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In questo periodo in cui, superata, si spera, l’emergenza Covid, si attendono con ansia una ripresa e una ripartenza che non si sa se arriveranno, viene spontaneo ai giornali fare riferimento ai lunghi anni del dopoguerra, al Piano Marshall, insomma alla ricostruzione. In genere l’obbiettivo è focalizzato sui grandi imprenditori di allora. Lo ha fatto Aldo Cazzullo sul Corriere (22.5) ricordando i nomi mitici di Vittorio Valletta, di Gaetano Marzotto, di Angelo Costa (“c’è un dio che invecchia in cima a un grattacielo” scriverà molti anni dopo Gianpaolo Pansa quando la Costa Armatori si stava trasformando, in modo lungimirante, in Costa Crociere).

Io voglio invece ricordare qual era in quegli anni lo stato d’animo di noi cittadini che, a meno che non fossimo di Torino, di Genova, di Vicenza, dei Valletta, dei Costa, dei Marzotto avevamo sentito parlare solo vagamente. A parte una sottilissima striscia di borghesia che era presente già durante il Fascismo o che si era arricchita proprio grazie alla guerra, ma che aveva il buon gusto e il buon senso di non ostentare, eravamo tutti poveri, molto più poveri di quanto lo si sia oggi anche nelle condizioni più al limite. Ma eravamo sereni, solidali, euforici, spavaldi. Il solo fatto di essere usciti indenni dai devastanti bombardamenti angloamericani che avevano avuto come epicentro Milano, e io qui di Milano soprattutto parlo, e dai rastrellamenti nazisti, bastava a renderci felici. E’ questo uno degli effetti positivi di tutti gli eventi fondanti della vita, come può essere appunto la guerra o, in misura ovviamente molto minore, l’epidemia che stiamo vivendo. Eravamo solidali. La solidarietà di cui Mattarella si riempie sempre la bocca ma che in questi due mesi ho visto pochissimo non è qualcosa che si cala dall’alto, per diktat, dipende dal contesto. Quando si è poveri essere solidali diventa naturale, un sentimento che è sincero ma anche in qualche misura interessato. Scrive Esiodo ne Le opere e i giorni: “Aiuta il vicino, perché poi nel momento del bisogno il vicino aiuterà te” (ed Esiodo, che scrive a cavallo fra l’VIII e VII secolo a.C., si dimostra anche un po’ disgustato da questo elemento d’interesse, perché la società che lo aveva immediatamente preceduto era quella del clan dove questo problema non esisteva: l’individuo progredisce o perisce col clan).

Oltre che a quello della povertà c’era un elemento strutturale a garantire la solidarietà. Milano, pur essendo strabombardata, era una grande capitale ma rimaneva una città di quartieri. E nel quartiere ci si conosceva tutti. Se una famiglia era un po’ più in difficoltà delle altre lo si sapeva e la si aiutava come si poteva. Noi ragazzini uscivamo di casa alle due, mangiato un rapido panino, e tornavamo alle otto di sera. Non che i nostri genitori fossero incoscienti, forse anche un poco lo erano, nel clima dell’epoca, ma perché se uno di noi si fosse messo in una situazione difficile sarebbe intervenuto subito un adulto. Se si fosse presentato un pedofilo sarebbe stato riconosciuto a un chilometro di distanza. E poi c’era il “ghisa”, il mitico ghisa, il vigile urbano, un giovanotto milanese ben piantato, che conosceva tutti e che disarmato, come il bobby londinese, godeva di una autorità assoluta (“chiedilo al ghisa”, “dillo al ghisa”, “c’è lì il ghisa”). Come c’era il commissario di quartiere che sapeva tutto di tutti e quindi anche chi era da tener d’occhio e chi no. Del resto anche la “mala” di allora, quella cantata dalla Vanoni, almeno fino a Vallanzasca era fatta da professionisti che si guardavano bene dallo spargere sangue. Era una malavita con un’etica perché era inserita in una società che aveva un’etica.

