Mentre in Medio Oriente grandi e medie potenze giocano a fare la guerra con grande giubilo dei loro governanti che hanno così il pretesto di armarsi o riarmarsi e con altrettale giubilo di quelle che, restate fuori dal conflitto, possono rimpinzare le prime di armi, arricchendosi, senza spendere una goccia di sangue (Stati Uniti, Francia, Germania, Cina, il cui export in questo campo si è diretto principalmente in Medio Oriente), in altre aree del mondo, molto diverse fra di loro, rinasce la contestazione giovanile: in Cile, in Ecuador, in Libano, in Iraq, in Francia. Tutte sono nate da ragioni economiche apparentemente di poco conto, in Francia dall’aumento delle tasse sul carburante, in Cile dall’aumento del biglietto della metro, in Ecuador dall’aumento della benzina, in Iraq dalla disoccupazione, in Libano dall’aumento delle tasse in rete, ma si sono poi allargate a una contestazione generale ai governi e alla politica.
Sul Giornale del 21.10 Gian Micalessin, inviato di lungo corso, individua due cause principali di queste rivolte: “La totale disconnessione con i grandi media e l’informazione tradizionale e la totale mancanza di speranza nella politica corrente esibita da chi scende in piazza”. La prima causa individuata da Micalessin mi pare la meno rilevante: ormai l’informazione, soprattutto per i giovani che sono i protagonisti di queste rivolte, passa, come una corrente carsica, al di sotto dei grandi media. La mancanza di speranza è più convincente. Chiunque abbia un minimo di attenzione, giovane o adulto che sia, può vedere che mentre “la ricchezza delle nazioni”, per dirla con Adam Smith, in linea di massima aumenta in tutto il mondo, contemporaneamente la gente si impoverisce e questo sia nei Paesi più solidi del mondo occidentale sia, e ancor più, in quelli nel cosiddetto Terzo Mondo (un esempio fra i tantissimi che si potrebbero fare: la Nigeria è il paese africano più ricco, ma ha il massimo numero di poveri). Questa contraddizione fra sviluppo e povertà era già stata notata da Alexis de Tocqueville nei primi decenni della Rivoluzione industriale. Scrive Tocqueville nel suo libro Il pauperismo, del 1835: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove, in realtà, si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”. Col progredire dello sviluppo questa divaricazione, economica ma anche sociale, invece di diminuire è andata aumentando. Marx aveva ipotizzato che a un certo punto di questo percorso i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi, ma in numero così ristretto che per cacciarli non ci sarebbe stato bisogno di nessuna rivoluzione, sarebbe bastata una pedata nel sedere. Non è andata esattamente così. I ricchi diventano sì sempre più ricchi, anzi ricchissimi, ma anche un poco più numerosi, sono i poveri a diventare sempre più poveri e molto più numerosi. In poche parole: è il ceto medio che prima lentamente, oggi in modo vertiginoso, tende a scomparire, perché fra i suoi ranghi alcuni, pochi, salgono nell’Empireo dei ricchi, ma tutti gli altri scendono negli inferi della povertà. E il ceto medio è sempre stato il collante indispensabile di uno Stato, di una Nazione, perché tiene insieme, occultandola, la differenza di classe. Questa scomparsa del ceto medio, che un tempo poteva riguardare questo o quello Stato, oggi, se guardiamo al Cile, all’Ecuador, al Libano, all’Iraq, alla Nigeria, all’europeissima Francia, è globale perché tutto sta diventando globale. E quindi le previsioni di Marx e di Trotsky (“la rivoluzione o è permanente o non è”) potrebbero, sia pur con qualche secolo di ritardo, avverarsi. Insomma una rivoluzione globale contro un’arrogantissima ricchezza che, anche solo a guardarla da lontano, è diventata intollerabile per ciascuno di noi.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2019
Sul Corriere del 15.10 Antonio Scurati, Premio Strega di quest’anno, affronta il problema della denatalità in Italia: nella classifica del tasso di fertilità, 1,3 per donna, siamo il penultimo Paese al mondo, al 192° posto, seguiti solo dal Giappone. Di conseguenza siamo, proprio come il Giappone, uno dei Paesi più vecchi. Il problema non è nuovo e riguarda l’intero Occidente. Nei Paesi mediorientali il tasso di fertilità è mediamente del 2,5 per donna, nell’Africa Nera del 5 e anche oltre.
Scurati affronta questo complesso problema restringendolo alla sua generazione, cioè degli individui che hanno fra i 40 e i 60 anni, la cosiddetta “generazione X”, e cerca di darsi delle risposte. Lo scrittore nega che le origini di questo fenomeno siano materiali ma le individua in ragioni culturali e spirituali, soprattutto nell’edonismo e nell’individualismo. Su Libero di mercoledì Vittorio Feltri liquida la questione con la brutalità e la superficialità che gli sono da tempo consuete: “Ma chi se ne frega se la società invecchia e se gli asili sono meno affollati rispetto ai tempi andati. Dov’è il dramma?”. E’ vero che oggi i giovani, ma non solo loro, non sono più disposti a sacrificarsi per i figli e il loro futuro. Ma Feltri non sembra rendersi conto che questa abissale differenza di fertilità, in Italia e in Occidente rispetto alle popolazioni mediorientali e africane, condurrà fatalmente a un’invasione e alla perdita di quell’identità, italiana, europea, occidentale, per la difesa della quale lo stesso Feltri, e ovviamente non solo lui, si è in altri momenti schierato.
Non si può ridurre tutto alla materia e al Dio Quattrino dal quale Feltri sembra ossessionato. Scurati ha ragione quando, come il Papa (si veda il suo libro Nostra Madre Terra), vede nell’individualismo una delle tare principali, se non addirittura la principale, della nostra società.
