C’erano una volta, tradizionalmente, tre “Stati canaglia”: la Corea del Nord, l’Iran degli ayatollah, l’Iraq di Saddam Hussein. C’era poi uno Stato che “canaglia” lo era solo a metà, la Libia di Muammar Gheddafi. A metà perché alcuni rispettati e rispettabilissimi Stati europei, come la Francia e l’Italia, intrattenevano lucrosi affari col Colonnello.
La Corea del Nord di Kim Jong-Un, che naturalmente è un “pazzo”, non ha sparato un solo colpo fuori dai propri confini, sta semplicemente cercando di migliorare il proprio armamento nucleare per non fare la fine di Saddam e di Gheddafi. Ha inoltre l’ulteriore colpa di essere comunista.
L’Iran è sospettato di volersi costruire l’Atomica. Poco importa che, a differenza del vicino Israele, abbia firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e accettato le regolari e ripetute ispezioni dell’Aia che hanno accertato che nei siti nucleari iraniani l’arricchimento dell’uranio non ha mai superato il 20 % (per fare un’Atomica l’arricchimento deve essere del 90 %). Però è una teocrazia guidata da degli Ayatollah che se non sono “pazzi” sono loro stretti parenti.
L’Iraq di Saddam Hussein, Stato accreditato all’Onu come del resto la Libia di Gheddafi, è stato spazzato via nel 2003 contro la volontà delle Nazioni Unite e in violazione di ogni legge internazionale. Il risultato entusiasmante di questa aggressione, che ha provocato in modo diretto o indiretto dai 650 ai 750 mila morti, è di aver consegnato all’Iran sciita trequarti dell’Iraq (perché si tratta della stessa gente, con la stessa origine, con la stessa antropologia, con la stessa ideologia). Insomma quanto si voleva impedire nel 1985 quando nella guerra Iraq-Iran gli americani intervennero a favore di Saddam, che la stava perdendo, in funzione antiraniana oltre che anticurda, adesso si è realizzato senza che gli iraniani abbiano avuto bisogno di sparare un solo colpo di fucile. Inoltre, com’era prevedibile, questa nuova situazione ha incoraggiato le mire geopolitiche degli ayatollah nella regione.
Poco importa, anche qui, che i pasdaran iraniani, insieme ai curdi, siano stati determinanti, sia pur con l’apporto decisivo dei caccia e dei droni americani, nello sconfiggere a Mosul e a Raqqa i guerriglieri dell’Isis che, pur valorosissimi, non hanno potuto arrestare l’avanzata di forze così preponderanti e superiormente armate.
Nel frattempo era nato un quarto, e ufficiale, “Stato canaglia”, la Siria di Bashar al-Assad che reprimeva con la violenza un gruppo di rivoltosi, peraltro parecchio scombinati. Gli Stati Uniti tracciarono una ‘linea rossa’ (l’uso di armi chimiche da parte del dittatore siriano) e, ritenendola oltrepassata, intervennero appoggiando i ribelli. Ciò permise l’intervento dei russi. Da qui il macello siriano le cui ultime conseguenze si sono viste in questi giorni con i bombardamenti americani (100 vittime fra le forze leali ad Assad, soldati si dice, ma vai a sapere) e quelli russi, 200 civili morti nell’area di Ghouta un tempo occupata dall’Isis (forse la gente di quei luoghi stava meglio quando c’era il Califfato). Di soppiatto, nella confusione, c’è stato anche un bombardamento degli israeliani, questi eterni eredi della Shoah, che temono che l’Iran prenda posizioni di forza ai loro confini e ai confini del Libano rifornendo di armi i ‘terroristi’ di Hezbollah. L'abbattimento di un aereo israleliano da parte della contraerea siriana conferma quello che sino a ora era stato nascosto: l'intervento di Israele nella regione.
Tutti accusano tutti di violare il diritto internazionale, come se, almeno a partire dall’aggressione alla Serbia, altro Stato sovrano, del 1999, esistesse ancora un ‘diritto internazionale’. Tutti giustificano le loro azioni criminali con la lotta ai “terroristi”, che per i russi, i turchi, i siriani, sono gli indipendentisti curdi e, per tutti, gli uomini dell’Isis che sembra diventato il passepartout per ogni genere di aggressione. Il che, senza nulla togliere al valore dei combattenti dello Stato Islamico, accredita il sospetto avanzato da alcuni che il Califfo sia al soldo di qualcuno, come Bin Laden lo fu degli americani per legittimare la guerra all’Afghanistan talebano.
Nel frattempo in Italia, insieme a quello zero sottovuoto spinto che prende il nome di Festival di Sanremo, assistiamo alla più avvilente campagna elettorale da quando esiste la Repubblica.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2018
Finalmente anche la stampa internazionale e italiana ha dovuto accorgersi che qualcosa succede in Afghanistan. L’attacco talebano a un check-point di polizia in pieno centro di Kabul, vicino al ministero degli Interni e alle ultraprotette ambasciate e organizzazioni straniere, era davvero difficile da ignorare. Ha provocato 103 morti e circa 150 feriti.
