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L’Emirato islamico d’Afghanistan (vale a dire i Talebani), che si considera tuttora il governo legittimo di quel Paese essendone stato spossessato da un’invasione straniera, attraverso una lettera aperta indirizzata direttamente al “popolo americano” ha proposto agli Stati Uniti di avviare un negoziato per arrivare finalmente alla pacificazione in una terra che non conosce tregua da quasi quarant’anni, se si escludono i sei e mezzo in cui fu governata dal Mullah Omar.

E’ difficile immaginare che gli americani accettino di trattare (del resto un niet è già arrivato dalla Nato) stretti come sono fra un malposto orgoglio nazionale e il proprio totalitarismo ideologico. La guerra afgana è infatti ormai puramente ideologica non essendoci evidenti interessi economici –al contrario- e nemmeno strategici, a differenza di quello che avviene nell’Estremo Oriente dove l’obbiettivo Usa è di tenere Seul in perenne conflitto con Pyongyang, in funzione essenzialmente anticinese, mentre le due Coree potrebbero tranquillamente convivere in modo sereno come hanno dimostrato le recenti Olimpiadi invernali.

Eppure dalla fine della guerra all’Afghanistan gli americani hanno solo da guadagnare. 1. Soldi innanzitutto. Gli Stati Uniti infatti vi spendono 45 miliardi di dollari l’anno. Donald Trump, che è molto attento ai quattrini del ceto medio americano (‘America first’ vuol dire innanzitutto questo) dovrebbe rifletterci. Che senso ha continuare a spendere soldi in una guerra che gli stessi strateghi e think tank americani ammettono che “non può essere vinta”? E invece ‘the Donald’, che per il resto ha sconfessato pressoché in tutto la politica del suo predecessore, in questo caso ha seguito la linea Obama inviando in Afghanistan altri 4.900 uomini. 2. L’Isis, nonostante le sanguinose sconfitte di Mosul e Raqqa e l’eliminazione di un proprio territorio, è ritenuto ancora, e con ragione, una grave minaccia, tanto che non c’è riunione fra presidenti o ministri degli Esteri o degli Interni degli Stati che non appartengono alla galassia sunnita in cui il terrorismo jihadista non sia uno dei temi in discussione e non c’è incendio o esplosione di un caseggiato, con tutta evidenza casuali, di cui non ci si affretti ad affermare che il terrorismo internazionale non c’entra, così forte è la paura che la sua sola esistenza ci ha messo addosso. Bene, i Talebani, pur sunniti, in Afghanistan combattono l’Isis e riescono per ora a fare argine. Ma la cosa non può durare a lungo, perché i Talebani, stretti fra gli occupanti occidentali e i guerriglieri che si richiamano al Califfato di Al Baghdadi, perdono terreno rispetto agli jihadisti, come dimostrano alcuni recenti attentati a Kabul targati Isis. E così, a loro volta, per riaffermare la loro supremazia sono costretti a incrementare gli attacchi agli obbiettivi militari occidentali (quattro solo nell’ultima settimana con un bilancio di 23 morti fra i soldati del governo fantoccio di Ashraf Ghani sostenuto dagli Stati Uniti). Ma potrebbe anche accadere –e ce ne sono già le avvisaglie- che i Talebani finiscano per allearsi con Isis, invece di combatterlo, considerandolo il male minore rispetto agli occupanti occidentali. L’Isis ne uscirebbe quindi enormemente rafforzato. Questo Putin l’ha capito benissimo riconoscendo ai Talebani lo status di “movimento politico e militare” e quindi non terrorista. Non si capisce perché gli americani non possano fare lo stesso accettando di trattare con gli emissari dell’Emirato islamico d’Afghanistan e ponendo così fine a una guerra che ha causato centinaia di migliaia di vittime civili, di persone contaminate dai proiettili all’uranio impoverito, di bambini nati per lo stesso motivo deformi, e che non giova a nessuno se non, appunto, al terrorismo internazionale che, battuto per ora in Medio Oriente, ritrova vigore in Asia Centrale e da lì, oltre alla Russia, può ritornare a colpire in Europa e negli stessi Stati Uniti.

In quanto a noi, che in quel Paese manteniamo 900 soldati, i Cinque Stelle hanno promesso in campagna elettorale che se andranno al governo ritireranno dall’Afghanistan il nostro inutile contingente che ci costa 475 milioni l’anno. Con 475 milioni non si risanano certo le malandate finanze del nostro Stato, ma almeno il ritiro dall’Afghanistan, il rifiuto di fare gli eterni servi schiocchi degli americani, oltre che un dovere morale, sarebbe anche una prova, sia pur su un aspetto apparentemente minore, della credibilità dei ‘grillini’ e dei loro programmi.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2018

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La tesi di Massimo Fini sul Fatto ("Perché l'astensione preoccupa i padroni") è che l'uguaglianza non ha bisogno di tutela, né di governanti ("gente che paghiamo perché ci comandi").  A riprova, il giornalista cita l'organizzazione sociale dei Nuer, popolazione del Sudan che non ha gerarchie, deducendo da questa particolarità un'uguaglianza perfetta. Fini si legge per apprezzarne le provocazioni. Ma su questo tema - potere, gerarchie e uguaglianza - è bene che rimangano tali, visto che non hanno alcuna attinenza con la nostra complessità. 

