66% della ricchezza. Per contro il 47,8%, cioè quasi la metà della popolazione, aveva lo 0,8%. Da allora la situazione in Italia, ma il problema è mondiale, non ha fatto che peggiorare. Secondo un rapporto della Banca d’Italia del 2018 “Nel decennio tra il 2006 e il 2016, i due decili più bassi della ricchezza netta sono passati, rispettivamente, da 2.300 a 1.100 euro e da 12.000 a 6.200 euro”.

Il problema, dicevamo, è mondiale. Forbes pubblica ogni anno un elenco degli uomini più ricchi del mondo che, rappresentando nei rispettivi Paesi l’1% della popolazione, detengono la metà ed oltre della ricchezza nazionale. Per esempio negli Stati Uniti l’1% dei più ricchi detiene circa il 38% della ricchezza USA. Lo stesso fenomeno si riscontra peraltro nei Paesi cosiddetti terzomondisti. La Nigeria che è il Paese più ricco di quella che una volta chiamavamo Africa Nera ha il più alto numero di poveri. Ma per tornare in Italia assistiamo, proprio in base ai dati che abbiamo fornito, a una progressiva scomparsa del ceto medio: alcuni entrano a far parte dell’empireo dei ricchi, ma molti di più scendono nella caienna della semipovertà o della povertà tout court i cui livelli si sono ulteriormente abbassati (quelli che nell’Italia di oggi sono sotto i livelli ufficiali di povertà, negli anni Ottanta sarebbero stati considerati dei benestanti o quasi). Le Democrazie occidentali dovrebbero essere molto più attente a questo fenomeno perché il ceto medio è storicamente il collante fra i ceti ricchi e i ceti poveri, dando a questi ultimi la speranza di accedere, grazie alla mobilità sociale, a livelli superiori. Fra le cause che portarono al Fascismo ci fu anche il forte indebolimento nel dopoguerra del ceto medio (i ricchi, speculando, erano diventati ancora più ricchi e i poveri  ancora più poveri). Ecco perché la proposta di Beppe Grillo di una “patrimoniale” non ha solo un senso equitativo ma anche l’obiettivo, molto poco rivoluzionario, di evitare disordini sociali che in Italia, ma prima ancora in Francia, hanno fatto capolino col Covid. In Spagna il governo socialista di Pedro Sánchez e di Podemos una “patrimoniale”, della cui complessità non è il caso di rendere conto qui, l’ha varata. Perché in Italia al solo sentire il termine “patrimoniale” si fa il ponte isterico come le prefiche d’antan?

Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2020

 

 

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“La reazione dei mercati è stata positiva”, “incertezza sui mercati”, “si attendono le reazioni dei mercati”. Quante volte abbiamo sentito o letto tali frasi o altre similari? Ma cosa sono i “mercati”? Chi sono i “mercati”? Che esistano ognun lo dice, dove siano nessun lo sa. In realtà i mercati, come tutte le cose dell’odierno mondo, stanno nell’etere, sono astratti come ciò di cui si occupano: il denaro. Chi lavora col denaro? Sono in genere entità altrettanto astratte, Banche, Fondi di investimento, Compagnie di Assicurazioni o in qualche caso persone fisiche, comunque (entità giuridiche o fisiche che siano) tutta gente che conosce molto bene i complessi meccanismi del denaro e della finanza e ci specula sopra. Questo per una parte, l’altra, il giustamente disprezzato “parco buoi”, è formata da piccoli o medi risparmiatori che entrano in questo grande gioco sperando nel colpo di fortuna e ne escono regolarmente pelati. Tra l’altro il risparmiatore, anche se non si impegna nel gioco della finanza, è il fesso istituzionale del sistema. Perché il risparmio è credito e come dice Vittorio Mathieu enunciando una regola generale: “i debiti alla lunga non vengono pagati”. Perciò i ricchi, che se ne intendono, hanno più debiti che crediti.

C’è un’ovvia differenza fra l’industria e la finanza. L’industria produce cose, oggetti, vestiti e, in campo alimentare, il più essenziale di tutti i beni, il cibo. La finanza non produce nulla, partorisce semplicemente altra finanza, è denaro che partorisce altro denaro, cosa che scandalizzava Aristotele per il quale il denaro essendo inanimato non poteva essere fertile (Politica). La finanza è una semplice “partita di giro” a somma zero. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, Lavoisier. Si può star certi che se c’è un rialzo alla borsa di New York altri, in diverse aree del mondo, sta perdendo qualcosa, non necessariamente denaro ma per esempio posti di lavoro. Le Borse vanno in visibilio quando una grande azienda licenzia un migliaio di dipendenti.

