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Ahi.Ahi.Ahi. La settimana, che era cominciata sotto buoni auspici, per l'elezione del nuovo Papa, è subito precipitata. Il Pontefice non aveva quasi fatto in tempo a essere elevato al soglio di Pietro che è cominciata la sarabanda dell' 'umiltà'. «I primi gesti umili del Papa» titolava il giorno dopo a tutta pagina il Corriere della Sera, seguito sullo stesso tono da tutti i quotidiani, dalle Tv, dai talk show, da Twitter, dai social network. «Papa Francesco va a pagare, di persona, il conto dell'albergo dove aveva risieduto da cardinale durante il Conclave», «ha respinto, con un gesto, la berlina papale ed è salito su un pulmino insieme agli altri cardinali», «al momento della vestizione, dopo l'elezione, quando il cerimoniere Guido Martini gli porgeva la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino l'ha respinta, come ha respinto la croce d'oro dei Papi, affermando che continuerà a portare la sua, di ferro», «nella cappella Sistina dove dovrebbe pronunciare, come da tradizione, un'allocuzione scritta, in latino, parla invece a braccio in italiano», «poi resta in piedi anzichè sedersi sulla 'sedia del Papa'», «a cena con i cardinali va a cercarsi una sedia qualsiasi».

Scriveva Alberto Savinio in un prezioso e prevvegente libretto del 1943, 'Sorte dell'Europa': «Non c'è soltanto la retorica della 'grandezza', che è quella di cui si servi' preferibilmente il fascismo, c'è la retorica della 'piccolezza', la retorica della 'bontà', la retorica della 'modestia', che non sono meno pericolose di quella». L'umiltà, come la carità, non si ostenta. E io ho il sospetto che chi troppo grandemente si umilia manchi proprio di umiltà. Del resto, a ripensarci bene, anche la scelta del nome, Francesco, è un atto di superbia mascherato da segnale di umiltà. Perchè nella cosmogonia della Chiesa il fraticello di Assisi sta dietro solo a Cristo e per questo nessuno, prima di Jorge Mario Bergoglio, aveva osato assumerne il nome.

Puo' anche darsi che gli atteggiamenti di Papa Bergoglio siano spontanei o che, più probabilmente, vogliano essere un segnale per il mondo dei credenti, ma se si potesse dare un consiglio a un Pontefice, gli direi di guardarsi dalla retorica dei media che rischia di renderli grotteschi. Ai tempi di Pertini vigeva, alimentata dal narcisismo del personaggio, la retorica della «modestia, del Presidente che si comporta come tutti gli altri». E i giornali, nella loro ansia di servilismo e di lascivia laudatoria, invece di porre un freno a questa patologia senile la incoraggiavano. Un cronista del Corriere d'Informazione, mandato all'aereoporto Forlanini per seguire l'arrivo di Pertini, scrisse: «L'aereo del Presidente atterra proprio come tutti gli altri». Spero che con la retorica dell' 'umiltà' non si arrivi, con Papa Francesco, a questi climax di cretineria piaggiatoria. Lo spero per il Papa e per tutti noi, credenti e non.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2013

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Che l'India non potesse trattenere l'ambasciatore Daniele Mancini, impedendogli di lasciare il Paese, in uno stato di semi-sequestro, come rappresaglia al fatto che l'Italia non aveva restituito i due maro' accusati di aver ucciso, ai limiti delle acque indiane, due pescatori del Kerala scambiati per pirati somali, e ai quali la giustizia di Nuova Delhi aveva concesso una licenza di quaranta giorni perchè potessero partecipare alle elezioni di febbraio, è fuori discussione. Non tanto perchè il Trattato di Vienna del 1965 assicura l'immunità degli ambasciatori, ma per il diritto internazionale consuetudinario che affonda le sue radici nei secoli e che, per quel che ci risulta, non è stato mai violato. Anche nella pur terribile seconda guerra mondiale quando, nel 1939, Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania e nel 1940 l'Italia ai due alleati, agli ambasciatori dei Paesi belligeranti furono concesse 24 ore di tempo per lasciare i rispettivi Paesi. Gli ambasciatori si espellono, non si sequestrano.

