Giovedì nel Famedio del cimitero Monumentale che raccoglie i milanesi illustri è stato inserito Silvio Berlusconi. Molte le polemiche. Eccessive, perché è fuor di dubbio, come ha ricordato il sindaco Beppe Sala, che Berlusconi a Milano abbia creato una grande impresa, abbia costruito, abbia dato lavoro a moltissime persone anche se, evidentemente, tutto ciò non lo ha fatto in modo limpido tanto che i Cavalieri del Lavoro (onesto) non ne hanno sopportato la presenza nella loro federazione e lo hanno cacciato in malo modo.
Fin qui siamo nell’accettabile. Inaccettabili invece sono le parole con cui Paolo Berlusconi ha voluto concludere la cerimonia: “Silvio era un uomo buono, giusto e generoso”. Fatta pur la tara dell’amore fraterno è difficile definire “buona” una persona che truffa, in combutta con un'altra, una ragazza minorenne, orfana di entrambi i genitori morti in circostanze tragiche. Sono cose dei primissimi anni Settanta. Anna Maria Casati Stampa, così si chiama la ragazza, dopo la morte dei genitori si trova a gestire un imponente patrimonio, non solo la famosa villa di Arcore, con i suoi Luini e il suo grande parco, ma anche i terreni di origine feudale che i Casati Stampa hanno a Cusago e dintorni: 246 ettari. Anna Maria ha bisogno di liquidità perché deve pagare le tasse di successione. Per sua sfortuna ha come protutore Cesare Previti già in combutta con Berlusconi. Previti vende a Berlusconi la villa di Arcore, i Luini, il grande parco alla cifra irrisoria di 500 milioni e il territorio di Cusago alla cifra ancor più irrisoria di 1 miliardo e 700 milioni. Il tutto fu pagato alla Casati Stampa con azioni di aziende di Berlusconi non quotate in Borsa e quindi dal valore assai dubbio. Infatti Anna Maria Casati Stampa non riesce a realizzare il dovuto. Arrivano il Gatto e la Volpe, cioè Previti e Berlusconi, che le dicono: “Niente paura te le ricompriamo noi, a metà prezzo”. Una truffa nella truffa.
Questi dati non sono farina del mio sacco, li ho ricavati dal documentatissimo libro del giornalista Giovanni Ruggeri, Berlusconi, gli affari del presidente, 1994. Fui però io a riportare la truffa all’onor del mondo in tre pezzi che scrissi per L’Indipendente nel 1994. Berlusconi e Previti fecero finta di nulla ma tirato da me per i capelli Previti si decise a querelare Ruggeri, me e L’Espresso che aveva ripreso questa parte del libro di Ruggeri. Nel 2008 la Corte di Appello di Roma sentenziò che la ricostruzione di Ruggeri si basava “sulla sostanziale veridicità putativa dei fatti”. Io diedi ampio risalto a questa sentenza di assoluzione, ma curiosamente né Ruggeri né L’Espresso ne fecero menzione. Anzi, qualche tempo dopo, Ruggeri fu cosi intimidito che intimò di non riprendere i contenuti del suo libro. Lo stesso Ruggeri mi raccontò che avendo contattato telefonicamente Anna Maria Casati Stampa, che nel frattempo per sfuggire ai clamori di quello scandalo si era rifugiata in Brasile e aveva sposato un Donà delle Rose, le chiese se non intendeva rivalersi delle truffe nei confronti di Berlusconi e Previti. Anna Maria, ormai donna, rispose di no, temeva che i due fossero mafiosi o comunque vicini alla malavita e non voleva avere più grane.
Ora si può capire, anche se in nessun modo giustificare, l’imprenditore che corrompe la Guardia di Finanza, corrompe i testimoni, corrompe i magistrati, ma essere l’artefice di una truffa miliardaria ai danni di un’orfana minorenne, di una persona inerme e totalmente indifesa, dà l’esatta misura della statura morale e del cinismo dell’uomo.
