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Quello che si respira nell’aria non è solo il Coronavirus, ma una paura collettiva, alimentata anche dall’immagine spettrale della città, deserta, metafisica come in un quadro di Savinio e di De Chirico o in un qualche romanzo di fantascienza. E c’è il modo sordido di questo morire, monitorizzati, intubati, oggetti, senza la possibilità che la salma del ‘caro estinto’ sia vegliata e portata a quella che pudicamente viene chiamata ‘l’ultima dimora’ da coloro che gli hanno voluto bene (quest’ultima cosa non mi riguarda, non credo che l’anima, se mai esiste, continui ad albergare nel corpo, se ne andrà altrove come narra Alberto Savinio in un bellissimo racconto raccolto nel libro Tutta la vita intitolato appunto “Anima”).

Ghiacciai che si sciolgono, foreste che scompaiono, le barriere coralline che perdono il loro colore per sbiadirsi progressivamente. Si respira un’atmosfera da fine del mondo, di un certo mondo, quello creato, con l’ottuso ottimismo di Candide, dall’uomo occidentale negli ultimi due secoli e che ha invaso ormai quasi l’intero pianeta. Ma non è la fine del mondo, di questo mondo, ne è solo una inevitabile anticipazione, perché le crescite esponenziali su cui si basa, e che gli uomini politici continuano stolidamente a cavalcare, esistono in matematica non in natura e alla fine l’attuale modello di sviluppo collasserà su se stesso. Si salverà la gente di campagna o chi, anticipando gli altri, vi si sarà ritirato, avrà imparato a lavorare di zappa, a mungere una mucca e si sarà provvidenzialmente provvisto di un paio di kalashnikov. Si salveranno le comunità autoctone, gli indigeni delle Isole Andamane che sfuggirono allo tsunami e cacciarono a colpi di freccia l’elicottero indiano che veniva ad accertare quel che ne era di loro, si salveranno gli indios dell’Amazzonia che nessun Bolsonaro potrà abbattere con le sue armi modernissime perché non ci sarà più nulla per alimentarle. Si salveranno insomma i “disconnessi”.

Ma potrebbe anche andare diversamente. Finalmente rinsaviti ci convinceremo a fare parecchi passi indietro abbandonando un mondo che, anche in situazione normale, rulla a un ritmo che ci fa basculare fra nevrosi e depressione, la nevrosi di chi cerca di starne al passo, la depressione di chi non ci riesce, si sente inadeguato e inesorabilmente tagliato fuori.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2020

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Le Autorità ci dicono: “Pazientate, è come essere in guerra”. No: è molto peggio. A Milano, pur martellata dalle “fortezze volanti” americane e dai bombardieri inglesi, si poteva uscire di casa non solo, prendendo il tram, per lavoro, ma per incontrare un conoscente, recarsi al cinema, riunirsi con gli amici o andare semplicemente a spasso. A fare jogging, termine che allora neppur conoscevamo, non ci pensavamo nemmeno, eravamo già sufficientemente asciutti, i più svantaggiati erano quelli che stavano in città che dovevano servirsi della “tessera annonaria”, in campagna per il cibo non c’erano problemi.

Ovviamente quando suonava l’allarme e si cominciavano a sentire i primi colpi della contraerea si scappava nei rifugi, pochi, o nelle cantine. Certo con gli americani che bombardavano come sempre “a chi cojo cojo” se una bomba centrava la tua casa eri spacciato. Gli inglesi erano più professionali,  mandavano, a bassa quota per sfuggire ai radar, un piccolo aereo da ricognizione per individuare nel modo più preciso possibile i bersagli da colpire. E a volte avevano gesti di un inusitato fair play. Non dimenticherò mai quel che accadde in un piccolo paese dove c’era una caserma. Passò l’aereo da ricognizione e lasciò cadere dei volantini che dicevano più o meno: fra poco bombardiamo. Tutti gli abitanti fuggirono nei boschi tranne le sentinelle della caserma, due giovani di vent’anni. Erano o non erano le sentinelle? Il loro compito era rimanere lì. Passò il bombardiere, centrò la caserma e i ragazzi morirono. La gente che noi chiamiamo ‘comune’ sa bene, al momento del dunque, quali sono i suoi doveri mentre la classe dirigente si squaglia e se la squaglia.

Poi si poteva “sfollare”. I mariti restavano in città a lavorare, le famiglie, donne e bambini, si rifugiavano in zone meno esposte, in genere le Prealpi. Chi poteva, cioè i meglio ammanicati e i ricchi, due categorie che in genere si sovrappongono, si rifugiava in Svizzera. C’erano poi delle circostanze inaspettatamente favorevoli. Una sera di molti anni fa portavo Guglielmo Zucconi, mio direttore al Giorno, a Modena, sua città natale dove doveva ricevere un Premio. Sull’autostrada c’era una nebbia fittissima e io sacramentavo. “Vedi –mi disse il vecchio Zuc- quando noi eravamo ragazzini la nebbia era la felicità”. “Perché?” chiesi. “Perché con la nebbia non bombardavano e noi potevamo uscire a giocare sicuri di non beccarci una bomba”. Insomma si sapeva da dove veniva il pericolo e come cercare di schivarlo.