La finanza, a differenza dell’industria che ha bisogno di operai, di tecnici, di impiegati, di portieri, non dà nemmeno lavoro. Basta un individuo particolarmente abile con computer veloce e costui schiaccia un pulsante e mette in ginocchio un intero Paese. Intendiamoci, questi trucchetti sul denaro ci sono praticamente da quando esiste il denaro, anche se nel corso dell’evoluzione, chiamiamola così, hanno preso dimensioni un tempo sconosciute. Nel Medioevo il grande mercante pagava le maestranze in moneta povera, sostanzialmente rame, che i poveracci usavano fra di loro (sarebbe stato inutile e assurdo tesaurizzarla) mentre il mercante realizzava sui mercati internazionali in oro e argento. È quanto succede anche oggi nei Paesi sottosviluppati, detti pudicamente “ in via di sviluppo”, dove i locali spendono moneta locale, che non val nulla, mentre i loro datori di lavoro realizzano in dollari, euro, sterline.

Il mercato è onnipresente. Esiste una vera e propria “dittatura dei mercati” di cui si preferisce non parlare o solo bisbigliare, anche se di recente due film, non a caso americani, The Wolf of Wall Street di Scorsese e Panama Papers di Soderbegh hanno affrontato in modo serio la questione. Questa dittatura però è sfuggente perché anonima. Sono finiti i bei tempi in cui il dittatore era un soggetto in carne ed ossa e quindi potevi sempre sperare di sparargli col tuo fucilino a tappo e farlo fuori. Sparare contro “i mercati” è come cercare di colpire un fantasma.

Il mercato è quindi invincibile? Teoricamente no. Al mercato si oppone l’economia di Stato quale è esistita, per fare l’esempio più noto, in Unione Sovietica. Ma l’economia di Stato è infinitamente meno efficiente di quella a libero mercato. Se l’URSS ha perso al “guerra fredda” con l’Occidente non è perché aveva meno atomiche, meno bombardieri, meno carri armati, insomma meno armi, meno popoli arbitrariamente soggiogati, l’ha persa sul piano dell’economia. Un Paese ad economia di Stato circondato da Paesi “liberisti” è spacciato. Dovrebbe essere talmente forte da occupare una buona parte del globo, per questo Trotzki affermava “la Rivoluzione o è permanente o non è”. E infatti non è stata. Gli antichi Imperi fluviali, sostanzialmente collettivisti, comunisti, dov’era prevalente il concetto di “equivalenza” e di una ragionevole redistribuzione della ricchezza fra i sudditi, hanno potuto resistere tremila anni perché così immensi da non temere una concorrenza esterna.

Allora siamo costretti a morire “democratici” (la democrazia è l’involucro legittimante del modello di sviluppo di libero mercato, la colorata carta che ricopre la caramella, cioè la polpa avvelenata del sistema) e “liberisti”? In teoria esiste una terza via, la famosa “terza via”, fra capitalismo e comunismo e si chiama socialismo. Il socialismo non rinnega l’economia di mercato ma gli taglia parecchio le unghie con un forte intervento, in senso equitativo, dello Stato, inoltre coniuga il sistema con le libertà civili che è quanto è estraneo al comunismo ovunque si sia affermato. L’etica di Stato di hegeliana memoria nel socialismo non ha parte. Ma quel poco di socialismo che rimane nel mondo è attaccato da tutte le parti. L’esempio è Nicolás Maduro, definito regolarmente dai media occidentali come “dittatore”. Ora io vorrei sapere in quale dittatura un soggetto che ha tentato un colpo di Stato armato, con l’aiuto degli Americani, come “il giovane e bell’ingegnere” Juan Guaidò, sarebbe a piede libero. Nella democratica Spagna sette indipendentisti  catalani, che non hanno usato la violenza e che avevano qualche buona ragione in più del “bell’ingegnere”, sono in galera da quasi tre anni, il loro leader Carles Puigdemont in esilio. Non importa, Maduro è un “dittatore”, il generale Abdel Fattah al-Sisi che con un colpo di Stato ha decapitato l’intera dirigenza dei Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere in Egitto, e assassinato circa 2500 oppositori e altrettanti disperdendone nei “desaparecidos” è, come si espresse Matteo Renzi quando era premier, “un grande uomo di Stato” (io direi: di colpi di Stato).

Allora siamo davvero destinati a morire “liberisti”? No, sarà il sistema stesso a suicidarsi in grande stile. Un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere collasserà su se stesso. In modo molto rapido. Avete presente le vecchie cassette con le quali fino a qualche anno fa guardavamo i film? Durante il film andavano a ritmo regolare, ma volendo tornare indietro si riavvolgevano a velocità supersonica. E questo, prima o poi, più prima che poi, accadrà. E allora non saremo più “liberisti”, ma finalmente liberi.

Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2020