L’individualismo nasce dall’Illuminismo che nel giro di un paio di secoli ha finito per distruggere il senso della comunità e, al suo interno, la famiglia che da che mondo è mondo è il nucleo centrale e primigenio di ogni società. E’ una perdita affettiva decisiva che ha portato, fra le altre cose, grandi difficoltà nel rapporto fra i sessi (ce lo dice l’aumento vertiginoso dell’omosessualità maschile e, più nascosta, come più nascosto è il loro sesso, femminile, mentre i figli, a parte qualche marginale marchingegno tecnologico, si han da fare come si sono sempre fatti) e ha un’altrettale aumento dei suicidi dei giovani nel mondo occidentale e nei Paesi che hanno adottato il suo modello. Il suicidio, nel mondo, è la seconda causa di morte tra giovani e giovanissimi (età 15-29 anni). Mentre, fenomeno nuovo, assistiamo anche al suicidio dei vecchi, quasi sempre abbandonati a se stessi. In Cina, da quando in quel Paese è iniziato il boom economico, il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. Il Giappone ha il poco invidiabile record mondiale. In quel Paese si sono dovute transennare non solo le stazioni ma molti chilometri di ferrovia perché il modo più facile per togliersi la vita è gettarsi sotto un treno. Anna Karenina non è più quindi solo un fatto letterario partorito dalla fantasia di Tolstoj ma un fenomeno sociale.
C’è del marcio nel regno di Danimarca. E sono proprio il materialismo e il razionalismo laico ammantato di pragmatismo ad averci infettato. Tutti.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2019
Nel momento in cui Recep Tayyip Erdogan scatena una guerra che coinvolge cinque Stati, fra grandi e medie potenze (Stati Uniti, Russia, Turchia, Siria, Iran) oltre all’Isis e, ovviamente, alle eterne vittime della regione, i curdi, i soli che avrebbero il diritto di avervi uno Stato dato che quella regione si chiama Kurdistan ed è invece divisa fra Turchia, Siria, Iraq, Iran, vittime da sempre, e non solo da quando al potere nello Stato della Mezzaluna c’è il satrapo di Ankara (qualcuno ricorderà, forse, la strage di Halabja perpetrata da Saddam Hussein in combutta con i turchi nella generale indifferenza della cosiddetta comunità internazionale) credo che una domanda, non marginale, si imponga: che ci fa la Turchia nella Nato, acronimo di North Atlantic Treaty Organization? Anzi, perché vi è entrata quasi fin da subito (1952) in un’alleanza che doveva riguardare, almeno nelle intenzioni iniziali, i soli Paesi occidentali al di là e al di qua dell’Atlantico? Si dirà che la Turchia laica fondata da Ataturk è ben diversa da quella islamica di Erdogan. Che sul piano dei diritti civili sia stata tanto diversa da quella attuale c’è da dubitarne. Qualcuno ricorderà, forse, il film Fuga di mezzanotte, del 1978, che rivelava, in modo plastico, che cosa fossero le prigioni turche quando di Erdogan non si era mai nemmeno sentito parlare. Io stesso sono stato testimone di quanto accadeva in una piazzetta dietro la mitica Moschea Blu: dei ragazzini sui dieci anni erano schierati davanti a un muretto, arrivava un adulto, slacciava loro i pantaloncini, contrattava en plein air col magnaccia eppoi se li prendeva riportandoli qualche ora dopo. Questa era la civilissima Turchia laica.
Ma per gli Stati Uniti la Turchia, grazie anche alla sua posizione strategica e alla sua conformazione orografica, una grande piattaforma naturale, è stata sempre l’alleato transatlantico più importante, molto più dell’Europa occidentale. Non è certamente un caso che in Turchia gli americani mantengano la loro più grande base aerea, a Incirlik (quella in Kosovo, Bondsteel, ha funzioni più terrestri, in tutti i sensi: di detenzione di prigionieri islamici alla maniera di Guantanamo). E’ quindi comprensibile che l’America, non solo quella di Trump come ipocritamente si dice, sia sempre stata molto malleabile con la Turchia e che quindi oggi, col ritiro o il riposizionamento dei propri soldati, si voglia tener fuori dal grande e sanguinoso guazzabuglio creato dalla guerra di Erdogan. Insomma se ne lavi pilatescamente le mani.
La presenza della Turchia nella Nato crea situazioni paradossali. Oggi, in virtù di questo accordo, 130 soldati italiani e 25 mezzi terrestri sono schierati ai confini siriani della Turchia, a sua difesa. Cioè, nella sostanza, noi, nonostante tutte le parole vuote del nostro governo, sosteniamo i turchi contro i curdi. Ma lasciando perdere l’Italia sarebbe fuorviante e ingeneroso incolpare l’Unione europea per le sue ambiguità e le sue debolezze in questo scontro turco-curdo, con tutti i suoi annessi e connessi. L’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale è succube degli Stati Uniti e ne segue pedissequamente gli interessi anche quando sono in netto contrasto con i suoi. Nessuna Potenza può essere tale, in senso politico ed economico, se non ha un’adeguata forza militare. E l’Europa questa forza non ce l’ha visto che resiste ancora, a 75 anni dalla fine della guerra, l’anacronistico divieto alla Germania democratica di avere armi nucleari come le hanno, oltre a Stati Uniti, Russia, Cina, anche l’India, il Pakistan, il Sudafrica e l’intoccabile Israele. Una volta che avessimo conquistato, anzi riconquistato, questa forza militare potremmo finalmente uscire dalla storica sudditanza agli americani, essere liberi. E rimandare la Nato a quel paese, cioè agli Stati Uniti che oggi totalmente la controllano.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2019