Attacco legittimo perché l’obbiettivo era militare come ha tenuto a precisare il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid. Molte delle vittime sono civili, “effetti collaterali” inevitabili in questo tipo di azioni, così come lo sono quando un drone o un bombardiere americano sgancia un missile.
Naturalmente si è scritto che i Talebani sono dei terroristi. Non è così. Sono dei resistenti che usano anche l’atto terroristico per opporsi all’occupazione dello straniero, come ha sempre fatto ogni resistenza, compresa la tanto celebrata Resistenza italiana. Terroristi sono quelli dell’Isis che hanno, quasi sempre, come obbiettivo primario i civili, prevalentemente sciiti, e colpiscono nel mucchio. I Talebani hanno sempre condannato, senza se e senza ma, questo tipo di azioni, come hanno fatto, ma è solo un esempio, per l’attacco Isis alla scuola dei figli dei militari pachistani avvenuto a Peshawar nel dicembre 2014. Ma i media internazionali, non so quanto involontariamente, continuano a fare d’ogni erba un fascio confondendo due fenomeni profondamente diversi: quello talebano è un movimento indipendentista che non ha altra mira che liberare la propria terra dallo straniero, l’Isis è un movimento ideologico che ha estensione e ambizioni planetarie.
Quasi negli stessi giorni c’è stato in Italia l’incidente ferroviario a Pioltello, che ha fatto, giustamente, molta impressione, anche perché ha colpito dei poveracci che si erano alzati alle cinque del mattino per andare a lavorare a Milano e al quale i nostri media hanno dedicato fino a nove pagine. Ma le vittime sono state solo tre, in Afghanistan gli occupanti occidentali, noi italiani compresi, in sedici anni di guerra di occupazione hanno fatto un numero incalcolabile e incalcolato di vittime civili: chi dice 150 mila, chi 200 mila, chi 300 mila, cui vanno aggiunti tutti coloro che sono stati resi invalidi, o sono nati deformi, a causa delle contaminazioni dei proiettili all’uranio (altro che le dieci scimmie esposte ai gas di scarico di alcune marche automobilistiche tedesche su cui ci si è molto impietositi).
In sedici anni siamo riusciti in ciò che non avevano fatto i sovietici: a distruggere un’economia, povera ma autosufficiente, una socialità, una cultura, un’etica. Qualche dato random sull’economia. La disoccupazione che nei sei anni e mezzo in cui ha governato il Mullah Omar era all’8%, ora raggiunge il 40%. A Kabul vivono 8 milioni di persone (ai tempi di Omar erano un milione e 200 mila). Che alternative ha un ragazzo di Kabul? O si arruola nell’esercito ‘regolare’ e nella polizia, senza nessuna convinzione (e questo spiega l’estrema debolezza degli apparati di sicurezza governativi che devono essere continuamente supportati dall’intervento, prevalentemente aereo, degli occupanti) o va ad accrescere, con maggiori motivazioni, le forze talebane oppure fugge dal Paese come dimostra l’esodo in massa di afgani negli anni più recenti. Negli ultimi due anni del suo governo il Mullah Omar era riuscito a ridurre quasi a zero la produzione di oppio, oggi l’Afghanistan produce il 93% dell’oppio mondiale con la complicità anche delle forze di occupazione.
Ma anche il ricorso agli atti terroristici è una novità, dovuta al nostro modo di combattere o piuttosto di non combattere. Gli afgani non avevano fatto uso del terrorismo né con i sovietici né nelle guerre che si sono fatti fra di loro, hanno sempre combattuto in modo tradizionale e con armi tradizionali. Nel 2006 i comandanti talebani chiesero al Mullah Omar licenza di poter usare anche il terrorismo perché per loro era estremamente difficile combattere con un nemico ‘invisibile’ che utilizzava quasi esclusivamente l’aviazione. Omar, uomo di grande saggezza che un giorno, spero, gli verrà riconosciuta, all’inizio si disse contrario. Per due motivi. Il primo era che il terrorismo non appartiene alle tradizioni afgane. Il secondo più pragmatico: l’atto terroristico causa inevitabilmente vittime civili e i Talebani non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione sul cui appoggio si sostiene la resistenza. Ma alla fine dovette cedere alle esigenze militari.
Questa tragica farsa della missione Resolute Support (che significa supporto per risolvere i problemi dell’Afghanistan) deve finire. Ma la tragedia afgana non può finire, o almeno cominciare a finire, prima che le truppe straniere se ne vadano dal Paese, come vuole ormai la maggioranza della popolazione anche non talebana o antitalebana (anche il Solidarity Party of Afghanistan che appoggia il governo fantoccio di Ashraf Ghani si dichiara contrario alla permanenza delle truppe straniere nel Paese).
Il solo modo per ‘salvare l’Afghanistan’ è “lasciare che gli afgani si salvino da soli” come, intervistato dalla Rai, disse ormai parecchi anni fa il generale russo che aveva comandato le truppe sovietiche in Afghanistan (adesso ci tocca prendere lezioni anche dai generali ex sovietici).
