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All’inizio di questa estate che sta morendo, purtroppo non da sola, il sindaco di Milano Beppe Sala in un’intervista a InOltre ripropose la ‘vexata quaestio’ delle gabbie salariali affermando in sostanza che fra chi vive nel capoluogo lombardo e chi, poniamo, a Reggio Calabria il discriminato, a suo sfavore, è il primo e non il secondo perché a Milano il costo della vita è mediamente superiore del 30 per cento. Fra le risposte sdegnate spicca quella della deputata 5stelle calabrese Federica Dieni: “Le affermazioni di Sala sono a dir poco allucinanti. E’ inaccettabile che nel 2020 si parli ancora di gabbie salariali, dietro cui si nasconde il solito complesso di superiorità della parte più sviluppata del nostro Paese”.

Non c’è nulla di allucinante e inaccettabile o complesso da “cultura superiore” nella proposta di Sala, ma molto di logico ed economicamente ineccepibile. Ciò che ha detto il sindaco di Milano è un dato di fatto che non riguarda solo Reggio Calabria, presa da Sala a puro titolo di esempio, ma l’intero nostro Sud.

Nell’Italia repubblicana e democratica le gabbie salariali sono esistite fino al 1970. La possibilità di un loro ripristino fu ripresa da Umberto Bossi negli anni Novanta. Sul ‘senatur’ caddero i fulmini sia della cosiddetta sinistra che della cosiddetta destra. Fra le tante l’accusa principale era naturalmente quella di “razzismo”. Bossi non era affatto razzista, la mitica Padania da lui sognata era di “chi ci vive e ci lavora” senza esami del sangue sulla sua provenienza. Ma la proposta di Bossi, a differenza di quella di Sala che il sindaco di Milano ha legato, chissà perché, alla contingenza del Covid che non c’entra nulla, si inseriva in una visione molto più ampia dell’Italia e dell’Europa. Bossi, che io considero l’unico statista italiano degli ultimi trent’anni, pensava che in un’Europa politicamente unita sarebbero scomparsi gli Stati nazionali, che non avrebbero avuto più alcuna ragion d’essere, sostituiti come riferimenti periferici dalle “macroregioni”, cioè da aree coese dal punto di vista economico, sociale, culturale e anche climatico. E, per quel che riguarda l’Italia, è fuori discussione che Nord, Centro, Sud sono realtà molto diverse. Non migliori o peggiori, diverse. Diceva Aristotele che “ingiustizia non è solo trattare gli eguali in modo diseguale, ma anche trattare i disuguali in modo eguale”. Da chi vive al calor bianco del Sud non si può pretendere che si comporti come l’industrialotto brianzolo che , per sua cultura e non certo solo per ragioni climatiche, ‘rusca’ 15 ore al giorno. Di converso  chi vive e lavora al Sud non può pretendere lo stesso tenore di vita dell’immaginato industrialotto brianzolo . Tutti gli uomini e le donne, in Italia e fuori, hanno pari dignità, ma vivendo in situazioni economiche, sociali, culturali, climatiche diverse non possono essere trattati, seguendo Aristotele, allo stesso modo.

Devo anche dire che l’eterno piagnisteo meridionale, a più di 150 anni da quella sciagura che è stata l’Unità d’Italia, comincia a dare sui nervi. Io lo vidi bene durante gli scioperi dell’ “autunno caldo” del 1969, cui partecipai. Gli operai milanesi, in maggioranza socialisti, e gli immigrati da tempo dal Sud  conducevano la loro sacrosanta lotta con la necessaria durezza ma con dignità, con quelli di più recente immigrazione si assisteva a messinscena del tutto fuori luogo che tiravano al patetico, tipo clochard involontario che tende la mano invece di pretendere diritti.

In Italia non esiste nessuna Questione Meridionale, su cui son state riempite intere biblioteche, esiste una Questione Settentrionale, dimenticata o comunque obnubilata, di una parte del Paese che deve trascinarsi dietro a forza un’altra recalcitrante.