Il Coronavirus è un nemico invisibile. E’ ovunque. Può stare nell’aria o nel fiato del vicino o su una banana che compri al supermercato. Non conosce confini e frontiere ed è inutile rifugiarsi in Svizzera o a Montecarlo (e per una volta, come in ‘A livella di Totò, ricchi e poveri sono sullo stesso piano).

Le Autorità prendono di continuo nuove misure, probabilmente giuste. Ma per il cittadino è come avere una corda al collo che si stringe progressivamente. L’acquisto e il consumo di ansiolitici è verticale. Qui va a finire che moriremo più per lo stress che per il Coronavirus. 

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2020

 

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Io apprezzo molto il lavoro fatto dal presidente Conte, dal suo governo, dai tecnici e dai medici cui si è rivolto per fronteggiare questa epidemia. Del resto il mio apprezzamento è solo un pulviscolo, visto che è stato espresso dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e che quasi tutti i Paesi europei ci stanno copiando. E credo che a Conte e ai suoi collaboratori, insieme s’intende ai medici in prima linea, un po’ di merito e di gratitudine andrebbero riconosciuti.

Ma adesso la situazione per noi cittadini si sta facendo pesante e se dovesse durare per mesi diventerebbe intollerabile. All’inizio abbiamo preso la nostra reclusione se non proprio come un divertimento, almeno come una variante. Si sta più in famiglia, per togliere i bambini dall’ipnosi della televisione e degli smartphone si raccontan loro fiabe, si lavora di fantasia, si ripescano nella nostra memoria le cose più interessanti che ci sono accadute. In fondo è quello che si faceva un tempo –un tempo che io ho avuto modo di vivere- quando la sera ci si raccoglieva tutti e si raccontavano storie, miti, leggende e appunto favole. E’ una sorta di ritorno al passato.

Ma adesso, come dicevo, la reclusione comincia a farsi difficilmente sopportabile. E affiorano pensieri torbidi. C’è un film, tremendo, I viaggiatori della sera interpretato da Ugo Tognazzi e Ornella Vanoni, regia di Tognazzi. A sessant’anni i cittadini di entrambi i sessi vengono prelevati e mandati in un’“Isola felice”. Ogni settimana c’è una tombola e chi vince viene messo su una nave che lo porterà in un’isola ancor più felice che in realtà è la morte. Una soluzione del genere, istituzionale, a cui qualcuno sta pensando, è inaccettabile, sarebbe né più né meno come quella dei nazisti che accoppiavano giovani sani e belli perché sfornassero figli ancora più sani e più belli. Ma la domanda “torbida” che viene spontanea è: e se avessimo lasciato al Coronavirus di fare il suo corso liberamente, eliminando i più deboli tenendo in vita i più robusti e i più adatti? La Natura è imparziale.

Non pensi il lettore che io scriva quel che scrivo a cuor leggero. Ho 76 anni e sarei quindi fra i possibili ‘eliminandi’. Però…però…ho avuto una vita intensa sia dal punto di vista sentimentale che professionale. Sono stato sposato, ho un figlio (ne avrei voluti di più ma la vita ha deciso diversamente), ho avuto rapporti sentimentali importanti, col sesso mi sono divertito quanto basta. Ho fatto un mestiere appassionante, quando era ancora appassionante, sono stato inviato in Italia e nel mondo e oggi, come opinionista, vengo pagato per scrivere cose che comunque direi, gratuitamente, al bar. Ho scritto libri alcuni dei quali, ne sono convinto, rimarranno nel tempo, almeno per un po’. Sono stato, improvvidamente, un attore, ho scritto testi di teatro non banali. Che più? Che mi devo aspettare dal futuro se non una decadenza più o meno lenta e comunque inesorabile? Ho perso amici importanti, Bocca, Oreste Del Buono, De Michelis, Montanelli (per la verità il termine ‘amico’ per Montanelli è un po’ troppo, comunque l’ho frequentato assiduamente). Alcuni di questi uomini avevano un quarto di secolo più di me ed è stato quindi normale, ma Cesare De Michelis era mio coetaneo e miei coetanei, o ancora di me più giovani, sono tanti amici che oggi “dormono, dormono sulla collina”. Tutti noi conosciamo o sappiamo di vecchi eccezionali, lucidi e in gamba fino alla fine. L’esempio più recente che viene in mente è quello di Gillo Dorfles morto, in piena lucidità, a 107 anni. Giuseppe Prezzolini, che andava verso i novanta, si lamenta nel suo Diario che la moglie, Jackie, che aveva trent’anni di meno, al suo terzo assalto gli ha detto di no. Prezzolini morì esattamente a cent’anni. Erano uomini d’un'altra tempra che io non credo, e nemmeno spero, di avere. Comunque, come dice una mia amica di Verona, “vedaremo”.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2020