Eravamo spavaldi. Ho visto cose che voi umani…tram, il vero simbolo di Milano, zeppi fino all’inverosimile con gente sui predellini e qualcuno attaccato anche al trolley. Oggi interverrebbe la psicopolizia. Chi era passato attraverso la guerra non aveva certo paura di farsi la “bua” cadendo da un tram o da un autobus. Tutti fumavano, nei bar, nei cine, nei teatri e l’Humphrey Bogart di Casablanca, con la sigaretta un po’ di sbieco perennemente fra le labbra, era un mito. Il terrorismo diagnostico era di là da venire.

Prendersi a botte fra noi ragazzini era di rigore, sia pur rispettando certe regole: se il ‘nemico’ cadeva a terra non si poteva toccarlo, niente colpi sotto la cintura e se si capiva che era successo qualcosa di più grave del solito ci si fermava tutti (in realtà nei terrain vagues dove giocavamo l’unico vero rischio era di mettere un piede su una bomba inesplosa). Non c’era ‘bullismo’, era un punto d’onore difendere il ragazzo più fragile fisicamente o psicologicamente e se qualcuno si fosse azzardato a prenderlo in giro avrebbe preso, lui sì, un fracco di botte. Insomma imparavamo la vita dalla strada.

Questa struttura che ho chiamato “di quartiere”, col suo tono sostanzialmente bonario, ha resistito a lungo a Milano. Nel quartiere non c’era un bar che non avesse un biliardo e, dietro, una saletta dove si giocava a poker, a ramino pokerato, a tresette ‘ciapa no’ senza che a nessun ‘pulotto’ venisse in mente di ficcare il naso. E a biliardo o a poker giocavano, insieme, giovani e anziani. Era un modo naturale di mantenere in contatto le generazioni. Adesso il retrobottega ‘peccaminoso’ è scomparso e, a parte qualche circolo per professionisti o quasi, nessun bar ha più un biliardo. Ho chiesto al gestore di un bar in cui mi rifugio, che non è ‘trendy’, non è zeppo di escort accalappiacani, non ha pretese, un bar normale insomma dove si possono fare quattro chiacchiere alla buona, perché nemmeno lui abbia un biliardo. “I biliardi occupano troppo spazio e rendono poco rispetto alle slot appiccicate alle pareti”. Business is business. Ma una cosa è stare con gli altri diversa è farsi una sega solipsistica con una macchina, abitudine che è diventata devastante con l’avvento degli smartphone.

Non ancora immersi nella grascia del benessere eravamo belli. Asciutti. Io ricordo sempre i funerali di Fausto Coppi che qualche volta ridanno in tv. Chi c’è a quei funerali? La gente del popolo, vestita in modo modesto ma dignitoso, composta, nessun sgangherato applauso all’uscita della bara, la folla onora in silenzio il suo campione.

Nel 1960 – era l’inizio del boom economico - entrai per la prima volta, col mio amico Giagi, in un Supermarket. Ci sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il Cavallo di Troia entrato in città e che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2020

