Il 20 marzo invece della Milano-Sanremo, storica gara di apertura della stagione ciclistica, vinta da un belga, Jasper Stuyven, si è celebrata la Giornata internazionale della felicità, istituita dall’ONU nel giugno del 2012. Infinite sono le celebrazione delle giornate internazionali o mondiali nel corso dell’anno, non si salva un sol dì che il Signore manda in terra. C’è la Giornata internazionale della pace, il Giorno della memoria, la Giornata del velo islamico, la Giornata dell’alfabeto braille, la Giornata della vita, la Giornata del malato, la Giornata del sonno, la Giornata della voce, la Giornata della neve, la Giornata della guida turistica, la Giornata dell’orso polare, la Giornata del gatto, la Giornata della pizza italiana, la Giornata delle torte, la Giornata della nutella e qui ci fermiamo per pietas nei confronti del lettore.
A parte quella della memoria, sono celebrazioni pleonastiche, superflue quando non addirittura grottesche. Ma la più stolida è proprio la Giornata internazionale della felicità. È vero che l’ONU fa riferimento al “diritto alla ricerca della felicità” inserito nella dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, però l’edonismo straccione contemporaneo l’ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità. Sono i diritti impossibili creati dalle suggestioni dell’Illuminismo, come il diritto alla salute (esiste semmai un diritto alla sanità, cioè ad essere curati sempre che lo si voglia, proprio nei giorni scorsi la Spagna, paese cattolico, ha legalizzato l’eutanasia). Esiste la salute, quando c’è, non il suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto e per ciò stesso infelice. La sapienza antica era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato e ce lo si può godere.
“La vita oscilla fra noia e dolore” può affermarlo solo Schopenhauer, rentier già corrotto dal benessere. L’uomo occidentale, che ha creato un modello di sviluppo imperniato sull’inseguimento spasmodico del bene, anzi del meglio, invece che sulla ricerca dell’armonia e dell’equilibrio in ciò che già c’è, si è costruito, con le sue stesse mani, il meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità.
Non è il sonno, ma il Sogno della Ragione che ha partorito mostri.
Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2021
L’ ‘annus horribilis’ segna una straordinaria défaillance della Scienza medica. Si è fatta sorprendere da un’influenza, certamente molto aggressiva, ma pur sempre un’influenza, non un morbo sconosciuto venuto da Marte. Di influenze ce ne sono ogni anno, vengono studiate, classificate, monitorate. La Scienza medica si basa, come ogni altra scienza, sulla ricerca, il che vuol dire non solo ricercare strumenti nuovi e più efficaci per curare un morbo conosciuto, ma provare a prevederne gli sviluppi. È arrivato un profluvio di interventi di epidemiologi, di virologi, di infettivologi, nessuno dei quali era d’accordo con l’altro, segno appunto che non se ne sapeva e non se ne capiva niente, confondendo ulteriormente una popolazione già turbata. L’unica cosa che, all’inizio, la Scienza medica è riuscita a dirci è: restate a casa. Ma questo avrebbe potuto dirlo anche un bambino di 5 anni. Dopo aver utilizzato cure non solo inefficaci ma a volte dannose, dando così il colpo di grazia al malato, si è deciso di ricorrere ai vaccini. Con un certo ritardo direi, se la campagna vaccinale è cominciata, più o meno in tutti i paesi, da poco più di un mese.
Adesso per inoculare il vaccino si sono ingaggiati medici di base, odontoiatri, dottorandi, infermieri, farmacisti. Ma, logistica a parte, il problema non è questo: fare un’iniezione è cosa che è in grado di fare una domestica o un marinaio o lo stesso interessato, avendo le necessarie informazioni. Il problema sta nel fatto che il medico di base dovrebbe essere in grado di capire alla svelta se certi sintomi segnalati dal paziente sono Covid o col Covid non hanno nulla a che fare, ed eventualmente, nei casi meno preoccupanti, curarlo a casa evitando di intasare gli ospedali. Ma, pur con molte eccezioni, il medico di base non è in grado di farlo, di fare il medico, è un burocrate che ha bisogno dell’ausilio della tecnologia. Quando vai in ambulatorio non ti guarda nemmeno in faccia, ti prescrive subito una mezza dozzina di esami, con perdita di denaro e soprattutto di tempo che nel caso del Covid è particolarmente decisivo. C’è una differenza fondamentale fra l’attuale medico di base e il vecchio “medico di famiglia”. Il medico di famiglia conosceva bene la tua storia e appunto quella della tua famiglia ma, soprattutto, il suo unico strumento di conoscenza era proprio il corpo del malato, gli respirava addosso (adesso non vengono a visitarti nemmeno a casa, le diagnosi le fanno a distanza, magari utilizzando il video). E conoscendo il corpo e le reazioni, fisiche e psicologiche, dei suoi pazienti, era in grado di fare le necessarie comparazioni e valutazioni, la diagnosi. Il rapporto di fiducia col proprio medico è già una cura. Non si può avere lo stesso rapporto con una macchina.