Ipse dixit.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2020

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Cadono i quarant’anni dalla “legge Basaglia”, così chiamata dal suo ideologo Franco Basaglia, che imponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici, in lingua italiana manicomi, sui quali per dirla con lo stesso Basaglia doveva “essere sparso il sale”. La “legge Basaglia” è una dimostrazione plastica del detto di Chesterton: “l’errore è una verità impazzita”. Cominciamo dalle verità. E’ assolutamente vero che in Italia c’erano manicomi, pardon ospedali psichiatrici, come quello di Barcellona di Sicilia, in cui i pazzi, pardon “i malati di mente”, erano tenuti in condizioni disumane.  E’ anche vero che molte famiglie per liberarsi di un soggetto turbolento o comunque scomodo, magari un genio (qualcuno ricorderà forse il bellissimo film Beautiful Mind), lo facevano rinchiudere in un manicomio. L’errore sta nel fatto che la legge fu applicata da Basaglia e soprattutto dai suoi discepoli, spesso dei teorici che un matto vero non lo avevano mai visto in faccia, con una coerenza omicida. Chiusi infatti gli ospedali psichiatrici dove dovevano andare i malati di mente? Per “risocializzarli” dovevano tornare sul mitico “territorio” o in famiglia. La famiglia è esattamente il posto dove un malato di mente non deve tornare, perché è quasi sempre in famiglia che si è ammalato. Il “territorio” è un’illusione ottica. Nella società medievale, preindustriale, dalle piccole dimensioni del villaggio era possibile che la comunità si prendesse cura del pazzo, anzi quella società era riuscita a metabolizzare questa figura dandogli un ruolo pensando che avesse, per suoi misteriosi canali, uno speciale rapporto con Dio. Ma in città come Milano o Trieste o Roma il “territorio” non esiste. Uscendo sul “territorio” il malato di mente andava a finire semplicemente sotto un tram o un autobus e così la pratica era felicemente chiusa. Per Basaglia e i suoi quella di mente non era diversa da tutte le altre malattie, andava anzi terminologicamente abolita (Edgar Quinet nel 1865, quando l’astrazione dell’Illuminismo aveva già fatto parecchi danni, scriveva ne La Révolution: “E’ caratteristica essenziale della nostra società bizantina quella di mettere le parole al posto delle cose, nell’illusione di mutarne la sostanza”). All’inizio di questa follia, di Basaglia e dei suoi, non dei pazzi propriamente detti, poiché la malattia mentale, ammesso che esista, non è diversa da tutte le altre si mettevano questi malati insieme a tutti gli altri negli Ospedali generali. Si dovette fare qualche passo indietro quando si scoprì, con qualche meraviglia, che questi malati strappavano il catetere o i tubi dell’ossigeno agli altri. Ma la follia, di Basaglia e dei suoi, non si fermò di fronte a queste bazzecole. Quando i malati erano in “acuzie” come si dice in gergo medico, cioè davano fuori di matto in italiano, venivano ricoverati nei “repartini” speciali degli Ospedali generali. Ma in questi “repartini” non c’era nulla, nemmeno un flipper. Perché? Perché il malato di mente non doveva essere “istituzionalizzato” e per lo stesso motivo dimesso entro quindici giorni. Così cominciava il suo penoso elastico fra “repartini”, territorio, famiglia, finché non commetteva qualche sciocchezza e veniva sbattuto nei manicomi giudiziari, tipo Castiglion delle Stiviere, che oggi hanno un altro nome ma, seguendo Quinet, nella sostanza sono più o meno la stessa cosa. All’Antonini di Limbiate, Mombello per i milanesi, quel santo laico di Alberto Madeddu, un Mario Tobino  (Le donne di Magliano) delle nostre parti, aveva attrezzato una struttura dove c’erano la palestra, l’atelier di pittura, la sala cinematografica, la musicoterapia, il campo di calcio dove i malati facevano ergoterapia giocando con infermieri e medici deviando così la propria aggressività. Più o meno allo stesso modo, sempre a Milano, era organizzato il Paolo Pini, dove sentii un infermiere, molto lumbard, concreto e solido, dire a un medico basagliano tutto ideologico: “sì dottore, ma ci vorrebbe anche un po’ di umanità”. Tutto questo fu spazzato via in nome della teoria basagliana dello “spargere il sale”. L’unico supporto ai malati di mente, almeno quando feci per il Giorno un reportage di quattro puntate, nel 1984, a sei anni dal varo della legge Basaglia, dovevano essere i CPS, i centri psicosociali. Cioè per non ledere la dignità del malato di mente doveva essere costui a rivolgersi autonomamente a questi centri. Ora questo lo può fare un depresso o un nevrotico non uno psicopatico che crede di essere Gesù Cristo e che malati siano tutti gli altri (forse a ragione, non si può mai dire, ma certamente in questo modo il malato viene lasciato a se stesso).

Ma questa non è che una succinta epitome delle follie della follia di Basaglia e dei suoi. A quarant’anni di distanza non possiamo che contarne le vittime, in modo approssimativo perché le statistiche tacciono opportunamente e prevale tuttora il bla bla ideologico in cui cade anche un grande giornalista come Gian Antonio Stella.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2020

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Gentile redazione, in un bellissimo articolo del 20 agosto Massimo Fini tratteggia il presidente Cossiga definendolo " losco" e mette in luce una serie di aneddoti molto interessanti ma poco noti ai non addetti ai lavori. Ne esce fuori un quadro drammatico e inquietante che comunque rispecchia l'idea che mi ero fatto del cosiddetto picconatore. L'articolo termina però con dati riguardanti l'altro presidente Sandro Pertini il più amato dagli italiani che vanno in contrasto con il sentire comune. Potrebbe essere così cortese il giornalista che stimo molto a scrivere un altro articolo sul presidente Pertini tanto per chiarirci le idee?

A.Dessy

 

Caro Dessy, nel mio libro Il Conformista ci sono tre articoli dedicati al "Presidente più amato dagli italiani", attinga lì se vuole. Le racconto però un episodio che mi riguarda di persona. Nel giugno del 1985 quando Sandro Pertini, quasi novantenne, voleva ricandidarsi per la Presidenza della Repubblica, scrissi per la Domenica del Corriere un articolo intitolato "Il presidente ch'io vorrei" che era un identikit in controluce di un Presidente totalmente all'opposto di Pertini. Pertini, infuriato, telefonò al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi. Pierluigi, come si fa in questi frangenti, cercò di traccheggiare dicendo che quella era solo la mia opinione personale ma che il giornale gli rinnovava tutta la sua stima. "Non faccia il furbo con me, disse Pertini, perché io sono amico del suo padrone" intendendo Gianni Agnelli. Il giorno dopo si presentò da Magnaschi un funzionario della casa editrice nella persona di Lamberto Sechi, il mitico direttore di Panorama, che gli disse che se non ci occupavamo più di Pertini era meglio. Un mese dopo Magnaschi, che durante la sua direzione aveva salvato l'agonizzante Domenica del Corriere, fu licenziato e, naturalmente, io persi quella collaborazione. Questo era "il Presidente democratico". C'è un'aggiunta quasi altrettanto divertente. Invitato al Costanzo Show stavo per raccontare quell'aneddoto ma dopo poche parole Maurizio, che non è cattivo ma è certamente l'uomo più vile d'Italia, mi tappo la bocca. Così van le cose nel Granducato di Curlandia.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2020