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La Sardegna non ci vuole a noi lombardi e soprattutto a noi milanesi, gli untori. Bell’esempio di quella solidarietà di cui si riempie sempre la bocca il presidente Mattarella. Il sindaco di Milano Beppe Sala, parlando da milanese, più che da primo cittadino, di fronte a questa discriminazione ha replicato: “Quando poi deciderò dove andare per un weekend o per una vacanza, me ne ricorderò”. Condivido in pieno. Ma poi chi se la caga la Sardegna? Prendiamo una mappa di quest’isola. In quella che una volta era la splendida Gallura, nord-est dell’isola, a Porto Cervo e a Porto Rotondo, prima l’Aga Khan e poi Berlusconi hanno costruito a manetta violando ogni legge paesaggistica con la complicità ovviamente degli amministratori locali, sardi. Porto Cervo è una trappola, molto costosa, per borghesi scemi. Vi capitai invitato da un’amica. Era un compound o piuttosto un condominio con le case un po’ distanziate, situato nella più infelice delle posizioni, incassato, per cui a destra non vedevi la montagna e a sinistra nemmeno il mare perché la vista era ostruita da altri edifici. La spiaggia era fatta di materiali di risulta delle costruzioni tirate su in fretta e furia per cui ci dovevi andare con dei sandali di gomma trasparenti. Il mare faceva schifo. La grande consolazione, anzi l’unico vero obbiettivo per abitare in quel posto sconfortante, era che nei paraggi Silvio Berlusconi aveva una delle sue ville e ipoteticamente lo si sarebbe potuto vedere e forse, chissà, anche toccare. Peccato che il Berlusca non si facesse vedere mai e sulla spiaggia non ci vada, nemmeno con la scorta, perché non sa nuotare.

A Porto Rotondo i malcapitati ma colpevoli turisti erano conciati anche peggio. Ci andai all’inseguimento di una bella donna soprannominata “fascino discreto della borghesia”, il che dice tutto. Il grande obbiettivo era la “spiaggia di Ira” che sarà stata anche bella quando ci andava la Fürstenberg ma all’epoca, siamo all’incirca nei primi anni Novanta, era un deserto di sabbia che avrebbe spaventato anche Lawrence d’Arabia con alle spalle una rada sterpaglia. Le belle borghesi in tanga si abbronzavano al sole assassino di Sardegna e non di rado si scottavano a tal punto che dovevano essere portate al neurodeliri. Che a Porto Rotondo ci si annoiasse in modo mortale lo si vedeva, tra le altre cose, da un dettaglio: alle undici di mattina si creava una lunghissima coda, erano i turisti che, ansiosi, davanti all’edicola aspettavano i giornali del Continente. C’era un porto, è vero, ma non ho mai visto uno yacht puntare verso il largo. La grande attrazione qui erano le feste di Marta Marzotto dove l’ospite, suprema trasgressione, si aggirava per le sale tenendo in mano un fallo finto ma istoriato. C’era un esorbitante profumo di fiori che ricordava molto il camposanto, perché Porto Rotondo in realtà non esiste, il giornalaio, il tabaccaio, i proprietari delle lussuose boutique finita la stagione se ne tornano a Olbia. Tutto, a Porto Rotondo, era e forse è ancora (perché non ci ho mai più rimesso piede) provvisorio e c’era un inquietante ‘sensus finis’.

E veniamo al sud dell’isola. A sud-ovest c’è Villasimius con spiagge indubbiamente splendide, ma altrettanto care. Qui il problema sono proprio i turisti, radical chic, insopportabili con quella loro puzzetta sotto il naso. Molto meglio l’area del Sulcis Iglesiente dove, essendo storicamente terra di miniere di carbone, nessuno ha osato costruire e sconciare il paesaggio. Ma anche qui qualche problema c’è: il beghinismo sardo. Io c’ero andato pilotato da un mio giovane amico, Alberto Cossu, venendo da Cagliari dove ero stato per altre ragioni, ero quindi vestito da cittadino. Mi spogliai al riparo di una specie di asciugamano improvvisato da Alberto e mi cacciai a mare in mutande facendo un bagno bellissimo con sullo sfondo l’Isola, enclave ligure, di Carloforte. Quando uscii venimmo circondati da delle vecchie zie che tutte vestite di nero se ne stavano da quelle parti: “Ma vi rendete conto di quello che avete fatto?” ci dissero scandalizzate. Poiché ci incalzavano ulteriormente Cossu che è un bel ragazzo, aitante, le disperse con un bastone e quelle se ne andarono schiamazzando come galline impazzite.

La Sardegna è quasi completamente piatta a parte il gruppo del Gennargentu che in genere, esclusa Punta La Marmora 1.834, supera di poco i mille metri. Non c’è nulla da vedere perché i Nuraghi una volta che ne hai visto uno gli hai visti tutti.

