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Nella conferenza stampa di fine anno un giornalista d'area radicale ha chiesto al presidente del Consiglio se l'Italia non fosse troppo morbida con l'Iran. Letta ha risposto in diplomatichese ma una cosa interessante l'ha detta: “L'Italia puo' essere un buon mediatore con l'Iran perchè entrambi veniamo da grandi culture millenarie e possiamo quindi intenderci”. L'Iran è infatti l'antica Persia. E le vestigia di questa cultura si possono trovare nella plurimillenaria città di Isfahan o a Qom (non a Teheran che, come Tel Aviv, è di costruzione recente). Ma a parte questo, eppero' in sua stretta correlazione, gli iraniani, almeno a partire da un certo livello sociale, sono delle persone colte che non si limitano a sapere a memoria i versetti del Corano. Me ne resi conto quando stavo da quelle parti: la piccola borghesia di Teheran non solo conosceva i nostri maggiori (Dante, Petrarca, Boccaccio) ma in quel periodo (siamo negli anni '80, in pieno khomeinismo) leggeva Moravia e Calvino. Noi della loro cultura letteraria conosciamo, quando va bene, solo Omar Khayyam. E' questa supponenza della 'cultura superiore' (che Letta, gli va dato atto, ha dimostrato di non avere) che infastidisce, soprattutto nel momento in cui questa cultura dovrebbe fare un po' i conti con se stessa e con la lunga striscia di sangue e di violenze, militari, politiche, economiche, che ha alle spalle e non solo alle spalle. Io non riesco a capire su quali basi giuridiche e morali capi di Stato (Obama, Hollande, Cameron) che sono seduti su giganteschi arsenali atomici si possano permettere di impedire all'Iran di farsi il nucleare civile perchè da qui potrebbe, in teoria, arrivare all'Atomica (passare dal 20% di arricchimento dell'uranio, che è quanto serve per il nucleare ad usi civili e medici, al 90% della Bomba è cosa che richiede anni). L'Iran, si dice, fa parte dell' 'asse del Male'. E perchè mai? L'Iran khomeinista non ha mai aggredito nessuno, semmai è stato aggredito, dall'Iraq di Saddam Hussein che gli occidentali hanno sostenuto finchè gli faceva comodo, scippando a Teheran una vittoria che si era legittimamente conquistata sul campo di battaglia. L'Iran, si dice ancora, fomenta il terrorismo internazionale. Non se ne ha alcuna prova. Mentre è certo che il Mossad ha assassinato, in Iran, quattro scienziati che si stavano occupando del nucleare (immaginiamoci cosa sarebbe successo a parti invertite). L'Iran è una Teocrazia. Embè? Non tutti i Paesi sono obbligati a essere delle Democrazie. In ogni caso la teocrazia se non è una democrazia non è nemmeno il governo di un solo uomo, è un regime molto più articolato che non puo' essere messo sullo stesso piano delle dittature dei Somoza, dei Pinochet, dello stesso Saddam che l'Occidente, americani in testa, ha vergognosamente sostenuto e a volte imposto (vero mr. Kissinger?).

L'Iran, a differenza di Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha accettato le ispezioni dell'Aiea e, nelle trattative in corso, si dimostra disponibile a subirne altre ancora più intrusive e capillari, purchè sia salvaguardato il suo elementare e sacrosanto diritto a farsi il nucleare per usi civili.

Cosa vogliamo ancora? Forse se la smettessimo di considerarci il Bene anche il Male sarebbe meno aggressivo e diffidente nei nostri confronti.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2013

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In Sud Sudan, Stato nato due anni fa dalla secessione dal Sudan, è in corso una guerra civile fra l'esercito leale al presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, che dispone di carri armati, e i ribelli che fanno capo all'ex vicepresidente Riek Machar, di etnia Nuer, che rispondono a colpi di kalashnikov. I morti sono migliaia.

I Nuer sono un popolo nilotico, di staordinaria bellezza, che vive nelle paludi e nelle vaste savane del Sudan meridionale e che negli anni Trenta, quando l'antropologo inglese Evans-Pritchard lo studio' stando a lungo sul posto, costituivano una di quelle 'società acefale' o 'anarchie ordinate' non rare un tempo nel Continente Nero. Pritchcard infatti cosi' li descrive: «E' impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile, nessuno riconosce un superiore sopra di sè. La ricchezza non fa differenza. Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza. Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino». I Nuer non avevano contatti con altri popoli (al Nuer, per vivere, bastava l'orgoglio di essere un Nuer) tranne che con i contigui Dinka. Poichè sono un popolo guerriero ogni quattro o cinque anni facevano delle razzie fra i Dinka i quali li ripagavano rubandogli il bestiame. Per questa faccenda avevano creato anche un mito fondativo: in origine il Dio aveva dato una vacca al Nuer e un vitello al Dinka, ma di notte il Dinka, imitando la voce del Nuer, si era preso la vacca e il Nuer, scoperto il furto, si era fatto resituire la vacca a colpi di zagaglia. Questo era l'equilibrio che avevano trovato. Tanto che quando nel 1880 arrivarono gli inglesi e vollero impedire le razzie dei Nuer i primi a lamentarsene furono i Dinka. Durante le razzie i Nuer uccidevano qualche Dinka (pochi perchè quelli se la davano a gambe) e altri li facevano prigionieri. Il prigioniero veniva trattato con grande rispetto, il suo carceriere non poteva nemmeno ordinargli di portargli un bicchiere d'acqua. Dopo un periodo di quarantena il Dinka veniva integrato e diventava un Nuer a tutti gli effetti. Racconta ancora Pritchcard: «Se chiedevi a qualcuno 'Senti, ma quello là è un Nuer-Nuer o un Nuer-Dinka?' Si rifiutava di risponderti».