In democrazia, chi non vota danneggia l'uguaglianza. Che non è una condizione di natura a cui si ritorna disertando le urne, ma una faticosa conquista sociale contro la legge del più forte. Tant'è che per arrivare al dominante che si astiene dal sopraffare l'inerme ci vogliono secoli di cultura, diritto, politica, fino a rendere autonoma la dignità dalla forza, con la conquista dell'uguaglianza.

 La democrazia egalitaria, quindi, è un equilibrio molto precario, perché contrastato continuamente dalle forze della diseguaglianza (violenza fisica, educativa, economica). E pertanto ha bisogno di manutenzione continua, perché la legge del più forte è recidivante. Rinunciare alla vigilanza democratica - cioè non votare, né protestare per le ingiustizie - è una cessione di sovranità, che non porta al paradiso dei Nuer, ma alla dittatura.

Quindi caro Fini, come se avessi accettato: ma preferisco difendere la democrazia in Italia.

E andare a votare.

Massimo Marnetto

Le ‘società acefale’ erano basate su un altro elemento che a noi suona blasfemo: la violenza. Invece è proprio la possibilità della reazione individuale a limitare, in quelle comunità, la violenza e il sopruso. “Ogni Nuer ha un senso profondo della propria dignità e non tollera che sia in alcun modo intaccata”. E’ anche il venir meno del senso della propria dignità che ci impedisce di tornare a comunità tipo Nuer. Inoltre in democrazia il più forte ha strumenti così sofisticati e subdoli (economici, finanziari, mediatici, lobbies) che è pressoché impossibile combatterlo e non sarà certo l’infilare una scheda in un urna a cambiare le cose. Ci vorrebbe una rivoluzione. Ma la Storia ci insegna anche che nemmeno le rivoluzioni (francese, russa, fascista) cambiano le cose, perché a una classe dominante se ne sostituisce quasi immediatamente un’altra. E’ uno dei tanti impasse in cui si trova quell’essere tragico che è l’uomo.

Massimo Fini

Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2018

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In vista della fatidica data del 4 marzo Peter Gomez ha pubblicato un interessante libretto, Il vecchio che avanza, che è una sorta di ‘avviso ai naviganti’ per un voto se non ‘utile’ almeno consapevole, mentre si moltiplicano gli inviti, istituzionali e non, anche larvatamente minacciosi, a recarsi alle urne come sacro diritto/dovere del cittadino democratico.

Ma cosa sia la democrazia, e in che senso si differenzi da qualsiasi altro sistema di potere nessuno ce lo spiega, dandolo per scontato.

Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava già Jacques Necker nel 1792, “dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione”. Evidentemente noi contemporanei questa capacità di riflessione l’abbiamo perduta e che ci sia un potere sopra le nostre teste lo diamo come irreversibile, ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer. I Nuer sono un popolo nilotico che vive, o meglio viveva, nelle paludi e nelle vaste savane dell’odierno Sudan meridionale. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. “E’ impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza…Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza…Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino”. Così li descrive l’antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni Trenta, visse fra loro a lungo e li studiò. Un miracolo? O, quantomeno, un’eccezione? Non proprio. Si tratta infatti di una di quelle “società acefale”, di quelle “anarchie ordinate” nient’affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l’equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l’Africa stessa. Queste società erano riuscite a coniugare libertà e uguaglianza, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell’Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime ma senza cavare un ragno dal buco. Il fatto è che i Nuer, o tutte le società consimili, pensano, proprio come Locke uno dei padri della democrazia liberale, che gli uomini nascano, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ma questo nel mondo liberale o marxista non è mai avvenuto e tuttora non è.

Il nocciolo della questione è che nessun potere, qualsiasi potere, è legittimo. Si tratta solo di finzioni. Conviene Stuart Mill: “Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore”. Nessun potere è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario. Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso. Ma nell’Italia democratica, e anche in molte altre democrazie occidentali, questa credibilità è venuta meno in fasce sempre più larghe della popolazione. Da qui il fenomeno crescente dell’astensione che preoccupa i ‘padroni del vapore’, in particolare i partiti, perché capiscono benissimo che se si estendesse ulteriormente la sarebbe finita una volta per tutte col loro potere illegittimo e prevaricatorio. E noi torneremmo a essere liberi, indipendenti e uguali. Come i Nuer.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2018