A nord della Sardegna, separate da uno stretto braccio di mare, le Bocche di Bonifacio, c’è la Corsica. La Corsica ha una dorsale di monti alti quasi tremila metri (il Cinto è 2.700). Il che vuol dire fiumi, vuol dire foreste, vuol dire paesaggi quasi dolomitici. E’ un piccolo continente, c’è il maquis, c’è il deserto (des Agriates dove un tempo stazionava la Legione Straniera e che produce vini squisiti come quello che sto bevendo in questo momento alla faccia dei sardi) ci sono dei laghi. Siccome le montagne sono a ridosso della costa basta inerpicarsi un po’, tre o quattro chilometri al massimo, e tu vedi sotto, in un paesaggio stupendo, il mare con tutti i suoi golfi. Ha un suo microclima, la temperatura di giorno non supera quasi mai i 30 gradi, di sera fa 17 o 18. E’ molto ventosa, piacevolmente ventosa, e le rarissime volte che il Mistral cede e si crea quell’afa che noi milanesi conosciamo benissimo, ma anche in Sardegna in certe aree non si scherza, basta prendere la macchina e fare una decina di chilometri e si è a 1.700 metri, in salvo. Consiglio la Corsica del Nord da Ajaccio in su (la città natia di quel teppista di Napoleone non ha nulla a che vedere con la Corsica, è di stile francese e i corsi odiano i francesi, non vedono nemmeno il Tour) perché i prezzi sono modesti, i turisti normali. Con i corsi, che io chiamo degli “afghani minori”, bisogna saperci fare, se non gli vai a sangue è meglio che giri al largo, se invece li capisci ed entri nel loro mondo mentale sono molto ospitali e tutto si basa sulla parola. Quante volte alla fine di una lunga vacanza, in genere ci passo un mese, mi è capitato di accorgermi di non avere i soldi. “Pagherai quando sarai rientrato in Italia”. Sono molto orgogliosi di essere corsi e sulle loro magliette, che il prefetto di Ajaccio tenta sempre, inutilmente, di togliere dalla circolazione, c’è scritto: “Corsica, un’isola sempre conquistata, mai domata”. Le ragazze sono belle, la Casta non è un’eccezione, fan le studentesse a Corte e d’estate, per guadagnare qualche soldo, scendono al mare per fare le cameriere con una grazia che è un misto fra la “finesse” francese e l’anima selvaggia che alberga in ogni corso. Ma i motivi per preferire la Corsica del Nord, in particolare il Dito nel lato che dà verso la Spagna, è che il Sud dell’isola risente già della Sardegna, dei suoi prezzi e delle sue facce di culo.

L’estate prossima quindi, con il Covid alle spalle e la riapertura delle frontiere internazionali, ce la fileremo in Corsica. Ma chi se la caga la Sardegna?

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2020

 

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Sono stato l’ultima persona a vedere in vita Walter Tobagi, a parte la moglie Stella. Ci eravamo incrociati al Circolo della Stampa per un dibattito. Abitavamo vicini e poiché a Walter non piaceva guidare (di lui tutto si può dire tranne che fosse un uomo dinamico) l’accompagnai in macchina a casa. Saranno state le due o le tre di notte, ma da quotidianisti incalliti non ci sembrava mai troppo tardi. Cadeva una pioggerellina leggera. Stavamo a chiacchiera ma d’improvviso Walter cambiò tono e mi disse che da un mese aveva abbandonato le inchieste sul terrorismo: “Sai, non voglio morire per questi qui” intendendo il direttore e il vicedirettore del Corriere. In quel momento pensai che eravamo folli a stare lì seduti in macchina davanti a casa sua, bersagli fissi, immobili, facili. Oltretutto i nostri nomi, il suo, il mio, quello di Abruzzo erano stati trovati in un covo di Prima Linea. Ebbi l’impulso di guardare fuori. Ma non lo feci, per non spaventarlo e non spaventarmi. Tornammo a parlare di cose normali. In quegli anni convulsi eravamo riusciti a strappare un’ora per portare i nostri figli allo zoo e c’eravamo divertiti moltissimo, forse più noi dei bambini. Ci ripromettemmo quindi di ripetere appena possibile l’esperienza. Walter uscì dalla macchina. Non mi chiese di salire da lui come avevamo fatto altre volte per saccheggiare, affamati, il frigo. Lo vedo ancora armeggiare con le sue mani grassocce davanti al grande ed elegante portone di legno.