Sui vaccini si è capito poco. Si sa che gli attuali vaccini antiCovid non immunizzano per sempre, ma hanno una durata limitata. Per un anno? Per soli sei mesi, per tre? Se fosse per tre mesi o anche per sei sarebbe un grosso guaio, non solo per i rifornimenti e la logistica, ma per la psicologia del cittadino il quale non ha troppa voglia di farsi ogni due per tre la trafila per rivaccinarsi, come fosse un malato di reni perennemente in dialisi. E questo potrebbe aumentare l’istintiva ripulsa verso i vaccini. Non è certo che chi è vaccinato non sia più contagioso. Non si sa a che livello di vaccinati si raggiunge l’agognata “immunità di gregge”.
C’è stato poi il ‘pasticciaccio’ Astrazeneca che ha creato il panico nelle popolazioni, ma anche nei governi. E la sfiducia nella Scienza medica su base tecnologica è giunta al punto che le rassicurazioni dei vari Enti di controllo, Ema, Aifa, Oms, hanno ottenuto l’effetto opposto. Le morti sospette in seguito al vaccino sono, ad ora, una trentina circa su decine di milioni di vaccinati (gli “effetti indesiderati” sono molti di più, questo è fisiologico, perché nessuna medicina, anche la più usata, poniamo l’aspirina, è del tutto innocente, perché altera comunque gli equilibri del nostro corpo, basta leggere un qualsiasi ‘bugiardino’). Una trentina di decessi su decine di milioni di vaccinati fanno in percentuale lo 0,000 virgola. Un’inezia (anche se poi vai a dirglielo a uno che è morto in seguito al vaccino che lui è irrilevante per la statistica, e questo vale anche per quel che dirò in conclusione). È quindi del tutto irragionevole aver paura per dei decimali di pericolosità. Ma questo vale anche per il Covid19. La percentuale, in un anno, di decessi per Covid in Italia è stata dello 0,16%. Poniamo pure che senza le misure di contrasto, fra le quali la più decisiva è il distanziamento sociale, i decessi sarebbero quadruplicati. Saremmo allo 0,60% della nostra popolazione. È stato ragionevole per questo 0,60 derubare il restante 99,4 di un periodo di vita che non tornerà più, frantumare la socialità, la struttura nervosa, l’economia di un’intera popolazione, oltretutto con gravi conseguenze che si protrarranno molto oltre la fine della pandemia, se mai fine ci sarà? Secondo me no.
Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2021
“Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua” (Celentano, Azzurro). E così dopo averci fottuto il Natale, dopo averci fottuto le vacanze sulla neve, dopo averci fottuto la Pasqua, ci fotteranno anche l’estate. E visto che abbiamo preso la strada dei lockdown fin dall’inizio è la cosa più ragionevole da fare. L’errore più grave del governo Conte è stato di aprire le gabbie la scorsa estate senza prevedere quello che i suoi stessi tecnici avevano previsto e del resto era ovvio: la seconda ondata. Errore cui si è aggiunto quello di non rinforzare adeguatamente i trasporti ricorrendo anche, se necessario, alla requisizione di mezzi privati. In un’economia di guerra, quale è quella in cui stiamo vivendo, si ricorre anche a metodi di guerra. Quando si sono violati tutti i diritti di libertà personale non si vede perché non si dovrebbe violare anche il sacro diritto di proprietà. Se il governo Draghi dovesse aprire le gabbie per l’estate ci sarebbe una quarta ondata che porterebbe a un nuovo lockdown che porterebbe successivamente a una riapertura e quindi a una quinta ondata, a una richiusura, in una spirale di cui non si intravede la fine. Né è lecito sperare troppo nei vaccini, come si sta facendo, perché il virus muta in continuazione. Ci sono già in circolazione quattro o cinque varianti che noi chiamiamo inglese, brasiliana, sudafricana, nigeriana solo perché la mutazione è stata individuata la prima volta in quei Paesi, magari lontani e le riteniamo perciò meno preoccupanti, ma in realtà si tratta sempre dello stesso virus, sia pur mutato, tant’è che la cosiddetta ‘variante inglese’ copre già i due terzi del nostro territorio e quindi non è affatto inglese. In ogni caso il commissario straordinario, generale Figliuolo, prevede che si raggiungerà l’immunità dell’80% della popolazione a fine settembre. Estate fottuta quindi. Si salveranno solo quelli che abitano in regioni di mare, perché benché il nostro, con Draghi, sia diventato a tutti gli effetti uno stato di polizia, dubito molto che la pula riesca a far sloggiare dalle spiagge i bagnanti ma sarebbe meglio dire gli aspiranti tali perché negli ultimi anni ho notato che sempre meno persone nuotano, preferiscono starsene sul bagnasciuga o là dove si tocca. Evidentemente temono di sentirsi male in acqua e di lasciarci le penne. Non c’è altra ragione, perché in un mare dove si conoscono le correnti non si corre alcun pericolo nemmeno se è leggermente mosso (solo Sgarbi, questo ‘D’Annunzio de noatri’, è riuscito a farsi abbattere, con un effetto irresistibilmente comico, da un’ondina di 30 centimetri). La bandiera nazionale è diventata la paura, non è più il Tricolore.