Questa storia infame io l’ho riportata a galla ripetutamente, ma non sembra interessare nessuno, né ai berluscones, ovviamente, né agli anti. Anzi qualcuno mi ha detto “Che figo il Cavaliere a spolpare una nobile piena di quattrini”. Perché la maggiore responsabilità di Berlusconi è quella di aver tolto agli italiani quel poco di senso della legalità e della moralità che gli rimaneva.
Un altro episodio, di portata più modesta. Nella notte del 27/28 maggio 2010 la marocchina Karima El Marough, diventata poi famosa come Ruby, viene arrestata dalla Questura di Milano per un furto. Da Parigi Silvio Berlusconi, premier, con cinque telefonate “tambur battant” al suo capo di gabinetto lo convince che la ragazza venga affidata alla consigliera regionale di Forza Italia Nicole Minetti, che poi la smisterà ad una prostituta ufficiale, che non era esattamente il posto dove doveva andare una ragazza minorenne con i problemi di Ruby. Tutto questo nonostante la Pm del Tribunale dei minori Annamaria Fiorillo, la sola ad aver titolo in questa questione, avesse disposto che Ruby venisse collocata in una comunità. Anche il pretesto preso da Berlusconi, che la marocchina Ruby gli fosse stata indicata come nipote del dittatore egiziano Mubarak, lascia perplessi. A parte il fatto che il Parlamento italiano votò, vergognosamente, che una marocchina era egiziana, non è che se uno è nipote di un uomo importante deve godere di protezioni speciali.
È stato accertato dal Tribunale di Milano, per ammissione dello stesso Berlusconi in una delle udienze del processo, che l’ex Cav pagava 2.500 euro al mese a ciascuna delle cosiddette “Olgettine” perché tacessero o mentissero su quanto avveniva a Villa San Martino durante i cosiddetti “Bunga Bunga”. Inoltre a molte di queste ragazze era stato dato un affitto gratuito. Ma adesso morto il fu Cav, le ragazze sono state sfrattate dalla famiglia Berlusconi da un giorno all’altro, cioè prima le ragazze sono state sfruttate, prostituendole, poi sono state messe sul marciapiede. Un “usa e getta” di grande cinismo.
Questa è la vera cifra di Silvio Berlusconi che ora, regolati anche gli ultimi conti, può riposare tranquillo nel mausoleo cristiano-massonico di Arcore ed essere additato come “uomo buono, giusto e generoso” (generoso finché gli ha fatto comodo) nel Famedio del cimitero Monumentale di Milano.
Io sono un “Ambrogino d’oro”, cioè uno che ha bene meritato della città, ma in quel Famedio, non si sa mai, non vorrei esserci ficcato a nessun costo. Ho sempre avuto in gran sospetto le “anime belle”. E mi vien da concludere con l’aggettivo che Sartre, nella Nausea, dopo aver visitato il Museo di Bouville che ospita tutti i notabili della città, appioppa loro: “sporcaccioni”.
Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2023
Parecchi anni fa quando facevo, o perlomeno cercavo di fare, del vero giornalismo, che è quello sul campo, mi trovavo, per lavoro, in Guinea-Bissau, ospite di una missione cattolica, tenuta da un bravo padre saveriano, Giuseppe Fumagalli, originario di Brugherio alle porte di Milano. La missione si occupava di una tribù del luogo, i Felupe, che vivevano principalmente di agricoltura e in quel periodo il cruccio di padre Fumagalli era che i Felupe si rifiutavano cocciutamente di usare la falciatrice meccanica della missione. Padre Fumagalli se ne lamentava e quasi se ne disperava con me. Non capiva come quella gente potesse rifiutare l’aiuto della falciatrice che fa in tre ore, e senza sforzo, quello che una famiglia Felupe fa, con fatica, in una settimana. Per i Felupe la paglia andava tagliata a mano, col falcetto. “Questa gente – mi diceva padre Fumagalli- ha una cultura totalmente conservatrice, non progressista, gli manca il concetto stesso di progresso, cioè cammino in avanti verso il meglio, verso una vita migliore. Mi ricorda certi contadini del mio paese che, come mi raccontava mio padre, quando a Brugherio comparvero le prime macchine agricole, dicevano: ‘Non permetterò mai che nei miei campi entrino quelle macchine che fanno fumo’. Allo stesso modo quando arrivarono i primi fertilizzanti, molti non li vollero usare. Erano mentalità conservatrici, come ritrovo ancora oggi qui in Africa”.