Lasciando l’Afghanistan faremmo un favore non solo agli afgani ma anche a noi stessi. Perché i Talebani combattono l’Isis e per quanto anche i 1.000 guerriglieri del Califfato presenti attualmente in Afghanistan, in prevalenza foreign fighters, siano a loro volta dei combattenti forti, coraggiosi e determinati non potrebbero resistere a lungo a quelli talebani che sono molti di più e conoscono meglio il territorio.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2018
Mia personalissima nota. Ma è mai possibile, per dio, che non si capisca, o si faccia finta di non capire, che se una resistenza contro forze tanto superiormente armate dura da più di 16 anni ciò vuol dire che ha l'appoggio di buona parte della popolazione?
Mi è venuta una ‘pazza idea’. Mi è venuta osservando in questi anni o mesi Gentiloni, Letta, Padoan, Calenda, Maroni, Tremonti, Brunetta, Meloni, Di Maio, Di Battista. Persone, per capacità, esperienza o perché portatrici di idee inedite, politicamente decenti, naturalmente per il campionato italiano perché se, come nel calcio, ci fosse la possibilità di rivolgersi all’estero, acquisteremmo sul mercato Angela Merkel, che ci costerebbe sicuramente meno della cifra sborsata dal Paris Saint Germain al Barca per Neymar, le affideremmo il governo per dieci anni e poi, finito il contratto, la rimanderemmo a casa sua.
L’idea è la seguente. I cittadini eleggono direttamente il Presidente della Repubblica. Come negli States. Ma a differenza degli Stati Uniti costui non farebbe il premier, si limiterebbe a nominarlo. Come ora in Italia, ma con la differenza che il Primo ministro avrebbe totale libertà di scegliersi i suoi ministri, dal mondo politico e dalla società civile, senza stare a badare alla loro provenienza ideologica ma solo alla loro capacità, competenza, creatività. Sarebbe un ‘governo dei migliori’ o, se si preferisce, dei ‘meno peggio’. Costoro potrebbero ‘fare squadra’ senza dover essere costantemente impegnati in ‘baruffe chiozzotte’ che, attualmente, servono solo per smarcarsi, per trovare una collocazione e una visibilità. Il governo dei ‘meno peggio’ sarebbe, nel suo operare con una buona coesione, facilitato dal fatto che le categorie ‘destra’/’sinistra’, vecchie di due secoli e mezzo, non hanno più senso e sono praticamente indistinguibili. Come si vede in questa abominevole, ma anche chiarificatrice, campagna elettorale dove tutti i partiti propongono le stesse cose anche se fingono che siano diverse. Perché tutti sanno quali sono le cose prioritarie da fare nel nostro Paese.
Verrebbe eliminato il Parlamento. Un’Assemblea, oltre che estremamente costosa, inutile perché, come sappiamo tutti benissimo, deputati e senatori sono nominati dai segretari di partito o dai loro più stretti sgherri e a loro obbediscono oppure passano disinvoltamente da una formazione all’altra non per convinzioni ideali ma per pura convenienza personale o addirittura per denaro. E’ il ‘mercato delle vacche’ cui assistiamo da qualche decennio e che negli ultimi tempi ha assunto ritmi parossistici (L’assenza del “vincolo di mandato”, stabilita dalla nostra Costituzione, art.67, fu decisa in un epoca completamente diversa, di grandi passioni ideali, per cui nessuno si sarebbe sognato di passare da un giorno all’altro, poniamo, dalla Dc al Pci, casomai si staccavano interi gruppi in dissenso dal proprio partito formandone uno nuovo, come avvenne per il Manifesto dopo le vicende di Praga).
Questa nuova Costituzione eliminerebbe via via anche i partiti, il vero cancro della democrazia liberale, il killer della meritocrazia. Perché nessuno avrebbe più interesse a infeudarsi in questi apparati mafiosi dato che i posti di rilievo verrebbero conferiti, senza interferenze di partito, direttamente e liberamente dal Premier e dal suo Governo non dovendo ricorrere ad alcun manuale Cencelli.
Per le Regioni e i Comuni verrebbe mantenuto l’attuale meccanismo elettorale, ma anche qui il Presidente della Regione o il sindaco, liberati dai diktat dei partiti, potrebbero scegliere i propri assessori senza alcuna pregiudiziale ideologica.
Resterebbero naturalmente i Referendum, sia propositivi che abrogativi, con forza di legge.
E se il Governo non funziona? Il Presidente della Repubblica cambia il Primo ministro che a sua volta darebbe vita liberamente a una nuova formazione, eliminando quelli che si sono dimostrati incapaci e mantenendo, della precedente, quelli che si sono rivelati validi.
E se non funziona il Presidente della Repubblica, se le sue scelte non convincono? Se ne elegge un altro.
Insomma, per disperazione, mi sono creato la mia Costituzione. ‘Pazza idea’? Chissà…
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2018