La mattina dopo, poco dopo le undici, mentre stavo dormendo perché ero in uno dei miei periodi di disoccupazione, mi svegliò una telefonata del collega Gianfranco Venè. Poiché la mia voce era normale, tranquilla, si rese conto che c’era qualcosa che non quadrava: “Ma come non sai cos’è successo?”. “No”. “Hanno ucciso Walter”. Fu uno choc perché, con l’intervallo del sonno, per me era come se lo avessi lasciato da pochi minuti. Mi vestii in fretta e mi diressi verso la casa di Tobagi. C’era il solito canaio di giornalisti, di fotografi, di curiosi. Notai due colleghi del Corriere, quelli che più di altri avevano creato un clima d’odio intorno a Tobagi, che piangevano senza ritegno e ostentavano gli occhi rossi. Io non piangevo. Mi districai da quella folla e salii in casa. Stella mi vide e si abbandonò piangente sulla mia spalla: “Tu…tu sei stato l’ultimo a vederlo”.

Quello che successe nei giorni successivi avrei preferito dimenticarlo. A cominciare dai funerali, in pompa magna, con Rolls-Royce, che erano esattamente il contrario dello stile di Tobagi, che era un uomo schivo e pudico. C’era anche la Fallaci che non aveva mai conosciuto Tobagi (in quel periodo stava a New York) al braccio di Bruno Tassan Din, l’Amministratore delegato della Rizzoli. Voleva rubare il posto da protagonista al morto. Ma non fu la sola. Incontrai casualmente due importanti colleghi che, parlando della tragedia, mi dissero: “Puff, ma l’obbiettivo non era Tobagi, il vero obbiettivo ero io”.

Non ho conosciuto Tobagi all’Avanti!, quando io vi arrivai lui se ne era già andato all’Avvenire. Ci fece incontrare il capocronista di quel giornale cattolico, Giorgio Giusti, il più grande bestemmiatore in cui mi sia capitato di imbattermi. Walter non era “il cronista buono” come volle poi l’ipocrita iconografia del Corriere, aveva anche lui i suoi bravi artigli (all’Avvenire aveva il soprannomignolo di “viperotto” in contrapposizione ad un altro eccellente collega, Corrado Incerti, “la mangusta”) era un buon cronista e anche qualcosa di più, aveva quella profondità di analisi che lo avrebbe portato ad essere, a soli 33 anni, un importante editorialista del Corriere. Fra noi si diceva che “studiava da direttore”. E ci sarebbe arrivato se due ragazzi male educati, nel senso stretto del termine, cioè educati male dai loro padri, Morandini e Barbone, il primo figlio del critico cinematografico de La Notte, il secondo di un funzionario della Rizzoli, non gli avessero troncato l’esistenza (“Quella fu una stagione -scrisse splendidamente Oreste Del Buono- in cui gli adulti non seppero fare gli adulti”).

Con Walter ci incontrammo quindi nei primissimi anni Settanta. La nostra amicizia si basava proprio sulla diversità dei nostri caratteri: riflessivo lui, impetuoso io. Benché fosse di tre anni più giovane aveva verso di me un atteggiamento protettivo, da fratello maggiore e saggio. A volte cercava di limitare le mie intemperanze, inoltre aveva intuito la mia natura più profonda e con affettuosa ironia mi chiamava “passato è bello”. Tobagi era molto più adulto della sua età.