Eravamo a metà degli anni Settanta e a padre Fumagalli non veniva nemmeno il sospetto, che forse oggi qualcuno comincia a nutrire, che quei contadini potessero avere le loro buone ragioni. Tantomeno ne potevano avere, nella mente di un missionario animato dalle migliori e più pie intenzioni, i Felupe.
Un pomeriggio assistetti a una specie di ‘showdown’ fra padre Fumagalli e il capo dei Felupe. Dopo molte cerimonie, convenevoli e discorsi che giravano intorno alla questione, il Felupe disse: “Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio, la tua falciatrice distrugge questo equilibrio, perciò non la vogliamo”. Ma poiché padre Fumagalli continuava ad insistere e voleva appioppargli a tutti i costi la sua falciatrice, una notte, per buona misura, gliela incendiarono e la faccenda finì lì.
Oggi è tutto un fervore per “salvare” l’Africa, dalla fame, dalla miseria, dall’ignoranza (l’Africa nera è considerata dalla sociologia politica più avvertita all’ultimo gradino del digital divide che considera il divario fra chi ha la capacità di immagazzinare e possedere conoscenze attraverso gli strumenti dell’informatica). Fra questi progetti c’è il cosiddetto “Piano Mattei” di meloniana iniziativa. A parte il fatto che il “Piano Mattei”, così come altri progetti dello stesso genere, è un modo per rapinare ulteriormente, facendo finta di aiutarli, i Paesi africani delle loro risorse, a me pare evidente che abbiamo messo questi paesi, per usare un espressione tratta dall’alpinismo, in una posizione ‘incrodata’: non possono più tornare indietro, all’‘Africa felix’, al tempo felice dei Felupe o degli Azande, ma se vanno avanti saranno ulteriormente strangolati dal nostro modello di sviluppo, da poveri che sono diventeranno miserabili. C’è una distinzione sociologica fra povero e miserabile. Perché una cosa è essere poveri dove tutti più o meno lo sono, altra è esserlo quando intorno a te prilla una ricchezza sfacciata. Che è una situazione che riguarda non solo l’Africa d’oggi ma tutto il mondo degli emirati.
“Per noi la vita va avanti bene quando tutte le forze della natura sono in equilibrio”. Noi quest’antica saggezza l’abbiamo perduta e a farne le spese non saranno solo i poveri e i paesi poveri, ma anche i paesi ricchi e ricchissimi e gli uomini ricchi e ricchissimi che hanno creato un sistema, che per un meccanismo psicologico elementare, non può che portare alla frustrazione perenne. In un mondo così complesso dov’è diventato difficilissimo per tutti orientarsi, questi stanno tagliando il ramo dell’albero su cui sono seduti. Siccome non sono buono, non ho la bontà sanguinaria di Santa Caterina da Siena o di Madre Teresa di Calcutta, riderei a crepapelle se non fossi anch’io seduto sullo stesso ramo dell’albero, a guardare il precipizio, mentre i miei strilli non servano assolutamente a nulla.
Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2023
L’affluenza alle urne in Italia scende di anno in anno, a volte gradualmente, altre precipitosamente, con una tendenza che pare irreversibile anche se opportunamente occultata da tutti i media del Paese. Foggia, dal 66.74% del 2019 è scesa al 60.38% del 2023, a Monza, per il seggio che fu del fu Berlusconi, ha votato il 19.23%, in Trentino dal 64.05% al 58.39%, in Alto Adige dal 73.9% al 71.5%. Da notare che altrettanto opportunamente viene nascosto il dato delle nulle e delle bianche, cioè di gente che risulta fra i votanti ma in realtà non ha votato. È evidente che c’è una disaffezione degli italiani non tanto verso la politica, ma verso il sistema dei partiti, queste mafie legali che sono le padrone delle nostre vite, grazie anche, proprio come la mafia, ad affiliazioni continue.