Ma è altrettanto indiscutibile che l'Italia si era messa in una situazione insostenibile. L'ambasciatore Mancini, su direttiva del governo Monti, si era formalmente impegnato, firmando una dichiarazione scritta, a far rientrare i due maro' in India, dopo la licenza. Invece, aggrappandosi a cavilli giuridici, non lo ha fatto. Edward Luttwak, molto vicino al Dipartimento di Stato Americano ha commentato:«La decisione italiana di non far tornare in India i maro' compromette la credibilità del vostro Paese in modo irreparabile». Credibilità che è da sempre, storicamente, vacillante. In due guerre mondiali abbiamo cambiato per due volte alleato o, per restare a esempi più recenti, siamo in Afghanistan a fianco degli americani, ma invece di combattere i Talebani facciamo patti con loro perchè non ci attacchino. Più o meno la stessa cosa era avvenuta in Libano, ai tempi del generale Angioni, quando ci eravamo accordati con quelli che avremmo dovuto combattere. Che la nostra capacità a tener fede alla parola data sia fragilissima lo dimostra lo stesso fatto che quando a Natale fu concessa ai maro' la prima licenza e, finita quella, li restituimmo all'India, ci autoricoprimmo di elogi e ne fummo ricoperti dagli altri Paesi:«Guardate, l'Italia sa tener fede alla propria parola». Insomma fu considerato eccezionale quello che avrebbe dovuto essere scontato. Per buona sorte il governo italiano ha capito, sia pur in extremis, che perseverare nella sua posizione avrebbe compromesso, come dice Luttwak, «la credibilità del nostro Paese in modo irreparabile» e ha deciso quindi di rimandare i due maro' in India. Meglio tardi che mai.

Sia pero' concessa una notazione a margine. Quando i maro' rientrarono in Italia per la prima licenza, furono accolti all'aereoporto con tutti gli onori dal presidente Napolitano e dal premier Monti come degli 'eroi'. Ma quali eroi? Come minimo sono due soldati maldestri e incapaci. Perchè scambiare un lungo e lento barcone di 12 pescatori, alcuni dei quali dormivano, con i piccoli, agili e velocissimi barchini usati dai pirati somali, che agiscono con non più di quattro assaltatori, è veramente un'impresa. Evidentemente i due maro', Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, si sono fatti prendere dalla sindrome americana dello sparare a chi 'cojo cojo' senza alcun rispetto per le vite altrui. E come tali avrebbero dovuto essere trattati.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 22 marzo 2013

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L'aspetto più interessante del nuovo Papa non è tanto che sia il primo Pontefice non europeo, latino-americano (anche se ha il suo significato), ma, com'è stato notato da molti, il nome che, con una certa temerarietà, Jorge Mario Bergoglio ha scelto di darsi: Francesco. San Francesco è infatti attuale e inattuale nello stesso tempo. E' attuale perchè predica un rapporto d'amore e di rispetto per la natura «Laudato sie, mi' Signore.... per messor lo frate sole...per sora luna...per frate vento...per sor'acqua...per sora nostra matre terra»-Laudes Creaturarum).

E' insomma un ecologista 'ante litteram' ( dove il termine 'ecologia' va inteso in un senso più ampio, spirituale), e oggi finalmente, anche se con fortissime opposizioni, ci si sta rendendo conto che se continuiamo sul passo preso a partire dalla Rivoluzione industriale finiremo per distruggere il pianeta e, con esso, noi stessi.

E' inattuale perchè predica la povertà e non si tratta semplicemente della solita attenzione agli 'umiliati e offesi', tipo, modernamente, Madre Teresa di Calcutta o Dame di San Vincenzo, ma è un invito alla sobrietà, a spogliarsi dei beni materiali che è rivolto a tutti. San Francesco è insomma un pauperista e il pauperismo va in direzione diametralmente opposta all'attuale modello di sviluppo basato sull'accumulo continuo della ricchezza. San Francesco, come ho scritto più volte, anche su questo giornale, sarebbe oggi molto più rivoluzionario di Marx e di Adam Smith.

Tornando sulla terra, cioè al Francesco oggi Papa, che il popolo cattolico, con una fretta e una superficialità tutta moderna, vorrebbe 'subito santo' , è chiaro che la scelta di un Papa non europeo, non nord-americano, ha un significato preciso. Vuol dire che la Chiesa considera l'Occidente propriamente detto completamente desacralizzato, secolarizzato, ormai irrecuperabile e cerca miglior sorte in altri lidi. Quando nel 1880 Friederich Nietzsche proclama « la morte di Dio » non fa che constatare, con un certo anticipo poichè era un genio, che Dio è morto nella coscienza dell'uomo occidentale. Una volta che è morto, spiritualmente, Dio non è resuscitabile.

Un'altra cosa mi è piaciuta nell'uomo Jorge Mario Bergoglio diventato Papa Francesco. I giorni precedenti l'elezione del Pontefice e quelli del Conclave sono stati ammorbati da un'assordante grancassa dei mass media, soprattutto televisivi, mentre sulla piazza si faceva un tifo nazionalistico altrettanto rumoroso e non molto dissimile da quello per Barcellona-Milan (non per nulla un quotidiano argentino ha paragonato Bergoglio a Messi). Nel suo breve discorso Papa Francesco ha chiesto, nel chiasso generale, un momento di silenzio e lo ha ottenuto. E anche questo è del tutto inattuale in una società che non sa più sopportare il silenzio, che applaude, grottescamente, persino i suoi morti e dove gli uomini e le donne pur di non rimanere soli con se stessi si rimbambiniscono ascoltando le musichette dei giochini dell'iPhone.

Se poi Papa Francesco sarà in grado di realizzare i propri intenti, questo solo Dio, se mai esiste, lo puo' sapere.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2013