L’Italia è una penisola in mezzo al Mediterraneo e quindi la maggioranza delle nostre regioni è bagnata dal mare, ma ce ne sono alcune, molto popolose, Lombardia e Piemonte, che non lo toccano. Cesare Pavese e Paolo Conte hanno cantato in modo magistrale cosa significhi il mare per chi abita “al di qua delle colline”. Mare ed estate coniugano il più proibito dei nomi: felicità. È d’estate, al mare, che si intrecciano gli amori come raccontano decine e decine di canzoni, almeno le canzoni di un tempo, quelle di oggi parlano più volentieri di soldi. Niente felicità per milanesi e torinesi. Ed è, forse, un giusto contrappasso perché hanno distrutto la Riviera ligure, coprendola di cemento, da La Spezia a Ventimiglia (con l’eccezione virtuosa delle Cinque Terre).
Dice: se non puoi andare “al di là delle colline” puoi andare però sulle colline (in montagna no, alla tua età fa male per la pressione) e lì stai al fresco e ti riposi. Gli è che è un riposo che somiglia un po’ troppo all’eterno riposo. È pieno di vecchi perché i vecchi al mare non ci vanno ritenendo, non a torto, che faccia male. Allora il lago. Ho vissuto per dieci anni, sia pure a mezzadria, a Lugano e ogni volta che guardavo il lago mi veniva in mente il mar (“vide un lago ed era il mar”, il Prode Anselmo). Il lago mi mette una “infinita tristeza”. Allora fattene una ragione e resta a Milano. Luglio è il mese più caldo dell’anno e Milano è un forno avvolto dalla caligine (niente cielo azzurro, caro Adriano) con un insopportabile effetto phon, un forno comunque trafficatissimo dalle automobili perché per ragioni storiche (la Fiat e tutto il suo enorme indotto si fermava solo ad agosto) gli italiani a luglio restano in città. Di persone in giro invece non se ne vedono, per il caldo i milanesi non osano uscire di casa, si fanno lockdown da soli. Se sopravvivo mi divertirò a mandare i conti dei morti e degli impazziti per il caldo, a Milano, a Draghi e ai suoi generali.
Insomma il terrorismo epidemiologico delle Autorità, appoggiato da un poderoso apparato massmediatico, quando non ci toglie la vita ci toglie ciò che è più importante: la voglia di vivere. È vero che una coscienza che si spegne si spegne per sempre. Ma è altrettanto vero che il tempo perduto è perduto per sempre. Il tempo non torna indietro. Penso, poniamo, ai ragazzi e alle ragazze di 14 e 15 anni che vengono derubati del periodo più inquieto ma anche più denso della vita: l’adolescenza. Ed è anche vero che, secondo le statistiche (viviamo ormai di statistiche), l’età media dei morti per Covid è di 81 anni per gli uomini e 86 per le donne. C’è un’età in cui è decente morire e, in certe condizioni, è indecente vivere.
Il terrorismo epidemiologico non è che una specializzazione del terrorismo diagnostico che a sua volta è figlio del principio assunto dalla Scienza medica secondo la quale il prolungamento della vita è il suo principale fine e il bene supremo. Secondo questa ideologia dovremmo fare, qualsiasi età si abbia, sei checkup l’anno, non bere, non fumare. Dovremmo vivere da vecchi fin da giovani. Siamo tutti “a rischio”. È ovvio: è vivere che ci fa morire.
Già Max Weber, nel 1918, aveva messo in dubbio questa impostazione: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di essere vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (Il lavoro intellettuale come professione). Ma ciò involge una questione che va oltre la tecnologia medica e riguarda la Tecnica in se stessa. È stato Martin Heidegger ad affrontare il fondamentale problema della Tecnica e della sua ambivalenza, dei suoi effetti positivi e negativi sulla nostra vita. Heidegger è l’ultimo filosofo degno di questo nome (non possiamo considerar tali Cacciari e simili, che, come dice Ivano Fossati, sono, se va bene, dei docenti di filosofia. Del resto la filosofia è greca e tedesca). Ed Heidegger era attivo negli anni Trenta del Novecento. Vuol dire che da allora non c’è più un pensiero che pensi sé stesso. Heidegger conclude la sua poderosa riflessione con questa frase semplice, semplice: “Dio ci salvi dalla Tecnica”. Se Dio non ci pensa, pensiamoci noi.
Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2021