Per consolarsi si sottolinea che anche in altri Paesi europei, come la Germania o la Francia, l’affluenza è mediocre. Ma lo è per ragioni diametralmente diverse. I tedeschi, poniamo, si fidano della loro classe dirigente, che poi vinca l’Spd o la Cdu fa lo stesso. Ci si fida della loro onestà, etica, intellettuale e materiale. In Germania nessun parlamento voterebbe mai che una marocchina è un’egiziana. Interessante anche il dato che a Bolzano sono stati eletti solo cinque italiani. Non ci si fida degli italiani quasi sempre corrotti, collusi e comunque familisti, anche l’ottima Meloni non ha potuto sfuggire a queste regole non scritte.
Il fatto è che noi votiamo, quando votiamo, sapendo poco o nulla di coloro che ci vanno a rappresentare. In una grande città come Milano tu non vedi gli uomini politici, non vanno al cinema, non vanno a teatro, non circolano per la città. Quando gli torna opportuno fanno “bagni di folla” con truppe cammellate e addestrate al plauso.
In Italia non si fa che ricorrere a tornate elettorali, politiche, amministrative, regionali. Durante queste tornate qualche candidato viene pescato dalla Magistratura con le mani nel sacco. Apriti cielo, subito i berluscones e non solo loro gridano alla “giustizia ad orologeria”. Famoso, almeno per chi ha una certa età, è il “caso Teardo” del 1983. Teardo, che era stato presidente della Regione Liguria, scaduto il mandato si era presentato alle elezioni politiche. Fu arrestato su mandato dei giudici Del Gaudio e Granero per “associazione a delinquere, concussione, concussione continuata, peculato ed estorsione”. Era il prodromo di Mani Pulite. Si farà dodici anni di galera, ma se non fosse intervenuta la magistratura sarebbe ancora li.
Quel geniale e insieme bizzarro pensatore che è stato Rousseau, che nella prima fase della sua vita fu illuminista e nella seconda anti-illuminista, diceva che l’unica forma possibile di democrazia è quella diretta, che vuole però ambiti circoscritti quale era la Ginevra in cui viveva (per dire della preveggenza di Rousseau nel “Discorso sulla scienza e le arti” prefigura, paro paro, la “società dello spettacolo” che ci ammorba oggi e i pericoli cui può portare la Scienza).
Ma per immaginare una democrazia diretta non è necessario ricorrere a Rousseau. La democrazia è esistita fino a due anni prima della Rivoluzione francese. Cioè la democrazia c’era quando non sapeva d’esser tale. L’assemblea del villaggio decideva tutto ciò che riguardava il villaggio, decideva della vendita, scambio e locazione dei boschi comuni, della riparazione della chiesa, del presbiterio, delle strade e dei ponti. Riscuoteva ‘au pied de la taille’, cioè proporzionalmente, i canoni che alimentavano il bilancio comunale, poteva contrarre debiti ed iniziare processi, nominava, oltre i sindaci, il maestro di scuola, il pastore comunale, i guardiani delle messi, gli assessori e i riscossori di taglia. Regole rigorose erano fissate perché gli abitanti del villaggio avessero notizia in tempo utile che era stata convocata un’assemblea. Certo gli abitanti del villaggio, i “villani”, non partecipavano, se parliamo della Francia, ma il sistema era in uso in quasi tutti i Paesi europei ed estremizzato in Islanda (vedi gli scritti di Alain de Benoist), alle grandi decisioni che si prendevano a Versailles. Ma tali decisioni ci mettevano anni per arrivare al mondo contadino, che rappresentava insieme agli artigiani il 90 per cento della popolazione, per cui si può dire che quando arrivavano erano ormai obsolete, e quindi di fatto la comunità di villaggio godeva di un amplissima autonomia. Questo sistema funzionò benissimo fino al 1787, quando, sotto la spinta degli interessi e anche della smania regolamentatrice della borghesia avanzante, un regio decreto stabilì che non era più la collettività del villaggio a decidere autonomamente, poteva farlo solo attraverso esponenti da essa eletti. Era nata la tragedia della democrazia rappresentativa.
Il Fatto Quotidiano, 31.10.2023