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Caroline Kennedy, figlia di JFK, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi "profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell'uccisione dei delfini" e ricordando che "il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica". La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e "come la signora ambasciatrice deve sapere noi viviamo di questa attività" ha detto il capo dei pescatori di Taiji.

Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla 'chi cojo cojo', con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini. Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka ha replicato "La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?". E il governo nipponico ha tenuto il punto: "Questa forma di caccia è una tradizione culturale".

E' il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta "delusa" perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati "anche 14 leader politici e militari giapponesi", condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l'equivalente nipponico di quello di Norimberga. Nel settembre 1986 il ministro dell'Educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l'elementare domanda: "Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?").

In realtà dietro queste schermaglie c'è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall'università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su "Americanismo e antiamericanismo. Il ruolo dell'Europa". In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è 'la quarta sponda' degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell'animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c'era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene per giorni e giorni lo Yumiuri Shimbun e l'Asahi Shimbun, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire 'rubato'. La partita era solo un pretesto. I giapponesi non hanno mai digerito l'Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di 'dedivinizzare' l'Imperatore. L'Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c'è stato un solo tentativo di attentato all'Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la 'dedivinizzazione' dell'Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l'anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di Atomiche su New York.

Massimo Fini

Il Gazzettino, venerdì 24 gennaio 2014

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Con Peter Gomez ho presentato a Milano il libro di Travaglio Viva il Re!.C'è voluta proprio tutta l'insipienza e la mediocrità della classe politica italiana degli ultimi anni per far assurgere Giorgio Napolitano a un ruolo di protagonista. Nel Pci d'antan, quello dei Togliatti, degli Amendola, dei Pajetta, dei Lajolo e persino dei Colajanni, Napolitano era una semplice suppellettile. Si diceva che era autorevole. Se chiedevi a un ragazzo della Fgc, un 'figiciotto', di Napolitano ti rispondeva «Ah, è autorevole», ma perchè mai lo fosse non sapeva spiegartelo. Era autorevole perchè era li' da sempre, da epoche pleistoceniche. Tutte le generazioni di italiani viventi, e fra poco anche morenti, se lo sono trovati in casa, pomposo e inamidato, fin dalla nascita. Come Andreotti, con la differenza che il 'divo Giulio' ha segnato, nel bene e nel male, la politica italiana, mentre di Napolitano non si ricorda, prima di questi ultimissimi tempi, non dico un'azione, sarebbe pretendere troppo, ma un discorso di un qualche significato. Travaglio, nel suo sterminato archivio, puo' anche averlo trovato, ma ha dovuto cercarlo col lanternino, con quella luce che sta in capo al medico quando in sala operatoria deve fare un intervento di microchirurgia. «Un coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. Lui non agiva, 'partecipava'. Quando era giovane, si fa per dire, mentre i suoi compagni giocavano a pallone, lui stava a guardare. Per non inzaccherarsi la scarpe. Non era una cosa autorevole. «Nu guaglione fatt'a vecchio» lo aveva chiamato lo scrittore napoletano Luigi Compagnone. Veniva ricordato solo per un'imbarazzante somiglianza con Umberto di Savoia di cui qualcuno insinuava fosse figlio naturale. Ma questa mi pare una malignità gratuita. Ai danni del Re.

Adesso Napolitano determina la politica italiana e ha una falange di adepti non solo politici ma anche giornalisti. Un giornalista di Repubblica, Mario Pirani, un giornalista molto autorevole, ha chiesto l'incriminazione del Fatto per 'vilipendio al Capo dello Stato', un reato da Codice Rocco, un reato d'opinione che non dovrebbe esistere in una democrazia. E invece ce ne sono un mucchio, non tutti derivati dal Codice Rocco, alcuni di nuovo conio, come quella 'legge Mancino' (bello quello) che punisce «l'istigazione all'odio razziale». Credo sia la prima volta che si vogliono mettere le manette ai sentimenti. Nei regimi si puniscono le azioni, le idee ma, tranne forse che in Corea del Nord, non è obbligatorio anche amare il Capo.

Ma non è solo una questione italiana. Tira una brutta aria in Europa. Che non è quella dell'antisemitismo, ma del liberalismo liberticida. In Francia si vogliono vietare, oltre al velo, i teatri a un comico, Dieudonné M'bala M'bala, che fa satira antimperialista, antiamericana e anche antisemita. Ora, il teatro è storicamente l'ultima ridotta della libertà di espressione, quando tutti gli altri canali sono chiusi. Nella Jugoslavia di Milosevic l'opposizione si faceva a teatro (e per la verità anche fuori, molto di più che in questo regime).