Walter Tobagi è stato ucciso perché racchiudeva in sé due importanti motivi simbolici: notista già prestigioso del Corriere e Presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti. E per questa sua carica e quindi, alla fine, della sua morte ho qualche responsabilità. Lo avevo convinto a rompere l’alleanza socialcomunista della Lombarda creando una nuova corrente. I nostri motivi più che politici erano professionali: volevamo togliere il sindacato ai sindacalisti di professione, che in realtà erano dei politici mascherati, per restituirlo ai giornalisti che facevano i giornalisti, e sia Tobagi che io che Abruzzo lo eravamo. Si trattava di allearsi con i “fascisti” di Autonomia, in realtà dei normalissimi conservatori. In quegli anni di poco postsessantottini era una mossa rischiosa che ci avrebbe tirato addosso ogni sorta di accusa, a cominciare, naturalmente, da quella di essere dei “fascisti”. Tobagi, che era un uomo prudente, esitava. Esitava ancora la sera in cui decidemmo di sfiduciare il presidente della Lombarda, il socialista quisling Marino Fioramonti. Walter girava e rigirava fra le sue mani la mozione di sfiducia, ma non si decideva a presentarla. Gli strappai quasi di mano il foglietto e dissi: “Presidente, c’è una mozione di Tobagi e mia”. Si trattava ora di decidere chi avrebbe fatto il presidente della Lombarda. Walter voleva che fossi io, ma a parte che non ero assolutamente indicato per quel ruolo, non ne avevo nessuna voglia. Così toccò a lui. Negli ultimi tempi della sua breve vita Tobagi si estenuò quindi, spendendovi moltissime energie, in quel doppio ruolo.

A Tobagi morto i socialisti di Craxi si appropriarono del suo cadavere, imitando quello che avevano fatto sempre i comunisti. Tobagi era certamente socialista (anzi un catto-socialista, animale piuttosto raro) ma da giornalista indipendente qual era non aveva alcun rapporto organico col Psi. Craxi cavalcò l’occasione per montare una campagna contro i comunisti insinuando più o meno apertamente che i mandanti del suo omicidio erano due giornalisti del Corriere. Cosa del tutto inverosimile. In regime di legislazione premiale se Barbone e Morandini avessero avuto dei mandanti, per soprammercato giornalisti, avrebbero avuto tutto l’interesse a denunciarli invece di coprirli. Inoltre è vero che Fiengo and company avevano montato una campagna d’odio contro Tobagi, e in misura minore contro di me, ma erano persone di così basso livello –io li conoscevo bene- che mai si sarebbero implicate, nemmeno indirettamente, in un omicidio. Chiesi comunque a Ugo Intini, mio ex caporedattore all’Avanti!, incontrato al Plaza di Roma, se avessero delle prove. Ugo, onestamente, mi disse che non ne avevano. Il caso volle che a una commemorazione di Tobagi al Circolo della Stampa io incrociassi Bettino Craxi, che nel frattempo aveva avuto  modo di definirmi da New York “un giornalista ignobile che scrive cose ignobili” perché criticavo duramente la deriva presa dal craxismo, nella strettoia che portava fuori dal Circolo. “Sbagli a scrivere quello che scrivi” mi disse Bettino. “No, siete voi a sbagliare” replicai. La discussione continuò giù dalle scale e nel vasto androne del Circolo della Stampa. La schiera dei cortigiani stava a rispettosa distanza. Quando ci lasciammo passai davanti ai cortigiani e costoro, che da anni non mi salutavano, si prodigarono in attuzzi e moine nei miei confronti. Nella loro testa di servi avevano pensato che avessi riallacciato i rapporti col Capo.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2020

Ho scritto quest’articolo per rendere giustizia alla memoria di Walter Tobagi, immerso dai media, oggi come allora, in una scivolosa retorica che è esattamente il contrario dello stile di Walter, come giornalista e come uomo.

m.f.