Com'è che da questa realtà a suo modo straordinaria (libertà e uguaglianza messe insieme, una bella lezione per le supponenti democrazie occidentali) si è arrivati a quella odierna? Le ragioni sono sostanzialmente due. L'erezione a Stato nel 1956, del territorio del Sudan con la conseguente radicalizzazione in senso integralista-musulmano del Sudan del Nord che ha cercato di imporre, con i mezzi che ha uno Stato, il suo cupo credo alle popolazioni animiste del Sud che hanno reagito con una guerra civile durata quarant'anni e combattuta non certo a colpi di zagaglia (tutti vendono armi a tutti, non olet).

La penetrazione occidentale, simboleggiata dagli abiti dei suoi leader, Kiir e Mochar, vestiti in giacca e cravatta, il primo addirittura con in testa un cappello da cowboy, ha distrutto l'armonia, gli equilibri, la mentalità, la cultura su cui vivevano, da millenni, queste popolazioni tribali. E cosi' al posto delle innocenti e liberatorie scaramucce di un tempo oggi abbiamo mille morti al giorno.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 27 dicembre 2013

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L'Europa unita è nata male. Doveva essere prima politica e poi economica. Questo la sapevano benissimo Adenauer, De Gasperi, Spaak che, nel dopoguerra, ebbero quell'idea. Ma sapevano altrettanto bene che gli americani non glielo avrebbero permesso. Del resto Washington si è sempre messa di traverso a ogni tentativo, in qualunque forma fosse espresso, di costituire un'unità europea. Quando a metà degli anni Ottanta Francia e Germania provarono a mettere in piedi un esercito franco-tedesco che doveva essere il primo nucleo di un esercito europeo, senza il quale non sarà mai possibile un'Europa veramente indipendente, gli americani si opposero e mandarono in fumo il progetto.

L'Europa quindi, attraverso lunghe e difficili tappe, si è formata come unione economica e, dal 2002, anche monetaria. E l'unione monetaria, priva di un centro politico formalizzato e legittimato, ha provocato problemi seri in vari Paesi. Ma è grottesco il tentativo dei partiti di scaricare, chi in maggior misura, la cosiddetta destra, chi in minore, la cosiddetta sinistra, il montante disagio italiano sull'euro e sull'Europa. I primi responsabili di quel disagio siamo noi e principalmente proprio quei partiti che oggi se ne lagnano o tentano di cavalcarlo. Deriva da trent'anni di una politica dissennata e malavitosa della nostra classe dirigente. Dalle pensioni di vecchiaia fasulle, dalle pensioni di invalidità false, dalle pensioni baby, dalle pensioni d'oro elargite negli anni Ottanta per ragioni clientelari e di scambio di voti. Dal sistema mafioso delle tangenti che, secondo i calcoli prudenziali di Giuliano Cazzola, ci è costato 630 miliardi, un quarto di quel debito pubblico che oggi è la principale causa delle nostre difficoltà in Europa. Mani Pulite fu l'ultima occasione. Il dernier appel. Ma non fu ascoltato. Al contrario, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime. Cosi' le ruberie pubbliche sono continuate nelle forme più vergognose e umilianti e sono all'origine, come ha ammesso lo stesso Napolitano, di una protesta sempre più dilagante (astensione, grillismo, 'forconi').

Lunedi' sera nel salotto di 'Porta a Porta' c'erano Alemanno, Salvini, la Serracchiani oltre a Marcello Sorgi. La solita 'compagnia di giro' di politici e giornalisti complici. Ma Vespa ha avuto l'imprudenza di sentire, sia pur in collegamento, il contadino Danilo Calvani il leader del 'movimento 9 dicembre' il quale a ogni tentativo dell'insetto, come lo chiama Travaglio, di fare il pompiere («Fate proposte concrete. Cosi' non otterrete niente, nemmeno le dimissioni di un usciere») rispondeva invariabilmente: «Tutti a casa. Del resto parleremo dopo»). Ho cambiato canale e ho sentito Nichi Vendola parlare di «un miliardario che sfrutta il disagio della povera gente». Pensavo si riferisse a Berlusconi. Parlava invece di Grillo. Il movimento di Grillo è nato prima della protesta popolare, l'ha semplicemente anticipata e non sfrutta assolutamente nulla perchè ne fa parte. Il 'miliardario' Grillo ha una casa sulle colline di Genova e un'altra sotto Cecina nella parte meno prestigiosa del litorale toscano, belle case indubbiamente ma niente di sesquipedale e comunque frutto di decenni di un lavoro di successo, cosa che non si puo' dire di Vendola che è parlamentare dal 1992. Anche Nichi Vendola è uno di quelli da rottamare. «Tutti a casa».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2013