Chiunque non è in linea con la 'communis opinio' è pronto per la garrota mediatica e, all'occorrenza, anche per le manette. Scriveva Stuart Mill che, con Locke, è uno dei padri della liberaldemocrazia: «La protezione dalla tirannide non è sufficente: è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell'opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle pene legali le proprie idee e usanze a chi dissente... a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello».

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2014

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Nella conferenza stampa di martedi' François Hollande a un giornalista che gli chiedeva della sua relazione con un'attrice, rivelata dal settimanale scandalistico Closer, con appostamenti dei suoi fotografi davanti all'abitazione dove si sarebbero svolti gli incontri, clandestini perchè Hollande è tuttora legato alla cosiddetta 'première dame', la giornalista Valérie Trierweiler, il presidente si è rifiutato di rispondere. E ha perfettamente ragione. Gli affari privati di un uomo politico (a meno, naturalmente, non si concretino in reati) non devono riguardare l'opinione pubblica ma solo i diretti interessati. Ma mentre 84% dei francesi ha fatto sapere, attraverso un sondaggio, che questa vicenda non sposta di un ette il giudizio, positivo o negativo, su Hollande e la stampa di quel Paese, almeno quella seria, si è comportata complessivamente con sobrietà, ponendo caso mai delle questioni sulla sicurezza del presidente, in Italia i principali quotidiani hanno dato grande risalto alla notizia, pubblicandola in testa in prima pagina, e 'Porta a Porta' vi ha dedicato una puntata con la presenza di due direttori di giornali specializzati in gossip e di alcune squibe che hanno subito trasformato la trasmissione, nonostante i disperati tentativi di Vespa, in un indegno pollaio.

L'insopportabile puritanesimo americano sta raggiungendo, insieme ad altre nefandezze, anche l'Europa. Negli Stati Uniti non si vota un Presidente ma la sua intera famiglia che, naturalmente, deve essere da 'Mulino bianco'. In Europa non era mai stato cosi', almeno fino a ieri (già il concetto di 'prèmiere dame', con ufficio e sei collaboratori all'Eliseo, contravviene questo civile costume).

In Italia il principale oggetto di questo pruriginoso e torbido interesse per gli affari sentimentali o sessuali di un uomo politico è stato Silvio Berlusconi. Col bel risultato di mettere sullo stesso piano vicende irrilevanti e atti gravissimi, spesso coperti dalla prescrizione ma sfociati alla fine in una condanna definitiva per una colossale frode fiscale (a proposito, ma quando costui comincierà a scontare la sua pena, invece di stare sempre a mezzo?). Il lettore mi puo' dar atto che io non mi sono mai occupato delle donne di Berlusconi (nè sul Gazzettino nè sull'altro giornale cui collaboro Il Fatto Quotidiano) e se in qualche caso l'ho fatto è stato per difendere il suo diritto ad avere la vita privata che più gli piace. Qualche anno fa l'Espresso mi chiese se non c'era proprio nulla che mi piacesse di Berlusconi: «Solo la discrezione di sua moglie». Veronica Lario infatti non si è mai posta come 'prèmiere dame', è sempre stata al suo posto, senza romperci i corbelli.

Confesso che rimpiango i democristiani di una volta. Che non ci hanno mai inflitto le loro mogli e tantomeno le loro amanti (eppure le avranno avute anche loro, le cose cominciarono a guastarsi con Craxi). Della moglie di Giulio Andreotti (di cui Gianni Letta ha giustamente lamentato la mediocrità della commemorazione che ne è stata fatta di recente in Senato) non sappiamo quasi nulla e dei suoi quattro figli ancor meno. Ci ricordiamo solo della sua efficentissima segretaria, Enea, ma questo è un fatto politico. Io rimpiango addirittura le mogli dei dirigenti sovietici che, prima di Gorbaciov e della sua insopportabile Raissa (distruggi un Impero e andrai a Sanremo) non comparivano mai in pubblico e la cui esistenza si scopriva solo ai funerali degli anziani mariti, infagottate in lise pelliccette di Astrakan. A questi bizzarri rimpianti ci costringe la devastante volgarità, dilagante in tutti i campi, dell'oggi.

Massimo Fini

Il Gazzettino, 17 gennaio 2014